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Iosif Brodskij, nato a Leningrado nel 1940, premio Nobel per la letteratura nel 1987, ha detto una volta: «Tutto quello che riguarda l’Achmatova è parte della vita, e parlare della vita è come, per un gatto, cercare di prendersi la coda. È di una difficoltà insopportabile. Dirò una sola cosa: ogni incontro con l’Achmatova è stato, per me, un’esperienza piuttosto significativa. Quando senti, fisicamente, che hai a che fare con una persona migliore di te. Molto migliore. Con una persona che, con la sua sola intonazione, ti trasforma. E l’Achmatova, con il solo tono della voce, o con l’inclinazione del capo, ti trasformava in un homo sapiens».

Paolo Nori, Vi avverto che vivo per l’ultima volta. Noi e Anna Achmatova, Mondadori

Con Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostojevskij, Paolo Nori aveva percorso, con il suo passo da maratoneta, le strade dell’esistenza dello scrittore russo per provare a rintracciare una possibile risposta alla dolorosa domanda nata quand’era appena un ragazzo. A quindici anni, infatti, Nori sperimenta la sua personale folgorazione sulla via di Pietroburgo, leggendo per la prima volta Delitto e castigo. Nel romanzo il protagonista Raskol’nikov si arrovella intorno al dubbio capitale «Ma io, sono come un insetto o sono come Napoleone?» e quel quesito, lanciato da lontano, nel tempo e nello spazio, colpisce il giovane Nori aprendo in lui una ferita destinata a non smettere, appunto, di sanguinare. «Sanguina ancora. Perché?» si chiede lo scrittore e nel romanzo intreccia gli episodi straordinari che compongono l’esistenza di Dostojevskij con l’esplorazione della propria dimensione personale, di uomo e di autore. Dentro quella ferita e quella inesausta ricerca cade anche il lettore, che può abbandonarsi a un viaggio in cui le distanze spazio-temporali si annullano e la lettura diventa in pieno un’esperienza universale di comprensione dell’essenza umana più profonda.

Il nuovo romanzo non romanzo di Nori, Vi avverto che vivo per l’ultima volta. Noi e Anna Achmatova, giunge a un anno di distanza da Sanguina ancora e possiamo dire, senza tema di smentita, che quella ferita primigenia è ancora tutta lì, aperta e bruciante, allargata, inevitabilmente, dall’attualità del conflitto russo-ucraino, lungi da una possibile risoluzione a oltre 400 giorni dal suo inizio. Oggi la Russia fa paura e di paura, nel libro, parla Nori, spiegando che lui, appassionato, e non esperto, di Russia, che traduce i grandi romanzi russi, che l’anno scorso è stato al centro di un episodio eclatante con l’Università Bicocca di Milano per le sue lezioni programmate – e poi annullate per questioni di «opportunità» – su Dostojevskij, ciò di cui ha paura è, appunto, quella capacità che hanno i russi di «farlo sanguinare». Forse, se la Russia non avesse attaccato l’Ucraina, se non si fosse levato poi da parte di una frangia di occidentali un atteggiamento sanzionatorio nei confronti della cultura russa in toto, se non serpeggiasse un clima da tifoseria senza umanità e un senso di superiorità squisitamente occidentale nei confronti del popolo russo, reo di non ribellarsi in massa alla guerra, oggi staremmo parlando di un libro leggermente diverso, privo di quel «noi» aggiunto dall’autore nel sottotitolo soltanto in un secondo momento. Il consueto contrappunto tra il biografismo del personaggio raccontato e quello del narratore-personaggio che racconta si arricchisce in questo caso di una nuova linea melodica, che coinvolge contemporaneamente, lei, la Russia, e noi, lettori di Nori, occidentali in senso lato. Achmatova, Nori, la Russia e noi: queste quattro corde si sovrappongono, si intrecciano e si pizzicano a vicenda, allungandosi e contraendosi alla bisogna nel corso della narrazione. 

Ma andiamo per ordine, se avrete la pazienza di seguirmi, come dice qualcuno, proverò a spiegarmi meglio. Per questo nuovo lavoro, Paolo Nori si riallaccia in primo luogo alle intenzioni del libro precedente: la vita di Anna Achmatova, poeta – non poetessa, come specificato da lei stessa – tra i più grandi della letteratura russa di tutti i tempi, merita di essere raccontata per la sua straordinarietà, proprio come accaduto per Dostojevskij.  Anna Achmatova nasce vicino a Odessa nel 1889 – sì, se fosse nata oggi probabilmente sarebbe ucraina – e muore a Mosca nel 1966. Quando suo padre, ufficiale della Marina russa, viene a sapere che la figlia compone poesie, le dice soltanto «Non mischiare il nostro cognome con queste faccende disonorevoli». E infatti Anna decide di mandare al diavolo il suo cognome, addio Gorenko, addio, adottando invece quello di una sua antenata materna, una principessa tartara: Achmatova, appunto. Questo è solo l’inizio, la premessa di una vita eccezionale, ma, in questo caso, subentra una difficoltà in più, quantomeno rispetto all’opera precedente di Nori: qui abbiamo a che fare con la materia poetica in traduzione. Nori lo spiega citando il film Paterson di Jim Jarmusch: Paterson è un autista di bus della città di Paterson, ama la poesia, legge e scrive poesie e alla fine del film incontra un giapponese appassionato di poesia e gli chiede se le poesie dei poeti americani le legga in inglese oppure in traduzione. «Leggere le poesie in traduzione è come fare la doccia con l’impermeabile» risponde il giapponese. Eccola, la difficoltà. In effetti, Anna Achmatova stessa impara l’italiano esclusivamente per leggere la Divina Commedia in lingua originale, tanto che, come riferisce il filosofo Vladimir Kantor, alla domanda «Lei ha letto Dante?», Anna risponde, semplicemente, «Non faccio altro che leggere Dante». E allora, come si fa? Niente paura, ci rassicura Nori, nelle poesie di Anna Achmatova in realtà piove fortissimo, ci si bagna lo stesso anche indossando l’impermeabile. Non a caso, la materia poetica di Achmatova è profondamente «bagnata» e permeata dal suo vissuto e racchiude in sé la forza inarrestabile dell’acqua. 

