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È opinione comune che ci sia un legame tra musica veloce e disordine, ma anche quella lenta ha un potenziale sovversivo: questa è la Verità che si guadagna dall’intensa lettura di Alla ricerca dell’oblio sonoro di Harry Sword (Atlantide, traduzione di Luca Fusari). Giornalista e critico, Harry Sword esce dalle colonne del Guardian con la sua opera prima, un saggio musicale che tratta un argomento poco conosciuto al di fuori di una nicchia di cultori: la musica drone.

Il «drone», ci spiega il traduttore nella sua nota introduttiva prima di lasciare il microfono a Sword, è una nota grave ininterrotta prodotta da uno strumento musicale. Si legge «drəʊn» in inglese e in italiano suona come i velivoli radiocomandati. Lo si può anche tradurre con «bordone», ossia «suono tenuto». A prescindere dal nome che gli si dà, il drone è un poderoso incantesimo sonoro, la pietra angolare di generi musicali distantissimi fra loro come il raga indiano, i canti buddhisti, il free jazz, il doom metal, la techno. Chiamarla musica sarebbe limitante e definirla rumore è impreciso.

Duke Ellington diceva che ci sono soltanto due tipi di musica: quella buona e tutto il resto. Il drone sfugge al manicheismo di Sir Duke e va a occupare una regione estrema del suono che sta al limite del non musicale, all’incrocio tra la psicoacustica e la metafisica. Obiettivo dichiarato di Sword è farci esplorare questa Area 51 delle sonorità meno accessibili, comporre capitolo dopo capitolo un «percorso obliquo oltre le frontiere della musica, della religione e delle sottoculture».

Che musica e cosmo si corrispondessero era già convinzione diffusa nella cultura greca come ci ha raccontato meravigliosamente Alessandro Vanoli in Note che raccontano la storia. I suoni perduti del passato (Il Mulino), ma Sword con qualche migliaio d’anni di beneficio d’inventario restringe il campo in cui si esercita quest’attrazione a una sola tipologia di suono/si appoggia a una sola tipologia di suono per dimostrare quest’assioma.

In principio era il drone e il drone era presso dio. Il vangelo secondo Sword si apre con un riferimento alla Radiazione cosmica di fondo. Se per percepire quella prova dell’universo in espansione ci sono voluti un radiotelescopio e 1964 anni dopo Cristo, sappiate che ci sono anche bordoni che viaggiano su frequenze riconoscibili dal semplice orecchio umano adulto.

Il «brusio di Bristol», per esempio, è un suono assimilabile al drone che causò epistassi ed emicranie ai cittadini inglesi a partire dagli anni Sessanta. Dapprima era stato scambiato per un acufene da molti, ma ormai è convinzione diffusa che non si tratti soltanto di un impazzimento generale e anzi si sta tantando di geolocalizzare le fonti del brusio. Non è neppure una questione soltanto britannica, il «brusio di Taos», in Messico, risultava tanto fastidioso da essere dibattuto al Congresso degli Stati Uniti nel 1993. La causa di questi fenomeni sonori non è ancora stata identificata; sono state avanzate varie ipotesi e alcune di esse sono alquanto fantasiose. Ciò che dimostrano i brusii è la presenza – e soprattutto la persistenza – del suono drone sulla Terra. Questo evento acustico esiste a prescindere da come lo pronunciamo, definiamo e traduciamo. Esiste a prescindere dalla nostra conoscenza e dalla nostra volontà di riprodurlo, alla faccia del problema del linguaggio che ha impegnato i filosofi a partire da Platone.

Perfino Lee Ranaldo dei Sonic Youth ebbe un’epifania al primo ascolto di Guitar Trio di Rhys Chatam, un compositore minimalista di musica elettronica al quale il suo gruppo apriva i concerti. «Tornai a casa con la sensazione di avere sentito nella realtà qualcosa che fino a quel momento avevo sentito solo nella mia testa, ma della cui esistenza ero sicuro» scrisse il chitarrista. Il drone è onnipresente, anche quando non è suonato, vive al di fuori di casse armoniche e tom. Non stupisce che il field recording diventi una fonte preziosa d’ispirazione per gli artisti sonori. Per esempio, il compositore Chris Watson usa come basi le registrazioni del vento nei glen scozzesi e i suoni prodotti lungo una remota ferrovia del Messico. Il suono dell’universo in espansione, insomma, «somiglia più a un drone che a un bang». 

Sword però scrive in anni in cui va di gran moda il rinascimento psichedelico e allora mette subito in pausa i ragionamenti scientifici e il saggio assume il tono fricchettone di un viaggio tra misticismo e musica.

Perché il drone era dio e questi era in principio presso dio, o perlomeno in luoghi avvolti di spiritualità come l’Ipogeo di Hal-Saflieni a Malta. Sword ci catapulta lì, in una struttura neolitica scavata nella roccia. L’Ipogeo gode di un riverbero acustico a circa 110 Hz, il registro minimo del baritono maschile, che restituisce ai visitatori la sensazione che gli spazi antichi potevano evocare: è un suono presente che va oltre il concetto di tempo e di spazio.

