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Al termine di un centenario celebrativo da cui lo scrittore s’era già schermito in vita («punto ai millenari»), sono recentemente arrivate in libreria le lettere che Giorgio Manganelli spedì a Ebe Flamini, la donna (attivista, educatrice) che frequentò, con vicende alterne, nel decennio tra anni ’60 e ’70. È la stessa Flamini a cui dobbiamo la pubblicazione di due capolavori del Manganelli postumo: L’esperimento con l’india e Il presepio, opere che, in modi diversi, molto ci dicono della mai risolta scissura spirituale di questo autore, oltre che della sua fascinazione per il sacro e le sue icone. A curare la corrispondenza è Salvatore Silvano Nigro, lo studioso che dopo aver scovato e dato alle stampe il sotterraneo laboratorio pre-hilatrogico di Ti ucciderò, mia capitale, insieme con le nere pagine de La notte, tetro faldone rimasto per anni stipato in una scarpiera, meglio conosce gli aditi – verrebbe da dire i nascondigli – in cui s’annidano gli inediti manganelliani. In questo caso il carteggio era custodito in una più prevedibile «scatola di cartone telato di liste verdi» che Patrizia Moretti (nipote della destinataria) ha rinvenuto, però, in un «angolo del sottoscala». L’esile silhouette dell’elegante volumetto si addice a un intellettuale che alle epistole preferiva le telefonate: «purché la linea non cada, non subentri un segnale di occupato, non entrino due o tre signori che stanno litigando per conto loro, non passi un treno in un tunnel, non intervenga una voce metallizzata a dire che l’abbonamento ha cambiato numero… Così, suppongo, è finito l’Impero Romano» (Manganelli 2003, 156). Eppure come ebbe ad ammettere la figlia Lietta: «per assurdo che possa sembrare anche Manganelli si innamora». Dunque, pagine, biglietti da lui decorati a mano, fogli intestati di alberghi dai fregi esotici in cui lamenta il «caldo spaziale», insieme a un «arruffio di cartoline illustrate» che, come attesta una recente silloge di souvenir dall’ Abruzzo, erano per lui feticci dalla massima aurea. Pure in cauda a questo libro è allegata, ed è scelta opportuna, una minuta sezione “album” in cui vengono riprodotte tre lettere di diversa provenienza (Roma, Arusha, Il Cairo), anticipate da un’irresistibile cartolina inviata da Rhêmes-Notre-Dames che, in sintonia con il soggiorno alpestre, si attesta su ritmi telegrafico-assertivi: «luogo bellissimo, lavoro pesante, cibo decoroso, Einaudi elusivo, compagnia amichevole, compagnia insopportabile». Quello intrattenuto con il gruppo di via Biancamano, negli anni arricchitosi di aneddoti tanto leggendari quanto inverificabili, non è però l’unico rapporto ambivalente che affiora da queste epistole, ma appare davvero in modo netto come la costante dinamica relazionale di una persona lunare. Partrizia Carrano, che lo ha conosciuto da vicino, nel suo memoir dedicato all’autore recentemente edito da Italo Svevo, non lo nomina esplicitamente e preferisce chiamarlo forse pour cause l’ossimoro. Il Manganelli che il 2 aprile 1970 racconta abbacinato di un’Etiopia che non sa descrivere in ragione di «qualcosa di preistorico, di preumano» è lo stesso che appena quattro giorni dopo ammette sconfortato: «in questo momento preciso in cui ti scrivo ne ho piene le palle dell’Africa». 

Nello scrivere alla compagna non fatica a confessare come questa costitutiva doppiezza, che si tinge talvolta di umori atrabiliari, sia in lui causata dal coesistere di stati emotivi speculari («euforia e depressione») che lo spingono però in maniera altrettanto ondivaga, e nonostante le capziose autoaccuse di vigliaccheria («io sono fondamentalmente un vigliacco: un codardo psichiatricamente interessante» ammetterà in uno dei suoi corsivi), a compiere gesti non poco audaci (G. Manganelli 2003, 45). Eccolo mentre sorvola la Malesia «verdissima di giungla» richiedere uno scalo fuori programma (e tutto in solitaria!) per Singapore, mentre in una precedente lettera dall’Africa si vantava incredulo di «un giro di più d’un’ora su un lago […] formicolante di coccodrilli, in un ambiente di vegetazione trionfale, torbidamente equatoriale».