Nel 1921, Anna perde il primo marito, Nikolaj Gumilëv, fucilato per l’accusa di attività antirivoluzionaria, mentre il loro figlio Lev, così come anche il secondo marito, il poeta e assiriologo Šilejko, subisce la condanna alla detenzione nei gulag. Il rapporto con Lev risulta irrimediabilmente guastato, schiacciato dall’imponenza del successo di lei, rea di non aver fatto abbastanza per tirare fuori lui dall’orrore della prigionia. I critici sovietici definiscono Anna Achmatova «suora e prostituta», viene esclusa dall’Unione degli scrittori, le viene impedito di pubblicare le sue poesie, è marginalizzata, bandita, spiata, controllata e ridotta all’indigenza, ma, nonostante tutto, la sua poesia «liquida» filtra e fluisce, passando di bocca in bocca quando ogni altra possibilità risulta proibita, fino alla tardiva riabilitazione letteraria, concessa poco prima della morte. Paolo Nori prende questa vita tanto straordinaria quanto esemplare e la seziona, scomponendola per intersecarla alla perfezione con la propria sfera intima: il racconto di Achmatova offre un alveo ideale allo scrittore per esplorare, tramite quelle caratteristiche digressioni che consentono al lettore di ammirare e godere di un panorama più ampio e inaspettato, l’amore di Nori per la letteratura russa, i suoi viaggi, remoti e recenti, gli incontri, le voci, la Battaglia e Togliatti, rispettivamente figlia e compagna di Nori, il poeta futurista Chlebnikov (La legge delle altalene prescrive/ Che si abbiano scarpe ora larghe, ora strette./ Che sia ora notte, ora giorno./ E che signori della terra siano ora il rinoceronte, ora l’uomo.) e molto altro ancora. 

In questo canto a due voci, adagiato su un tappeto variegato di note, refrain e accenti, si insinua inevitabilmente la cruda attualità della guerra e così, al mosaico composto dall’incastro tra i pezzi di Anna e i pezzi di Paolo, si aggiungono nuove tessere, che delineano un disegno ancora più grande e dettagliato. Nel piano prestabilito dall’autore si infila una novità che non può essere ignorata e che consiste nella chiamata in causa della dimensione plurale del «noi», che Nori decide di inserire proprio nel sottotitolo, Noi e Anna Achmatova, ingrandendo il progetto originario. Il cambiamento avviene «perché man mano che andavo avanti, mi sembrava sempre di più che gli anni che stiamo vivendo assomigliassero agli anni che ha vissuto Anna Achmatova» spiega Nori.

Di nuovo, il magma narrativo si condensa intorno a un interrogativo fondamentale, che mette al centro della prospettiva quel «noi» non soltanto evocato, ma tirato direttamente in gioco senza ombra di dubbio. La vita di Anna Achmatova costituisce in qualche modo una sintesi perfetta di tutti gli squarci violenti provocati dalla rivoluzione bolscevica e dallo stalinismo sul popolo russo e sui suoi intellettuali e oggi guardare a lei equivale a un tentativo di risolvere il dilemma che Paolo Nori estrapola dal presente: «E noi, che cosa stiamo diventando? E io, cosa sono diventato?». Il contingente sembra restituire un resoconto non propriamente lusinghiero della dimensione del «noi»: la paura accompagna asfissiante la ricerca di una via d’uscita dagli abissi in cui potrebbe sprofondare il futuro. Il lettore, i lettori, noi, scivoliamo dentro le pagine del romanzo ben più a fondo di una semplice esperienza di lettura: diventiamo tutti protagonisti del racconto e la vita e la poesia di Anna Achmatova ci aiutano perfettamente a compiere questo passaggio. 

Ma io vi prevengo che vivo

per l’ultima volta.

Né come rondine, né come acero,

né come giunco, né come stella,

né come acqua sorgiva,

né come suono di campane

turberò la gente,

e non visiterò i sogni altrui

con un gemito insaziato.

Così scrive Achmatova nel 1940 (traduzione di Michele Colucci): come lei, anche noi viviamo per l’ultima volta ed è bene che ce ne ricordiamo, soprattutto adesso, nell’ora più buia, in cui la bestialità rischia costantemente di prendere il sopravvento. Paolo Nori, che per morto è già stato dato per ben due volte, nel 1999 e nel 2003, in seguito a due incidenti piuttosto gravi, si impegna a ricordarcelo senza scadere mai nel pedagogismo d’accatto. La scrittura di Nori, in questo libro più che mai, è laboratorio artigianale, cantiere, biblioteca, archivio, studio psicanalitico e rifugio: l’autore tesse, costruisce, fa e disfa, va avanti, torna indietro e nel suo agire narrativo ci restituisce la potenza di una riflessione indispensabile e urgente.

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