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Esiste in narrativa questa definizione, spesso usata ai limiti del ridicolo, che è romanzo mondo. A volerla vedere per quello che è, senza pregiudizi, ma senza lasciarsi abbindolare, se ne trova anche il senso: è commerciale, serve a identificare un certo tipo di letteratura, così il lettore, la lettrice, sapranno cosa c’è dentro il libro che stanno per acquistare. Dall’orto al mondo, di Barbara Bernardini, uscito non da molto per Nottetempo, è invece un saggio che sfugge a qualunque catalogazione, che è impossibile da sintetizzare in un tweet, come vorrebbero gli impegnatissimi venditori di qualsiasi cosa, compresi loro stessi. Tuttavia, e il titolo è azzeccatissimo, questo è realmente un libro-mondo. Dico libro e non saggio, perché Dall’orto al mondo è allo stesso tempo un manuale, un memoir, un romanzo di formazione il cui personaggio principale è un orto, un pamphlet, un saggio sull’ecologismo, una collezione di suggerimenti per il futuro. Si tratta quindi di un’opera che attraverso il racconto della costruzione di un orto domestico (racconto documentaristico, ma davvero appassionante come un romanzo di formazione. Non che i documentari non siano appassionanti, ma insomma, è per capirci), parla del presente del pianeta, del nostro rapporto con la natura e con il cambiamento climatico, di politica ambientale e di politica economica, di disuguaglianze, di filosofia, di storia familiare e di storia collettiva. Tutto questo con uno stile che è sì misurato, ma allo stesso tempo diretto e rabbioso. La tentazione è di usare l’orto come metafora e parlare di scrittura stagionale, multiforme, pur con uno stile che resta riconoscibile, assolutamente inconfondibile, dalla prima all’ultima pagina; dalla terra dello stesso orto nascono e crescono i piselli delicati e le zucche con la scorza dura.

A prenderla da un altro lato, che è un’operazione che il libro fa di continuo, Dall’orto al mondo ha una struttura ricorsiva. Si raccontano le storie di un orto e dell’autrice del libro, che è la persona che dell’orto si prende cura, lungo dodici capitoli, corrispondenti ai dodici mesi dell’anno. Ogni capitolo è sempre diviso in tre sezioni, la prima, che prende il titolo dal mese dell’anno corrispondente, è quella più narrativa: l’orto si trasforma, Barbara Bernardini ci descrive la crescita dei fagiolini, l’epopea dei finocchi, ci parla del paesaggio circostante – e riconosciamo le campagne italiane, costrette tra le autostrade e le ferrovie, come in tutti i Paesi industrializzati –, dei contadini malauguranti, dei tentativi, delle scelte, della ricerca dell’equilibrio tra pigrizia, ambizione, politica ecologista, doveri da ortolana.

La seconda sezione di ogni capitolo, invece, è intitolata Almanacco degli anni a venire; lì l’autrice si interroga sui progetti futuri, sulle possibilità del tempo che ci aspetta minaccioso e che tuttavia siamo chiamati e chiamate ad affrontare con tutta l’intelligenza e la lucidità di cui siamo capaci. Bernardini offre una sua prospettiva sincretica: lavoratrice intellettuale, ortolana, studiosa, militante.

L’ultima, Innesti, ha il compito di portarci altrove, di provare il campo lungo invece della fotografia macro del racconto dell’orto che ci fa vedere il singolo bocciolo avventurarsi nel mondo. In Innesti c’è il passaggio “dall’orto al mondo” e il viaggio può riprendere nel capitolo successivo, perché questo è un libro che non ha inizio e non ha fine, che rifiuta la facile occidentalizzazione della spiritualità, ma nel suo sincretismo pigro e pratico esprime una visione olistica delle esistenze viventi, non solo umane ma terracquee. 

Siamo in un momento storico di enorme trasformazione. A dirla tutta viviamo alcune dei cambiamenti più terribili e determinanti che si siano mai visti sulla Terra. Possiamo affermare di essere senza dubbio costretti al cambiamento. 

Senza cedere al catastrofismo e alla disperazione, ma con la consapevolezza della finitezza e della piccolezza dei gesti umani, Barbara Bernardini in questo volume ci offre la visione di un’esistenza che tenta, e nonostante la modestia dell’autrice, spesso riesce a unire piccoli gesti quotidiani, cura – forse la parola più importante di tutto il libro – e innesti, eccoli, di visioni politiche anche molto distanti tra loro. 

Questo discorso enorme (e la corposa bibliografia presente ci conferma quanto è sconfinato questo intreccio di pratiche e pensieri) riesce a superare la forma saggio più accademicamente intesa e a essere accessibile al pubblico più ampio, comprese le persone che nella loro vita non si occuperanno mai di un orto, perché Barbara Bernardini ci parla, attraverso le storie che nascono e crescono (e vengono cucinate e mangiate, dando un senso di concretezza del lavoro che viene spesso sottolineato) nel piccolo appezzamento in pendenza di cui può disporre, di relazioni, soprattutto di relazioni. Ci troviamo in uno spazio piccolissimo, entro cui però vivono l’autrice, le sue forze, le relazioni con il compagno, con i figli – e sono alcuni dei passi più commoventi, nonostante la ritrosia e il pudore estremo con cui vengono trattati. O forse proprio per questo? Per questo andare in direzione contraria alla spettacolarizzazione della vita propria e altrui? – e poi con la madre, con i contadini vicini e con la memoria, che si affaccia senza la prepotenza cui siamo stati costretti ad abituarci, ma con pratica durezza. Memoria che è personale e storica e che, in entrambi i casi, mai assume connotati statici, ma è inserita, alla pari degli altri concetti, in un discorso sempre in movimento, che costantemente richiama il movimento dell’orto e del mondo dentro il quale l’orto è inserito come piccola parte, eppure fondamentale.

Questo libro, così concepito, strutturato di mese in mese, in ascolto costante di quanto ci circonda, sia esso umano, vegetale, meteorologico, nasce, o meglio è la prosecuzione sotto altra forma, da una newsletter, Braccia rubate. Già nella newsletter, che ha visto, mese dopo mese, la collaborazione di tantissime persone, dagli approcci più diversi, si riusciva a cogliere la portata del discorso narrativo e politico che Barbara Bernardini ha intrapreso. Braccia rubate, e ora Dall’orto al mondo, sono azioni di politica culturale e di politica in senso più ampio, che rimarrano, saranno a loro volta bibliografia, a loro volta pezzi di paesaggio del discorso politico più urgente in questa fase storica. È come se Dall’orto al mondo facesse già parte di quella bibliografia, che va dall’India agli Stati Uniti, dall’Agro Pontino al Sud America, dalle politiche di coltivazione intensiva ai tentativi più radicali di rapporto con la terra. È un libro che ha la capacità di trasportare il lettore e la lettrice immediatamente al centro dei conflitti, e lo fa con l’inesorabilità della natura di cui parla, riuscendo oltretutto a passare attraverso i processi storici che hanno contribuito a formare il presente che abitiamo. Un libro inesorabile e gentile, costantemente dubbioso nella direzione dell’apertura all’altro da sé, mai auto-riferito. Rileggerlo tra qualche anno ci farà comprendere ancora meglio la potenza del lavoro compiuto da Barbara Bernardini. Come esprime il sottotitolo, questo è un manuale di resistenza e ci toccherà riaprirlo e usarlo spesso. 

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