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In occasione dell’uscita della sua raccolta di racconti Tutto ciò che poteva rompersi (Accento Edizioni, 2023) ho intervistato David Valentini, autore esordiente che i lettori di Altri animali hanno già avuto modo di conoscere. Eccoci qua nove mesi dopo.

Molti dei racconti presenti nella tua raccolta li avevi già pubblicati, nel corso di vari anni, su riviste letterarie, ma la tua raccolta è comunque molto coesa; non solo perché le trame dei racconti sono legate fra loro – un dettaglio meno importante di quanto si possa pensare – ma anche e soprattutto per una questione stilistica e strutturale, per l’idea di racconto che c’è dietro. A volte, lavorando su rivista con scrittori esordienti, capita di assistere al momento in cui un autore che magari già scrive bene e ha una sua voce scopre il suo modo di scrivere racconti. Nel corso della tua carriera come autore su rivista si vede che c’è stata una crescita: quand’è che hai scoperto la forma con cui hai scritto i racconti di Tutto ciò che poteva rompersi?

Il primo e il quarto racconto sono gli unici totalmente inediti; l’ultimo ha una prima parte pubblicata su Carie e una seconda su Digressioni, ma poi dopo averle scritte ho capito che il personaggio era lo stesso, e so che ancora ho da raccontare su quel personaggio. Il secondo era uscito su Spaghetti Writers anni fa e poi su Grado Zero, e poi il terzo era uscito su Spaghetti, prima della chiusura del sito, e poi su Altri Animali.

Ho cominciato a scrivere per caso, inizialmente su Spaghetti nel 2016, poi qualcosa è uscito qua e là, qualcosa su Reader For Blind, qualcosa su Crapula, ma io scrivevo quello che mi passava per la testa, qualsiasi storia mi venisse in mente, e a quei tempi si trattava di racconti da cinque, sei, massimo diecimila battute. Il primo racconto che ho scritto fra quelli che poi avrebbero fatto parte di questa raccolta è stato Accelerazione, che poi è diventato Una cosa semplice su Altri Animali. È stata la prima volta che mi sono detto “Voglio raccontare la stessa storia da diversi punti di vista, voglio che questi personaggi si parlino anche senza incontrarsi” – perché poi alcuni dei protagonisti di quel racconto neanche si conoscono – e mi piace molto quando una storia ha diverse prospettive, perché è una cosa di cui trovo riscontro nelle storie che sento nella realtà, anche semplicemente parlando con gli amici: lo stesso fatto ognuno lo vive in modo diverso e non è che se metti insieme le diverse prospettive hai una storia oggettiva; quello che viene fuori è più una somma di visioni parziali, comunque incomplete. E da lì sapevo che ognuno di quei personaggi aveva amici, genitori, parenti, e che ognuno di loro aveva una storia da raccontare. Perché non farlo?

La tua è una raccolta di racconti lunghi. Non è la media della raccolta con cui esordisce oggi un italiano, soprattutto non partendo dalle riviste, in cui per particolari ragioni di solito ci si tiene su battute più basse. Quali sono i modelli letterari che secondo te ci sono entrati di più?

Un libro che ha cambiato il mio modo di leggere e di scrivere è stato Sofia si veste sempre di nero (Cognetti, minimum fax), perché anche quello di fatto è un romanzo scomposto. Lo stesso personaggio viene ripreso negli anni e da diverse prospettive.

Tra l’altro qui si chiude un cerchio, perché lui l’ha scritto perché ha letto Manuale di caccia e pesca per ragazze che è uscito per Accento e di cui lui ora ha firmato la prefazione.

Sì, questa infatti è una cosa bellissima; di recente mi è comparsa una storia del 2015 o 2016 in cui dicevo che mi sarei potuto innamorare del personaggio di Sofia. A parte questo, a un certo punto ho deciso di voler cambiare percorso, volevo la pubblicazione cartacea, e ho capito che avevo davanti due racconti lunghi da cui partire: «La ragazza dell’ultimo piano»e «Una cosa semplice», e mi sono imposto come obiettivo di scrivere racconti di cinquantamila battute. Ed è stato innaturalmente semplice. Il quarto racconto, «In terre straniere», nasceva come risposta a una call di Narrandom. Una call di cinquemila battute. E anche «Il suo finale di stagione» nasce per una call di Narrandom. Ma in entrambi i casi la redazione di Narrandom mi disse che la storia gli sembrava compressa, gli sembrava che non funzionasse in cinquemila battute. Quindi mi sono detto Ok, raccontiamola col numero di battute che serve.