Il riverbero è cruciale nel discorso del libro, in quanto tangente fra archeoacustica e psicoacustica. Studiosi della UCLA hanno scoperto che i suoni a 110 Hz disattivano le funzioni cerebrali dell’emisfero sinistro generando stati di ipnosi. Suoni bassi e ripetizioni sono altri due fattori che stimolano l’ipnosi e, guarda caso, elementi comuni a molte tradizioni musicali religiose e laiche. Sword ci ricorda che accomunano danze rituali e tarantismo, le corali estatiche, i rave illegali e il canto sciamanico monocorde. In buona sostanza, sono propri di ogni performance che si pone come obiettivo «l’ottenimento della trascendenza primordiale tramite la ripetizione».

Dunque, la trance, l’oblio sonoro al quale rimanda il titolo. L’uscire da sé stessi per congiungersi con il mondo – questo mondo o un altro, chissà –, con l’universo, con dio. Il drone risponde al bisogno millenario di trascendenza attraverso la musica, che si ottiene ascoltando il riverbero di un Ipogeo o la techno a un festival. Come ha scritto Vanni Santoni su la Lettura facendo eco a Frank Zappa: «scrivere di musica è come tenere lezioni di metafisica».

Il discorso filosofico sta stretto a Sword che finisce per cedere all’indole di critico musicale. Ci guida alla scoperta delle radici musicali del rock psichedelico, il primo genere nel quale si trasfigura il suono drone in Occidente. Prima di tutto a Tangeri. Nel Secondo dopoguerra la città è governata da spagnoli, britannici e francesi. L’Interzona è pervasa dal sound dei Musici di Jajouka, i profeti sufi marocchini che di carisma dovevano averne da vendere se riuscivano a sprigionare un flusso d’energia dionisiaco pur suonando la rhaita, uno strumento a fiato che produce un suono simile alla zampogna. Il drone tangerino è così, magnetico per definizione. È una spirale di kif che serpeggia tra il circolo del Paul Bowles autore de Il tè nel deserto, campionato dal cut-up di Borroughs e distorto dalla Dreamachine allucinatoria di Gysin.

Finché, alla fine degli anni Sessanta, il risveglio psichedelico incontra la musica indiana. Il drone di sitar accompagna esperienze tanto vivide quanto terrificanti e ha un potere simile alle droghe, di cui diventa complemento. Impossibile non citare l’amicizia tra George Harrison e Ravi Shankar, il musicista che ha più influenzato il raga rock occidentale. Per capirci, Ravi è l’ispiratore di Norwegian Wood dei Beatles, è colui che a Woodstock nel ’69 se ne sta imperterrito a smandolinare 40 minuti sotto la pioggia battente. In un’intervista del 1971 Harrrison incolpa gli hippie di aver banalizzato il legame psichedelia-droghe, che lo stesso Ravi non ha mai accettato.

I fatti dimostrano il contrario. La scena musicale internazionale era una palude di acidi in cui sguazzavano gli Yardbirds di un Eric Clapton in caduta libera, i Pretty Things (dalla cui costola si formarono i Rolling Stones…), e una miriade di personaggi eccentrici come Robbie Basho, il quale salì su una montagna strafatto di peyote per ricevere il suo nome d’arte ispirato al poeta giapponese Matsuo Basho. In pratica, mentre l’amico di Gianni Morandi che amava i Beatles e i Rolling Stones combatteva in Vietnam, John Lennon scambiava la casa di George Harrison per un sottomarino giallo e Brian Jones moriva annegato in una piscina in circostanze mai chiarite.

La storia del rock psichedelico è una parabola di sperimentazione ed eccesso, e la musica che produce è sospesa tra dissonanza e ripetizione. La dissonanza crea tensione e la ripetizione ipnotizza. Gli Hawkwind, antichi cosmonauti londinesi, riempiono le pause sul pentagramma con droni elettronici che rallentano, trattengono, e sembrano avere il potere di controllare il tempo. È una risacca ritmica e inscalfibile come indicava il titolo originale di questo libro, Monolithic Undertow, la risacca monolitica. Ravi Shankar aveva ben presente quanto la frenesia occidentale fosse agli antipodi della sua cultura: «Dovete avere pazienza, voi americani» diceva, «nella musica indiana ci vuole tempo, prima di arrivare all’orgasmo».

Ed è proprio negli Stati Uniti che il drone viene interpretato in modi diversi e genera musiche anche agli antipodi fra di loro. A Ovest il raga indiano diventa il mantra rock della Summer of Love. È una presa a bene: pensiamo ai Grateful Dead, ai Jefferson Airplane. Don’t you want somebody to love? Persino il free jazz di John e Alice Coltrane è una spintarella gentile verso la trascendenza.

