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Parlare delle raccolte di racconti può risultare complicato non per la forma narrativa in sé – considerata quella capace di dipanare in maniera compiuta vicende e personaggi in un numero relativamente limitato di battute, nonché la scintilla da cui potrebbe partire una narrazione più ampia – quanto per il fatto che le considerazioni scaturite dalla lettura spesso non hanno modo di aggrapparsi a un’unica trama che, se ben strutturata, risulta quasi sempre un perfetto salvagente da cui far partire le proprie considerazioni. Per le raccolte c’è un appiglio diverso, è sfuggente, è scritto ma non si vede ed è noto come la voce dell’autore. Tale voce, se consapevole, riesce ad accompagnare il lettore attraverso le storie più disparate mostrandosi capace d’essere mutevole e chiara al contempo.

La raccolta in questione si intitola Il Punto di vista del sole, di Marzia Grillo, pubblicata da Giulio Perrone Editore. Si proverà qui a trattarne il contenuto, cercando di evidenziare le caratteristiche comuni ravvisate; non verranno trattati tutti e tredici i racconti così da evitare di schematizzare l’esperienza di fruizione – aspetto che ne indebolirebbe il portato –, tentando in questo modo di darne il giusto risalto e non togliendo ai futuri lettori tutto il piacere della scoperta.

«Quanti rifiuti consente un’unica memoria?»

Questo è uno degli interrogativi che la protagonista del primo racconto, Il cigno, si pone mentre, a bordo del pedalò, è costretta ad affrontare il fidanzato Luigi e la sua sorda ostinazione nel chiederle di sposarla; quest’ultima spinge il lettore a chiedersi dove possa portare un amore cieco che, parafrasando una canzone di Max Gazzè, si potrebbe quasi definire amore pensato. Già dall’inizio della narrazione è percepibile come, sebbene la cornice nella quale la vicenda si svolge sia fra le più gradevoli – in effetti cosa c’è di più piacevole di un giro in pedalò e di un bagno con la persona che si ama? –, l’immagine, e con essa il racconto, contenga in sé i semi del proprio disfacimento o comunque lo scarto che spesso può celarsi fra la visione generale e uno sguardo più profondo. Il giro sul pedalò, il lago, il sole che circoscrive e illumina la scena fanno da sfondo a una situazione che pare quasi claustrofobica, di rassegnata negazione di sé e dei propri desideri. Questa tendenza a mostrare le crepe, è uno dei tratti comuni a tutti i racconti, nulla si limita a essere solamente ciò che sembra.

E così, per esempio, ci si trova nel racconto intitolato Narratori onniscienti in cui dietro una cena fra una coppia di donne – che in un passato più o meno recente stavano insieme – tra una portata e l’altra viene parallelamente costruita la rappresentazione visiva di un allagamento nel quale le noncuranti protagoniste continuano la loro cena. Osserviamo emergere, fra le altre cose, anche una ricorrenza tematica che trova spazio in altre storie, vale a dire il riferimento al mondo editoriale. I due personaggi lavorano nel campo dell’editoria, una delle due è una traduttrice e l’altra si occupa comunque di libri e revisioni di traduzioni; è proprio nei dialoghi relativi al lavoro che rivelano una delle loro abitudini di coppia – raccontare i libri a cui stanno lavorando in prima persona – da questo loro modo di interagire risulta evidente non solamente il dolore relativo alla relazione finita ma anche la consapevolezza dell’altro e di sé, come quando viene detto:

«A volte non so dire se queste cose le ho lette o me le sono sognate» ho risposto. «Ma non serve che ti ripeta che preferisco la finzione alla realtà…»
«… perché è più coerente», e avevi imitato il mio tono di voce.

Il mondo dell’editoria aleggia o si potrebbe addirittura considerare una sorta di coprotagonista anche in altri illuminanti racconti, Mi riconosci? e Ghost in traslation sono fra quelli che danno maggiormente il senso di entrambe le tendenze. Nel primo ci si trova con i due protagonisti a una festa nella quale ci sarà la premiazione di una gara di poesia che è il contesto in cui, con un brillante rovesciamento di prospettive (e voci), l’animale interiore della protagonista prende il sopravvento, rendendola disinibita e irriverente; anche prima di questo passaggio, abbiamo delle osservazioni lapidarie su quell’ambiente e sullo stato della poesia, come quando viene detto: «Dal canto mio, trovo tutta la poesia – da Saffo in avanti – posticcia e inconcludente. Sogno i poeti su una graticola, arrosto, flambé. Dov’è finita la linfa? Quando hanno perso il sapore della battaglia?»

Se qui l’editoria – e la poesia – fanno da cornice a una tragedia che è tutta privata e che per contrasto viene enfatizzata, in Ghost in traslation si osserva il tutto dall’interno, o comunque da un punto di vista più strettamente concettuale; se ne ha un esempio calzante quando G. scrive: «Io inserisco le virgole e raddrizzo i significati, ma tu rendi tutto migliore. Nessuno dice mai che nelle buone traduzioni della cattiva letteratura accadono i miracoli, i libri mutano».