Quei due racconti furono bocciati perché non funzionavano su quelle lunghezze. «In terre straniere» si chiamava La fame, ed era un racconto sul vecchio contrasto fra città e campagna, la città stava assorbendo la campagna, e l’avevo scritto prima della pandemia. E poi ho fatto una stesura di ventimila battute ma comunque non mi soddisfaceva, comunque erano troppo brevi rispetto alla loro storia. Allora mi sono detto Vediamo cosa viene se mi permetto di allargare tanto. L’ultimo racconto inizialmente era di ottantamila battute. «In terre straniere» di sessantamila. Non sono più riuscito a stare nelle cinquantamila perché a quel punto mi era chiaro che quelle non erano storie che potevano stare in un numero basso di battute, avevano bisogno di più spazio, tant’è che oggi se io provo a scrivere qualcosa sotto le diecimila battute non mi riesce più naturale, è come se fosse cambiato il mio modo di raccontare storie. Se penso alle ultime cose che ho scritto, cose che ho scritto dopo aver chiuso la raccolta, sono tutte con una prima stesura fra le sedici e le ventimila battute, e so che c’è ancora da raccontare in quelle storie, so che la direzione almeno in questo stadio che ancora riguarda solo me, che ancora non è editing, è aggiungere.

C’è una cosa che avevo notato. Sono cinque racconti e quello centrale, il terzo, è diviso in cinque parti. Quindi in un certo senso la terza parte di Una cosa semplice è il centro perfetto del romanzo.

Sì quel racconto che su AA compare in tre parti qui è in cinque. Il fatto che sia centrale non è un caso, perché quello è il baricentro della raccolta, i personaggi che compaiono lì sono quelli che collegano tutti i racconti. È il racconto che lega tutto.

Due volte in questa raccolta qualcuno rimane bloccato in metro e ha una sorta di illuminazione.

Ti direi che è una coincidenza ma se ci penso e mi rendo conto che lo faccio succedere due volte nel libro non posso pensare che lo sia del tutto. Il fatto è che, come tante altre persone, passo parecchio tempo sui mezzi. In metro soprattutto, ed è dai tempi dell’università che è così, ed è diventato un po’ un momento mio, un momento in cui posso pensare anche se ho parecchia gente intorno, e anzi mi permette di osservarli. John O’Hara dice che l’arte del dialogo è l’arte dell’ascolto. Un sacco di conversazioni casuali sentite in metro sono entrate nella raccolta. E non faccio fatica a immaginare, come nel caso di Anna, che la confessione con un estraneo possa essere un momento in cui ti apri più di quanto non ti apriresti con qualcun altro. Ti riveli completamente perché non ti interessa il suo giudizio, non hai quei freni che puoi avere con un padre, un’amica o una fidanzata per cui c’è sempre un rapporto più forte. In quei casi ci sta l’epifania. Mi è capitato di iniziare a chiacchierare e magari anche confidarmi con sconosciuti in metro, magari perché si blocca la metro e inizi a chiacchierare. C’è stato un periodo in cui andavo spesso fino a Ostia coi mezzi, che da casa mia vuol dire un’ora e mezzo di viaggio, e lì un paio di volte mi è capitato di rimanere bloccato e ne uscivi un po’ traumatizzato ma anche diverso rispetto a prima.

Secondo te di che parla la tua raccolta?

Non so mai rispondere. È difficile descrivere una raccolta di racconti. Immagino che un romanzo, se sai di averlo scritto bene, se sai di cosa parla, riesci a spiegarlo bene. Non ricordo dov’è che lessi questa cosa, forse in On Writing di Stephen King, comunque qualcuno diceva che il primo test per capire se hai scritto un buon romanzo è saperlo raccontare in una frase. Quindi se mi chiedi di cosa parla ti posso dire che parla di una generazione precisa, che poi è la mia. Ti posso dire che quella cosa era tra i miei obiettivi, anche se il concetto di «raccontare una generazione» è sempre un concetto strano, limitato, ed è una generazione che si sta creando un’identità, che forse trova una sua identità nella mancanza di un’identità univoca. Ci hanno venduto un mondo in cui potevamo fare qualsiasi cosa e poi abbiamo dovuto fare i conti con una crisi continua. Trovo molto affascinante raccontare questa cosa finché la stiamo vivendo, raccontarla da dentro. Mi piacciono molto le storie di formazione in cui i personaggi arrivano a raccontarsi parlando da una fase avanzata della loro vita. Guardarsi indietro e raccontarsi con criterio. Però è anche bello farlo mentre ci sei ancora dentro, mentre sei ancora un po’ disorientato e non è tutto così chiaro.

