Skip to main content

Forse, un giorno, nelle storie letterarie apparirà qualche riga sul rapporto tra letteratura e social network, e noi, che non abbiamo mai avuto le idee del tutto chiare, le leggeremo con piacere. Scoperte, ruminate, filtrate e infine esposte con chiarezza dai migliori critici, le intuizioni critiche più illuminanti su questi anni si mescoleranno ai nostri ricordi sfumati, e a fine capitolo potremo finalmente dire di aver capito quanto e come i social network hanno influenzato gli scaffali delle librerie di questi anni.
Succederà; dal canto nostro, per ora possiamo solo cercare di tenere gli occhi aperti, e cercare di farci un’idea. In tal senso, forse può essere utile segnalare la pubblicazione in Italia dell’ultimo romanzo della “regina del booktok”, cioè la parte di tiktok dove si parla di libri. La scrittrice è Ottessa Moshfegh, il libro Lapvona, tradotto da Silvia Rota Sperti per Feltrinelli.

Il lettore italiano che non usa tiktok ma tiene un occhio aperto sulla giovane narrativa americana avrà forse avuto occasione di sentir parlare della Moshfegh come un’autrice di storie acide e desolate, con un’inclinazione verso la crudeltà e il morboso – una combinazione di fattori perfetta per fare breccia con un certo tipo di pubblico giovane. Se si sbircia sul sito dell’editore inglese, il suo maggiore My year of rest and relaxation (Il mio anno di riposo e di oblio per Feltrinelli), un romanzo sulla catalessi che ha prodotto una discreta sensazione in patria, si può leggere “The cult New York Times bestseller” nel sottotitolo; nella descrizione: **THE TIKTOK SENSATION**”. E in effetti, Il mio anno sembra scritto su misura per piacere a una qualsiasi under 30 un po’ artsy di oggi. In due parole: una giovane e bellissima laureata in storia dell’arte, disgustata da tutto e tutti, decide di rifiutare sdegnosamente la vita intera e si imbottisce di psicofarmaci per non dover fare più niente. A Il mio anno era seguito La morte in mano (Death in her hands, sempre per Feltrinelli), un thriller tutto svolto nella mente di una vedova, e la Moshfegh sembrava aver imboccato con decisione la via di un certo tipo di romanzo psicologico in cui la narrazione fa da punto d’incontro tra l’interiorità di una protagonista femminile e un triste paesaggio americano contemporaneo; sfondo sul quale un umorismo spigoloso, quasi moralista, e gli infiniti psicologismi conducevano la storia. La critica (Jia Turner, sul New Yorker) aveva parlato chiaro: “easily the most interesting contemporary American writer on the subject of being alive when being alive feels terrible“. 

Così se una giovanissima utente di tiktok, incalzata da una intensa scrollata, si gettasse in libreria per comprare l’ultimo romanzo di questo “brand ambassador of ennui”, avrebbe tutto il diritto di aspettarsi un certo tipo di libro. E tuttavia troverebbe, che sorpresa!… un fantasy. O meglio, un romanzo di ambientazione medievale con punte di un dubbio soprannaturale; ma poco cambia. Per noi che seguiamo la Moshfegh con interesse, la sorpresa è la stessa; e ci aggiungeremmo alla domanda, se la povera ragazza chiedesse, legittimamente: perché?
Fortunatamente, ci ha pensato l’autrice stessa a rispondere in un’intervista:

«Ho scritto diversi romanzi che, oddio, hanno davvero la forma quasi di prosa come storytelling, come monologo di un personaggio. E, semplicemente, non volevo rifarlo ancora. Mi sembrava anche che sarebbe stato molto limitante, e non mi avrebbe permesso di raccontare la storia che volevo raccontare, che è dai punti di vista di molte persone, ed è la storia di come la decisione o la pulsione di una persona può influenzare qualcun altro, e come l’illusione di uno solo può avere un impatto su una comunità».

L’intento è chiaro: passare da uno studio del mondo nella mente di una persona a un racconto volta a volta deformato dall’interiorità dei personaggi, come lenti colorate; e al contempo tentare una via per così dire naturalista alla narrazione, prendendo l’oggetto del racconto quasi come esperimento. È così. Lapvona è il villaggio medievale per il quale un ammasso di personaggi di ogni tipo si aggira, complotta, spera, e per lo più finisce male. Il giovane Marek, un pastorello tredicenne, fa le veci del protagonista. Non ha conosciuto l’affetto della madre, scomparsa dopo la nascita, né quello del padre Jude, che dal canto suo lo riserva per le sue pecore, e induce il figlio al masochismo maltrattandolo in continuazione, segno di una pulsione violenta che si alterna quasi necessariamente alla tenerezza. Quando Marek non lavora, si ritrova a giocare ed esplorare il mondo con il suo amico Jacob, che ammira perché è nobile, spavaldo, sconsiderato, ma  soprattutto ha un paio di bellissime scarpe da caccia. Altre volte, invece, va a trovare la balia Ina, che ha una storia particolare. A diciassette anni perde la vista per via di una pestilenza che costringe lei e la sua famiglia alla quarantena; i compaesani, credendoli morti, bruciano la casa con loro dentro, e lei è l’unica a salvarsi. Completamente indifesa, malata, viene scambiata per un fantasma e tenuta a distanza in un cerchio di pietre, anche quando lei chiede cibo e acqua, sempre più appassionatamente:

“Sembra il lamento di una pecora,” disse qualcuno.

“Già, quelle con le corna” disse qualcun altro.

Solo un prete la salva, e vorrebbe mandarla in convento; tutto ma non quello, pensa Ina, e fugge nella foresta. Lì vivrà quasi tutta la sua vita, prima di tornare finalmente nel villaggio dove i suoi aguzzini sono tutti morti.
Personaggi diversissimi, si vede, l’uno dall’altro; e molti altri compariranno lungo tutto il libro. C’è però qualcosa che li accomuna, un qualcosa a cui ciascun personaggio gira intorno, che resta sullo sfondo e che a tratti si manifesta. Questo qualcosa è lo stesso orrore che le due protagoniste dei romanzi precedenti provano di fronte alle persone intorno a loro, ne Il mio anno per via di un disgusto quasi romantico, ne La morte in mano per la paura infantile e senile insieme degli adulti e della loro forza. In Lapvona l’ambientazione, un medioevo rozzo, sporco, del tutto inclemente, ne consente un’espressione plastica ed evidente, e il senso di distruzione e pericolo accompagna sin dalle prime pagine la storia dei lapvoniani.
Questo orrore del mondo ha valore non solo diegetico, ma fornisce l’appoggio per la scrittura stessa. Come visto poco sopra nel libro la singola coscienza, vero protagonista dei romanzi precedenti, viene spezzata in più personaggi estremamente connotati, e la storia arriva ad assomigliare a uno studio di caratteri; meglio, dove nei due romanzi precedenti il punto di vista unico creava la storia, dirigendola e accompagnando il lettore, qui questa sembra passare in secondo piano rispetto all’esposizione. Sebbene il male sia in effetti il protagonista occulto della vicenda, e anzi l’intreccio sembri quasi una semplice impalcatura per evocarlo e intorno farci girare i personaggi, esso si comporta come una cartina al tornasole, che mostra colori diversi a seconda di cosa vi entra in contatto. Questi colori sono l’argomento di Lapvona.
Quanto detto è valido anche in un altro senso. Tutte le paure e gli stimoli che muovono l’umanità del villaggio non sono distinti dalla sostanza della narrazione, che è l’uomo; non vengono da una minaccia esterna, ma interna. Il male, in Lapvona, e soprattutto la percezione del male, è tutto degli uomini. Gli squartamenti, le torture, gli stupri sono solo la punta dell’iceberg del groviglio di cattive intenzioni che muove i personaggi del libro, e la Moshfegh non lo nasconde, anzi si premura di sottolinearlo. “Era vero, aveva visto la morte. E non la temeva. A spaventarla erano le altre persone e il loro ostinato egoismo”: così pensa Ina prima di scappare dal convento, e non si potrebbe essere più chiari.
Questa “umanità” del male viene sottolineata più volte col contrappeso degli animali. Jude, che ama le sue pecore più di se stesso, pensa a tutto quel che ha sopportato e sotto sotto vorrebbe che Marek fosse solo un’altra di loro. E in un certo senso, è così: Marek supplisce alla completa assenza di tenerezza cercandola in una delle sue forme più arcaiche, e cioè allattando, da una pecora o da Ina. Ina stessa, quando, cieca, affamata, frastornata, chiede dell’acqua agli abitanti del villaggio, che la guardano da lontano, in semplice attesa di un pretesto per farla fuori, sembra una pecora che si lamenta. È animale l’uomo quando smette ciò che lo rende orrendo, ed è proprio per questo che Marek sente che gli uccelli sono “creature al confine tra cielo e terra, e che apprezzarli significasse accostarsi all’ascensione”. E quando chiede loro consiglio, “quelli rispondevano che non sapevano nulla dell’amore, che l’amore era un difetto propriamente umano che Dio aveva creato per controbilanciare il potere della avidità degli uomini”.
Il punto è chiaro. Ciò che interessa alla Moshfegh, però, è ancora oltre: con un romanzo polifonico, studiare gli effetti che questo male dell’uomo ha sulle persone. La pervasività di questo orrore è tale che si fatica a prenderlo come un espediente narrativo – manifestamente, il libro inizia con una scena agghiacciante, e che tuttavia non innesca nessuna azione degna di nota. Passano i banditi nel villaggio, e ammazzano “due uomini, tre donne e due bambini piccoli”; uno di loro viene ferito da un’ascia, acchiappato, portato alla gogna e torturato: lo picchiano, lo coprono di fango ed escrementi, gli staccano l’orecchio e lo buttano agli uccellini; e tuttavia, è solo paesaggio.