A Est, invece, l’umor dronico si mescola al brusio nevrotico di una New York insonne per colpa della stasi elettrica e delle amfetamine. Qui opera il gruppo Fluxus, novelli dadaisti che intendono abbattere i muri tra arte e realtà. Tra di loro spiccano performer come Yoko Ono, John Cage e La Monte Young. Qui la nuvola oppiode dei Velvet Underground grava pesante come un isotopo di uranio. Si sono presentati come «l’equivalente occidentale della danza cosmica di Shiva. Suoniamo mentre Babilonia va in fiamme». Il brusio della Grande Mela, attraverso di loro, plasma una lenta nenia erotica che matura nell’annichilimento.

In Europa invece il drone ha avuto una storia diversa. Meno fricchettona, e non a caso meno romanzata nelle pagine di Sword.

Il drone diventa allora un potente simbolo del sovraccarico capitalista. Già i futuristi accostavano il rumore alla vita in fabbrica, esaltavano i ronzii e gli schianti, l’efficienza del processo, il primato dell’automazione. Per reazione, la musica industrial di quasi un secolo dopo ha usato gli stessi suoni per trasmettere il senso di disumanizzazione del progresso basato sulle macchine.

A fare da laboratorio della musica elettronica europea saranno le comuni della Germania Ovest negli anni Settanta. Ripetizioni nei campionamenti, un sound collettivo e gruppi – Faust e Kraftwerk tra i più conosciuti – che in splendido isolamento creano la musica delle città di domani. Nessuna spinta spirituale, magia o mistero, ma solo estraniamento e alienazione dettato dal sintetizzatore, un mondo che non ci riconosce più come umani ma ci fa superare i confini dell’umano grazie a computer e robotica.

La prosa di Sword a questo punto perde ogni suggestione e snocciola un rosario di recensioni musicali che cesellano le molteplici raffigurazioni del drone negli ultimi decenni. Si va dal rozzo carnaio degli Stooges alla commovente fragilità dei Ramones, dal suono spettrale dei Sonic Youth alla claustrofobia degli Swans e decine di altre band, centinaia di titoli di album e di canzoni che stordiscono il lettore. Mi unisco alla critica apparsa su SentireAscoltare di Stefano Solventi che trova forzata la scelta del materiale. Qui si sente scricchiolare l’impalcatura dell’opera, gravata dall’ambizione di un’universalità che ovviamente non può reggere.

Il libro sfoggia una notevole collezione di aggettivi sensoriali e accostamenti esotici di parole per esprimere l’essenza del suono – un macinio che non va capito, ma di cui va fatta esperienza. Non mancano frasi al limite dell’immaginifico (o del manuelfantonismo), per esempio: «il drone dà stabilità al caos entusiasta come un’ancora di cirripedi gettata in un mare turbolento».

Ciò che Sword intende rimarcare è che il drone ha un impatto fisico sull’ascoltatore, è una musica che suona addosso. Nel doom, uno degli ultimi generi in ordine cronologico a essere sostenuto da una base drone, il basso aumenta la pressione dell’aria nel petto. Il doom si ispira al tritono inventato da Tony Iommi, marchio di fabbrica dei Black Sabbath, che rende il suono grave e paludoso e trasmette un senso di oppressione. L’estetica dell’occulto che vi si accompagna, alla luce di ciò che ci ha raccontato Sword dell’Ipogeo di Malta, è un segno di continuità con la tradizione che vede rituali mistici e sperimentazioni psicoacustiche strettamente collegate. I concerti che sembrano messe druidiche cantate dei Sunn O))) sono la punta più raffinata di questo genere. Questa è l’ultima tappa nell’ampio spettro di sensazioni che può indurre il drone: ascesa, trascendenza, terrore, annichilimento, e infine sottomissione mentale e fisica.

Questo della resa è un concetto sviluppato anche da Brian Eno nel suo quasi mezzo secolo di attività. La musica ambient di Eno nasce per essere trascurabile, uno strumento di resa. Arrendersi è per lui un’azione attiva, deriva dalla consapevolezza che nella vita non si fa tutto dal posto guida. «Se sai che il drone è costante e non cambia mai […] se lo senti cambiare non è lui che cambia ma sei tu. È uno slittamento percettivo interessantissimo» dice Eno.

Ci siamo, in definitiva, arresi allo spazio, che si è ripreso la scena lasciandoci intontiti a osservare il cambiamento dentro e fuori di noi. Fossimo a Sanremo potremmo annunciare senza tema di smentite: «Dirige l’orchestra: l’universo in espansione». Come non essere d’accordo con Sword quando dice che il drone è rivoluzionario? Fa a meno degli accordi e addirittura della band. Manipola l’ascoltatore, plasma l’atmosfera, accompagna l’uomo sull’orlo dell’universo e della divinità, indietro fino alla creazione. Per entrare in contatto con il drone bisogna perdere il contatto con il mondo reale, uscire da sé, arrendersi, lasciarsi attraversare.

Sword si chiede: siamo noi che suoniamo il drone o è lui che suona noi? In questo interrogativo è racchiusa la potenza del suono e l’ambizione filosofica del critico musicale. Molto più prosaicamente, come ha detto Gysin: «la tua musica la riconosci quando la trovi. Ti unisci alla fila e balli finché non è il momento di pagare il pifferaio». E questo libro ha il merito di far venire molta voglia di ballare.

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