Manganelli era planato su preciso consiglio di Ernst Bernhard, il mentore che gli suggerì il viaggiare, o meglio, «lo spiazzamento in terre lontane» al fine di maturare un terapeutico «spostamento d’ottica» per lenire quella «paura vigliacca di non essere se stesso». E davvero lo scrittore appare costantemente spaesato quando è in viaggio ma più che spostarla, l’ottica, bada a proiettarla su ciò che conosce già. Addis Abeba somiglia così a «un incrocio di Rione Sanità e Brasilia», laddove Singapore, seppure «fatta dagli inglesi alla fine dell’Ottocento» risulta irrimediabilmente «provinciale, incasinata, milanese e napoletana». Si tratta, fra l’altro, di un espediente che Manganelli adotterà di lì a poco anche nei suoi reportage: nelle pagine succitate dall’India aggirandosi per Madras, si chiede all’improvviso: «vedo da tutte le parti bandiere rosse e falci e martello: ogni tanto una chiesa. Non sarò mica arrivato in una colonia emiliana?» (Manganelli, 2013, 34) Nel descrivere un giardino, appunta invece dubbioso: «è tutta una faccenda di fiori di loto, come a Este, mi pare, verso Rovigo» (Ivi, p. 6). Se nel precedente corpus di missive familiari a sorprendere era stato soprattutto il «bamboleggiare stucchevole del giovane ventitreenne» (Cortellessa 2020, 189), particolarmente in quelle all’indirizzo della moglie Fausta Chiaruttini («penso tanto a una piccolina, bellina come la stellina, e buonina come un angiolino»), le lezioni di pedagogia impartite a distanza a una figlia dalla «forte vocazione redentrice» (Manganelli 2007, 129) così come vezzeggiativi americaneggianti («Dear Pupattola»; ) e i versi onomatopeici («uah! uah!») in cui si diffondeva in quelle assai intime a Giovanna Sandri, qui a stupire’estro del gourmand maturo, altrove così «severo auto-censore» (Cortellessa, 2022, 144). Flamini è per Manganelli «uno di quei frutti deliziosi, voluttuosi, mielati, goccianti zuccheri interiori», la paragona a una nespola, un ananasso, a una cotogna – con una golosità che ne nutre i sogni mitigandone le tendenze antisentimentali. Come quando vagheggia di regalarle una collana in cui avvolgerla «non fatta di perle, ma di spicchi di pomodori» – un’immagine che ci ha riportati all’anello di calamaro fritto che Marcello Mastroianni mette al dito di Monica Vitti durante un romantico pranzo al mare del Dramma della gelosia. D’altronde in questi scambi l’immaginario domestico contamina di frequente quello erotico («ti scaldo nel sacco a pelo della golosa memoria»; «fragile e regale nella tua vestaglia a quadri rossi e bianchi») fa da fondale a desideri inopinati («ad esempio potresti, all’ora del tè, mordicchiare la poltrona su cui mi sono seduto») e ottiene vertici di compiaciuto sadismo («oppure staccare i padiglioni delle orecchie di un qualche ospite di buona pelle, per farne babbucce, o portadocumenti, o ditali da offrimi»). Diverso ancora, insomma, da quell’affetto contorto e odiato che lo scrittore provò per la giovanissima Alda Merini di cui restano le immedicabili ferite negli Appunti critici: un rapporto a cui mancò, c’è da credere, la forza di avversare quelle istituzioni (famiglia, religione, morale) che Massimo Fusillo ha indicato come nemici precipui delle coppie che vanno «contro il mondo» (Fusillo, 2021). Ma a stupire qui è soprattutto il modo in cui nel corso delle pagine la temperatura stilistica procede in parallelo con la combustione sentimentale – per poi spegnersi in poche braci. Il rapporto nasce all’insegna di un lei cerimonioso e d’un certo «distacco archeologico» di cui Manganelli pure si lamenta; ma il colloquio galante si accende presto di una passione vivace («vorrei che tu, chiudendola, ti trovassi i segni dell’ustione») che l’autore coglie con una pirotecnia verbale che non deluderà i cultori della sua prosa. Valga qui il racconto di un esame in cui il Professor Manganelli non può fare a meno di pensare all’amata: «le ragazze goffamente porgevano i loro boquettes di verbi irregolari (ed al primo gesto inesperto li sfacevano in spente radici, foglie corrose e morte)». Pregevole poi il concerto che immagina per lei sola «nell’aula grandissima» con tanto di «luttuoso cembalista» e «flautista dinoccolato» che ci ha ricordato, invece, la scena in cui Fred Ballinger si ritira per dirigere i pascoli e la natura circostante in Youth – pensando, però, alle variazioni per la moglie. 