Ora, di fronte a questa brutalità pervasiva, ciascun personaggio ha la sua storia e il suo preciso modo di reagire. Marek si rifugia nel masochismo per poter godere del perdono, Jude apre il suo cuore solo alle pecore per non aprirlo più all’uomo, Ina ha imparato a rinunciare agli umani nella foresta – in sostanza, Lapvona è un lungo studio psicologico, svolto come col puntiglio di coprire ogni combinazione umana che valesse a dimostrare un punto. La Moshfegh del resto ha giocato il suo successo su un certo tipo di romanzo psicologico, ed evidentemente è sicura dei suoi punti di forza. I migliori momenti del libro sono in effetti quelli in cui in poche parole convivono un’intuizione psicologica precisa e un tono secco e piano, come quando nel mezzo di una conversazione con Jacob sui popoli del sud, una noterella di passaggio segnala un piccolo cortocircuito nella mente bambina di Marek:

“Quelli del Sud sono più rilassati. Hanno il senso dell’umorismo perché non devono lavorare così tanto. Hanno più tempo per pensare alle cose.”
“Se non lavorano tanto, come fanno a sopravvivere?”
“Non lo so. Magari sono ricchi,e  i ricchi hanno più tempo.”
“Sei così fortunato”, disse Marek senza capire bene (not understanding himself).

 Questo studio di personalità, a livello collettivo, fa emergere dei pattern specifici, che sono i vari modi in cui un personaggio può manipolare un avversario. Lungo tutto il romanzo vediamo personaggi mentire, inventare, abusare del proprio status, come per ricollocare il male. Soprattutto, Lapvona è un romanzo estremamente polemico nei confronti della religione come strumento di falsificazione. Quel sentimento del sacro che la protagonista di Il mio anno provava guardando una persona cadere dalle torri gemelle, quell’abbandono estatico a cui arriva Vesta nelle ultime righe di La morte in mano, qui non solo si riaffaccia in continuazione, ma è contrapposto costantemente alla finta religione degli abitanti, che è nel libro un altro nome per l’imbroglio. Guardandosi bene da ogni formulazione, la Moshfegh non fa davvero critica sociale o politica, ma sempre psicologismo – poiché i gesti di ogni personaggio, cristallizzati nella specifica loro forma di menzogna, sono visti nel loro nascere, e le conseguenze che da essi si dispiegano nel mondo appaiono, nel libro, quasi ovvietà meccaniche.

La Moshfegh conosce il valore, in questi casi, del distacco del narratore. I suoi ultimi romanzi sembravano quasi avere una missione flaubertiana, tutto show e niente telling; e sembrava anche poter funzionare. In Lapvona c’è un problema: i personaggi sono troppi, o meglio è troppo pensare di poterli svolgere a tutto tondo. Così l’autrice fa una scelta, e, concentrandosi sullo studio del carattere del personaggio nelle sue espressioni singole, tralascia di fargliene uno; e così il romanzo finisce per poggiarsi su un acquaio di figurine che vagano per il libro senza le forze di appassionare il lettore. Allo stesso modo, il tono semi-biblico ed essenziale che prende a volte il romanzo si basa sulla scommessa che un’illuminazione psicologistica basti a colorare la scena. Il rischio è quello di sembrare di sembrare didascalici, e infatti Lapvona lo è fin troppo. Alcuni hanno visto il fallimento dell’allegoria di Lapvona nell’assenza di un messaggio, ma noi non siamo di questo parere. Il libro è colmo di morali nascoste, di considerazioni continuamente suggerite. Pur di non farle passare con degli ammiccamenti, l’autrice fa il suo tono austero; ma non si accorge che il didascalismo esce dalla porta e rientra dalla finestra insieme con la noia. I momenti migliori del racconto sono, per converso, quelli in cui la Moshfegh si ricorda di essere una narratrice, e con semplicità improvvisa scarica paragrafi di tensione in un gesto semplice, come quando un equivoco tragico viene sventato con un “Jude trattenne il fiato e uscì silenziosamente in punta di piedi (tiptoed back), con ancora la testa di Klim sotto il braccio”, o come quando una lunga e confusa riflessione di Grigor si scioglie nella visione estatica di una fila di mele.
Ma sono momenti isolati. Anche l’umorismo nero della Moshfegh, ingabbiato in questo continuo indagare, arriva poche volte a brillare, è spesso scipito, al peggio irritante. Se poi l’unico momento in cui l’io del narratore rompe il silenzio è per dire che Marek era “l’idiota che era”, o per chiosarlo (“Povero me, pensò. Nessuno mi ama. E aveva ragione”), si fa fatica.