In radio, su Radio Deejay, a un certo punto hai detto che il tuo è un libro sul dolore. Alla fine se ci pensi il dolore è uno dei modi in cui le persone crescono: prendi delle botte, reagisci alle botte creando una sorta di callo osseo e quel callo ti rende più maturo, più adulto, più pronto alla vita rispetto a prima. E la crescita ti fa percepire il tempo. C’è un prima e un dopo e c’è un mattone in più nella tua storia, e insomma il tempo è una somma di eventi, e quindi anche di traumi. E una volta che hai una storia da guardare, che sei avanti nel tempo e guardandoti indietro puoi vedere la somma di botte che hai preso, e per come funziona il cervello umano – che è molto stronzo – finisci per forzare una linearità, un rapporto di causa effetto, per prendere tutti quegli eventi che in realtà sono casualmente sommati e vederci un senso, una costruzione logica, e secondo me quello che unisce davvero tutti i tuoi racconti è questo istinto dei protagonisti di applicare un senso al proprio vissuto. Di dire Questa è stata la mia storia e per darle un senso, per rendere utile questo dolore, devo agire di conseguenza.

Questa cosa la ritrovo soprattutto in «In terre straniere». Quella è una fuga in cui c’è molto dolore e c’è un senso a posteriori che viene dato a quel dolore. La scoperta mette insieme tutti i tasselli, che magari non erano davvero legati ma che nella testa del protagonista lo diventano, insomma con quella scoperta il dolore resta dolore ma diventa accettabile. Lo stesso vale per il primo racconto. Quello che la protagonista fa alla fine non è altro che guardarsi indietro e trovare un senso al suo percorso. Lei è la somma dei suoi dolori. Ho detto quella cosa perché alla fine tutti questi personaggi sono la somma dei loro dolori. Perché l’alternativa qual è? C’è quella frase ormai citatissima di Nietzsche, Ciò che non mi uccide mi rende più forte [link del redattore], e ha un suo senso. Perché se l’alternativa è soccombere è chiaro che a quel punto sei spinto a renderla vera, a prendere quel dolore e a renderlo parte della tua vita e dire Adesso cresco a partire da questo, questo diventa una mia arma.

Per me è stato interessante notare che tutti i personaggi non si confrontano solo col dolore, ma poi quando vanno avanti creano una lettura personale del proprio passato. Sono narratori parzialmente inaffidabili, perché ci raccontano fatti veri ma sottolineano dei rapporti tra i fatti che implicano una singola lettura della realtà.

Ho scelto la prima persona proprio per questo, perché volevo un narratore inaffidabile. Se ci pensi in «In terre straniere» ci sono diversi narratori, uno dentro l’altro. Anche solo nel momento delle telefonate, è tutta una comunicazione parziale.

Ti sto intervistando da Mr Ibis e io e te abbiamo un rapporto particolare, non solo perché ci conosciamo da anni e abbiamo lavorato insieme ad alcuni racconti, ma anche e soprattutto perché facciamo qualcosa di molto serio insieme, cioè giochiamo a D&D. Allora ti dico che secondo me il gioco di ruolo è, al di fuori della narrativa, una delle cose che possono aiutare di più uno scrittore. È l’esperienza al di fuori della lettura e della scrittura che può aiutare di più un narratore a imparare a scrivere meglio. Perché il gioco di ruolo ti insegna in che modo puoi usare le parole per aiutare gli altri a visualizzare qualcosa; ti fa vedere cosa funziona e cosa no, ti fa riflettere sul rapporto che c’è tra il mondo che tu crei nella tua testa e che le altre persone creano nella loro testa sulla base di quello che gli hai detto. E quindi è importante dal punto di vista tecnico. E poi è importante nel mettersi nei panni di qualcun altro, entrare in un altro personaggio, ragionare come un altro personaggio, parlare come un altro personaggio – e non parlo di fare le vocine e recitare me proprio di come strutturi la frase, di cosa dici, di cos’è che direbbe qualcuno che non sei tu – e quindi volevo chiederti: ci sono cose anche tecniche che senti di dovere alla tua esperienza con gli rpg come scrittore?