Durante i primi incontri lo scrittore non può fare a meno di compitare le lettere della compagna («mio lontano bisillabo») o di allungarle in entusiastici superlativi («Ebissima mia»; «Carissima Ebissima»), di avvertirne la costante presenza-assenza («la tua perplessa tenerezza […] mi ruba lo spumante nel bicchiere») o di coinvolgerla in progetti futuri («siamo d’accordo per un lungo viaggio?»); ma col passare degli anni i ritratti si fanno privi d’esornazioni («ti ho pensato (…) e ti vedevo con la pettinatura appena fatta, che ti fa la faccia lunga e un po’ la irrigidisce») e la comunicazioni sbrigative. Nell’ultima lettera, ormai tiepida, inviata da Manila su carta intestata Hotel Enrico con data 8 marzo ʼ73, lui la ringrazia per la sua pagina «distensiva e amica». Sullo sfondo di questa parabola sentimentale restano i libri cui Manganelli allude solo cursoriamente nel corso degli scambi, anche se è difficile resistere alla tentazione di leggere in filigrana ad alcune pagine angosciose (quelle in cui si rappresenta segregato o braccato) le prime messe a fuoco di ciò che verrà sublimato in Hilarotraogoedia o di pensare che l’impegno che gli impedisce di partire sia, al fondo, quello assunto con la scrittura. Lo stesso accade per il motivo della madre che è causa di «sacro orrore», con un «ossimoro dissimmetrico» che diventerà una delle sue marche di stile, o per la forte impressione che lascia in lui il sarcofago di Tutankhamon («mamma mia») che coinvolgerà poi come revenant in una delle sue Interviste impossibili più riuscite. E però Manganelli, almeno fino al «sospirato coming out» (Cortellessa 2020, 179) davvero sembra tenere per sé i segreti ammonticchiati sulla scrivania, come dimostra quest’appunto palpitante, trovato da Mariarosa Bricchi, tra le carte della sua opera prima, dove il pensiero torna alla compagna: «FINE sto piangendo, non so se di gioia; son le ore sei e sei minuti del 19 gennaio 1961; sto scrivendo in casa Magnoni, nella mia stanza, e sono solo in casa; è un freddo giovedì, sereno di cielo; alle otto e venti devo vedere Ebe a Porta Pia, davanti al cinema Europa; non so ancora se le dirò che HO SCRITTO UN LIBRO ore 6 e 8 minuti» (Bricchi 2002, p. 19). 

Bibliografia:

Bricchi 2002 = M. Bricchi, Manganelli e la menzogna. Notizie su «Hilarotragoedia», Interlinea, Novara, 2002. 

P. Carrano, Un ossimoro in lambretta. Labirinti segreti di Giorgio manganelli, Italosvevo, Trieste-Roma, 2016.

Cortellessa 2022 = A. Cortellessa, Filologia Fantastica. Ipotizzare Manganelli, Ancona, Argo, 2022.

Cortellessa 2020 = A. Cortellessa, Il libro è altrove. Ventisei piccole monografie su Giorgio Manganelli, Bologna, Luca Sossella editore, 2020.

Fusillo 2021 = M. Fusillo, Eroi dell’amore. Storie di coppie, seduzioni e follie, Bologna, Il Mulino, 2021. 

Testi citati di Manganelli:

G. Manganelli, La notte, Milano Adelphi, 1996.

G. Manganelli, Ti ucciderò mia capitale, Milano, Adelphi, 2011.

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