C’è un punto del romanzo, però, in cui le cose sembrano andare a posto, la vecchia Moshfegh ritornare, e la lettura diventare coinvolgente; ed è la comparsa di Villiam, il signore del castello. Irritante, inetto, snob,  non è altri che una vecchia conoscenza: la protagonista di Il mio anno. L’orrore che agli altri abitanti di Lapvona si manifesta in maniere atroci a lui, ricchissimo, potentissimo, si manifesta come noia, e subito torniamo nelle atmosfere sarcastiche di Il mio anno. La prima cosa che sappiamo di lui è che mangia a caso, e per questo fa brutti sogni. “Non faceva attenzione a ciò che ingoiava”, visto che per lui il mangiare è soprattutto un fatto psicologico. Per converso, la libido è quasi estinta. Villiam non ama l’altro sesso, parla con sua moglie una volta l’anno, e anzi, in un’asessualità vicina a un vago omoerotismo, arriva a sentire con fastidio ogni voce di donna.
Ogni giorno Villiam si intontisce. Tutti intorno a lui sono incaricati, come le app di un cellulare, di “colmare ogni momento di inattività”. Maghi e performer da lontano vengono per presentare “trucchi di magia come tirare fuori quaglie dai portagioie o fumare erbe inebrianti e far apparire fantasmi”, ogni giorno il signore del castello vuol essere “intrattenuto, adulato, sorpreso”; ma la sua cosa preferita è un’altra: farsi fare le imitazioni. Disincantato dalla noia e dalla solitudine, per nessuna battuta Villiam ride come a quelle in cui la vittima è lui. Dietro di lui, come dietro della protagonista de Il mio anno, incombe l’ombra del senso di colpa di una vita sprecata, e il primo compromesso accettabile è il ghigno fiacco dell’autoironia. Il tentativo della Moshfegh, cioè di non mutare tono, trattare personaggi antichi come fossero contemporanei per renderli da sé simili a quelli dei nostri tempi, qui si fa esplicito. Villiam potrebbe passare per una ragazza di oggi sconsolata e sarcastica esattamente come la protagonista de Il mio anno, fatto salvo il medioevo intorno. Il testo mira esplicitamente a confondere i piani, fino a mimare una sovrapposizione formale: Così Villiam “si svegliava per il pranzo – un banchetto -, poi giocava per tutto il pomeriggio, interrotto solo di tanto in tanto da una riunione con Erno o Klarek”, dove “giocava” (played games) è qualcosa che possono dire di fare molti under 30 di oggi; e nella camera vuota di Jacob si ritrovano impilati sul muro “il gallo cedrone, il daino, il lupo, la beccaccia”, stuffed animals dietro ai quali si intravedono i peluche. Sono le fioriture di un gioco che purtroppo riesce quasi solo con Villiam; ma almeno ci si diverte un po’.
Sarebbe ingeneroso ridurre Lapvona alla scommessa persa di un romanzo polifonico in terza persona; eppure, a giochi fatti, sembra che il cambiamento non abbia portato troppi benefici. Il libro si trascina per larghi tratti, intrappolato dai troppi personaggi, e la trama intricata fa più da contenitore che altro. La stessa domanda dell’inizio ritorna, e ancora ci viene da chiedere, insieme alla ragazza in libreria: perché? Perché cambiare ancora, una volta trovata la quadra? Possibile che dietro tutta l’impalcatura medievale, dietro tutti gli incastri tra personaggi ci sia solo una motivazione naturalista, da scienziato delle passioni?
A volte si vuole solo cambiare. Ma un piccolo sospetto viene – un’ipotesi gentile di rileggere tutto il libro in un altro modo. Forse, per la “crudele” Moshfegh, forse tutto il discorso del fantasy è stato, in primo luogo, un pretesto per scrivere un po’ di terribile, brutale, cieca violenza, in un mondo in cui essa era effettivamente cosa di tutti i giorni – un modo finalmente di divertirsi a scrivere di cose morbose senza la paura di passare per weird. Riapriamo il libro dall’inizio. Sempre davanti a noi sta la scena del brigante catturato, infangato, mutilato; ma, come tra le righe, ci sembra di vedere un sorriso.

Leave a Reply