Ti posso dire che ho notato nel mio percorso di giocatore, come in quello dei miei amici, dei pattern. Il primo personaggio che fai parte quasi sempre da te stesso, no? Sei tu, ma più forte, più fico, più bravo e senza una storia dietro. Perché probabilmente il tuo primo istinto è quello di vivere una fantasia. Il secondo è l’opposto. È un matto omicida e spregevole in cui sfoghi tutto quello che non sei, o che non vorresti essere. Poi inizi a mischiare le carte. Inizi a inventare storie, a prendere qualcosa di te e mischiarlo con cose che non ti riguardano. Ho fatto anche il master, per amici che non avevano mai giocato. E quando mi è capitato gli ho fatto compilare un piccolo questionario per inventare i loro personaggi. C’erano domante tipo Raccontami il primo sogno del tuo personaggio. O la sua prima emozione forte, il suo primo ricordo importante, formativo. Tre cose che quel personaggio fa ogni giorno quando si sveglia. Volevo che creassero dei personaggi, non delle schede. Perché è solo così che puoi davvero immergerti in un mondo diverso. Tutti hanno obiettivi, sogni, paure. Alla fine la cosa che definisce di più quei personaggi probabilmente sarà il modo in cui affrontano le loro paure. Dnd mi ha fatto crescere come lettore e come scrittore senza dubbio, ed è una cosa che consiglio a chiunque abbia una timidezza quasi patologica come la mia, perché ti aiuta ad affrontare le tue paure e ad affrontare situazioni impreviste. Se sei bravo a fare un personaggio in un gioco di ruolo, se il master è bravo e ti permette di immergerti in un’altra situazione, non ragioni più come te stesso ma come un personaggio. Un altro pattern divertente è il modo in cui si evolve il modo di parlare, il modo in cui passi dal dire “il mio personaggio fa questo” a “io faccio questo”. L’immedesimazione diventa sempre più completa, e l’immedesimazione è fondamentale per uno scrittore, non serve neanche dirlo.

E anche questo ti insegna molto sulla scrittura, perché non puoi solo scrivere dei personaggi ma devi metterli in relazione fra loro e con il mondo che crei. Devi sapere che non tutto andrà come hai pianificato come scrittore.

Ho provato a scrivere in tanti modi diversi, ho provato a partire dal finale e costruire a partire da lì, ho provato a farmi una scaletta, a fare in modo che a metà della storia ci fosse un colpo di scena, ma non ha mai funzionato un cavolo. Quello che funziona con me è che mi invento un personaggio e mi invento la storia che ha già alle sue spalle. Poi lo metto in un contesto, con altri personaggi, e vedo come reagisce, in un certo senso lo lascio andare. Molte volte arrivo a una soluzione che non mi sarei aspettato, che per certi versi non avrei voluto. Per esempio la storia di Ludovica non sapevo che sarebbe finita in quel modo, mi è un po’ esplosa mentre la scrivevo. Non avevo idea di come ne sarebbe uscita. Però sento che, almeno per me, ovviamente, il modo in cui scrivo sta funzionando, soprattutto se i personaggi si parlano fra di loro.

Abbiamo parlato di dolore ma questo è anche un libro divertente, che ha i suoi momenti ironici, anche per esempio quella battuta sul prete depresso. C’è un pezzo del terzo racconto che mi è sempre piaciuto, quando dici «Piove sugli hipster barbuti e con i baffi all’insù, piove sulle ragazze dai pantaloni larghi e le acconciature assurde, piove sui loro viaggi ad Amsterdam, sui filtri Lo-Fi…». Parti con hipster, che è una parola che nasce con valenza di alternatività, ma poi butti giù un elenco dei modi in cui quei personaggi sono omologati, ed è un contrasto ironico. C’è un altro momento che ho trovato molto ironico, sempre legato al concetto di banalità, nel racconto In terre straniere («Sono pensieri («Sono pensieri così banali che sono quasi tentato di chiedere a Filippo cosa ne pensa»). Tu hai dei momenti ironici, e sono spesso legati al concetto di banalità, di qualcosa che è omologato, banale, scontato. È consapevole il fatto che la tua ironia sia spesso legata a tutto questo?

Ricordo che stavo al mare con mio padre, avrò avuto sì e no diciott’anni. All’epoca ero un metallaro – o mi convincevo di esserlo – e mio padre era curioso, e mi chiedeva di spiegargli perché certe persone si vestissero in un certo modo, e io dicevo Per essere alternativi, e lui mi rispondeva Alternativi a cosa, che si vestono nello stesso modo? E mi ha fatto notare qualcosa che all’epoca trovavo assurdo e che adesso trovo scontato: per essere un metallaro, un punk o chiunque tu voglia essere devi comunque seguire una moda, un sistema di regole, perché se non ci stai dentro non sei riconoscibile in quanto tale. In tutto ciò che è alternativo troverai dei pattern, e quando quei pattern iniziano ad andare per la maggiore diventa un gioco pericoloso, perché finirai per entrare in dei binari in cui ogni cosa è classificabile, anche quello che non dovrebbe esserlo. L’alternativo non dovrebbe essere classificabile, eppure lo è. Per esempio Filippo a un certo punto trova Nietzsche e si appassiona alla filosofia. Molti dei suoi pensieri, che lui reputa essere eccezionali, sono banali. Qualsiasi cosa può essere banalizzata. L’ironia nella banalità la trovi facilmente, perché è la banalità che trovi facilmente, la trovi ovunque. A voler veramente esagerare puoi creare un circolo vizioso infinito.