In questo caso Grillo, pur scegliendo di far parlare solo una delle interlocutrici, crea una sorta di cadenzato monologo che sa essere tagliente e toccante al contempo; riesce inoltre a far intrecciare professionale e personale ricreando quella stessa impressione – descritta in precedenza – di immagine che porta con sé i semi del proprio disfacimento. Si ha così la sensazione di un dolore in differita che non risulta affatto mitigato: «Forse hai perso il tuo significato in una traduzione, e non sta a me cercarlo», oppure: «Ebbene, ho passato gli anni della tua assenza a scoprire e coltivare la cosiddetta verità narrativa, in cui le regole le detta chi scrive».

A queste osservazioni possono aggiungersi quelle riguardanti più da vicino l’annosa questione sulla traduzione come tradimento ma anche quelle della scelta delle parole; il 16 agosto G. scrive: «[…] ho aperto il dizionario e cercato i sinonimi di tradimento, ed erano molti di più dei suoi contrari. Dopodiché ho cercato i sinonimi di fedeltà, che erano molti di più dei suoi contrari. Com’è possibile?»

Passando al racconto che dà il titolo alla raccolta, si può verosimilmente considerare fra i più toccanti, oltre che quello in cui Grillo alterna i punti di vista – peculiarità già esperita in alcuni dei racconti su cui ci si è soffermati –, riuscendo ad abbinare a ognuno di essi una percezione del dolore che parte dal fisico fino ad arrivare al mistico-religioso. Ne Il punto di vista del sole, infatti, non vediamo soltanto la triste storia di un bambino – di cui la sua maestra dice «Ho già detto che quel bambino ricordava il Sole nel tratto più alto del cielo, quando le ombre sono solo punture negli occhi?» – e della sua famiglia, ma è possibile notare come la sofferenza venga raccontata sì a più voci ma con una voce – quella di Grillo, per intenderci – profonda e mai urlata. Tra i passaggi più emblematici vanno di certo citati quelli del padre: «[…] Dio si scosta un attimo dal punto fermo dell’universo, e il baricentro etico del mondo vacilla. I continenti si scrollano di dosso la polvere, i millenni di rocce erose, marcite, scollate dal vento – e i bambini smettono di respirare. È semplice. È molto più semplice di quanto si pensi».

E sempre di semplicità si parla in chiusura quando si svela il legame con il titolo del racconto: «Il punto di vista del Sole è il più semplice, perché coincide con quello di Dio: si tratta di pura assonometria».

L’ultimo racconto su cui ci si soffermerà è quello intitolato *Macchina e chiude la raccolta stessa e che si potrebbe considerare quello nel quale il linguaggio si fa poesia pur essendo principalmente una macchina a parlare. Ancora una volta la scrittura di Grillo riesce, travalicando i limiti del genere o del narrato in sé, a raccontare l’umano e le sue imperfezioni. Così ci si può trovare davanti alla Macchina, un oracolo che procede a ritroso, e sembra quasi provare pietas per le sorti di un’umanità ottusa. Come quando si legge: «Pur non toccandoci, la Macchina percepisce, comprime e decomprime la nostra nostalgia e il nostro strazio. Irradia meccanicamente un ritmo e un respiro concilianti, mentre narra l’apocalisse della civiltà, rendendola tollerabile: […]».

Ma è nel momento in cui la Macchina – verosimilmente la stessa di cui si parla nel racconto Ghost in traslation, lì descritta come «meccanica e arcaica» – si rivolge direttamente agli uomini che viene fuori tutta la sua compassione che porta con sé un certo senso di straniamento considerando che si tratta di un insieme di viti; inoltre, l’aspetto profetico è brillantemente espresso in passaggi come quello che segue: «Prede fra le prede, siete ora preda l’uno dell’altro. D’improvviso vi siete rivelati cannibali, assassini, impostori e ingrati. La scala dei nuovi valori è cieca, e porta in un luogo sempre uguale a se stesso».

Anche in questo discorso rivolto all’umanità, Grillo inserisce nuovamente un riferimento a quanto di più umano ci sia, il linguaggio e, ancora, la traduzione: «[…] non c’è una vera progressione, solo un flusso di suoni che crediamo di poter tradurre, ora che le lingue si sono fuse in un esperanto-corallo».

Marzia Grillo – romana e da diversi anni editor e redattrice – mostra un’incredibile abilità nell’analisi dell’umana natura, coi suoi tic e le sue storture, passando da un genere a un altro e insinuandosi, grazie al gioco dei punti di vista, fra le crepe dell’animo umano. Al termine di questa lettura, infatti, si ha la sensazione che le avvertenze che accompagnano il libro siano più che ponderate, quasi necessarie per non immergersi con troppa veemenza nel narrato e lasciarsi coinvolgere senza rischiare un sovradosaggio letterario e squisitamente umano.

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