Domanda doppia: parliamo di editing. Ti sei confrontato, in questo libro, con tanti feedback diversi. Alcuni questi racconti erano già apparsi su rivista – e lì hai già avuto un primo momento di feedback, e doppio: sia con l’editor della rivista che col pubblico della rivista – e poi con gli editor della casa editrice, con Matteo (B. Bianchi) e soprattutto Eleonora (Daniel), e adesso lo starai avendo con i primi lettori. Come ti vivi queste esperienze? Hanno cambiato qualcosa nel tuo modo di scrivere?

A proposito di banalità, ne ho scritta una classica nei ringraziamenti, in cui ho ringraziato le riviste che hanno bocciato i miei racconti. Perché senza quelle bocciature non sarebbero arrivati qui. A volte scrivi un racconto per una rivista, ci lavori molto e poi finisce lì. Mentre il racconto che viene bocciato, quello più imperfetto, diventa irrisolto, e ha una sorta di seconda vita, perché se vuoi ci rilavori, cerchi di capirlo meglio, e cresci come scrittore. Indubbiamente i racconti usciti su rivista hanno avuto un confronto con l’editor, a volte minimo a volte massiccio, e soprattutto quando hai la fortuna di avere qualcuno che ti legge hai la possibilità di vedere a posteriori cosa ha funzionato e cosa no. E poi per me è utilissimo fare parte di un collettivo. Il primo Spaghetti aveva una prassi che ho cercato di replicare quando siamo rinati, ed era che ognuno doveva confrontarsi con tutti gli altri. Ogni ciclo ha un editor diverso, in modo che tu come scrittore lavori sempre con un editor diverso, impari cose diverse. La crescita è contrapporsi a un’identità diversa dalla tua, superare te stesso. Il primo Spaghetti era nato un po’ per caso, e io ogni volta volevo che ci fosse una persona diversa a editarmi. Quando poi siamo rinati ho fatto una cartella excel e adesso a ogni ciclo ogni autore si confronta con un editor diverso. Noi pubblichiamo ogni due o tre mesi – stiamo ancora sperimentando – racconti accomunati da un tema, che può essere qualsiasi cosa, la vendetta, i gatti, il suono. E ogni volta c’è un editor diverso. Ha senso che sia così. Perché sono voci diverse, ognuno ti fa crescere in modo diverso. Giulio ha un taglio più classico, Deborah è più vicina al cuore delle storie, Alessia è chirurgica, Francesca è severa ma poi ti fa sentire un grande quando trovi la frase giusta, Jacopo è un amicone. Sono modi di scrivere che non sono il mio, e quindi mi fanno vedere prospettive diverse per il mio stesso modo di scrivere.

Per te è così? Io trovo che l’editing essendo una questione di fiducia migliori se lavori sempre con la stessa persona. Un percorso progressivamente più profondo. Io quando lavoro con qualcuno se so che è qualcuno che prende particolarmente sul serio i miei suggerimenti allora cerco di andarci più cauto, o magari gli do più di un suggerimento per un singolo problema, così so che non applicherà automaticamente la soluzione che gli è stata proposta, perché non è solo una, e poi lo invito a trovarne una sua. Mentre se invece so che uno è più sicuro di sé, e non ho bisogno di stare attento, non devo camminare sul ghiaccio quando gli parlo del suo testo, allora vado diretto, senza freni, e c’è tutta una questione di capire il testo dell’altro, di conoscere l’altro come scrittore. Insomma, quando lavoro con autori che già ho editato ci lavoro meglio. So cosa gli piace, so cosa hanno fatto apposta e cosa no, a cosa sono stati attenti, cosa gli può essere sfuggito.

Noi di Spaghetti ci conosciamo comunque da sei anni, siamo amici. Conosciamo la nostra scrittura. So come prenderli. È un percorso comune che a volte si intreccia, ci conosciamo. Non esclude il fatto che lavorare con uno stesso editor sia utile. Sono tutte cose che ti aiutano a crescere).

Con Matteo ho fatto macroediting. Mi diceva Questo racconto non funziona per questi aspetti, lavoraci in questa direzione. Eleonora mi ha fatto il culo a strisce, è stata brava perché ha capito alcune cose meglio di quanto non le avessi capite io, me le ha fatte notare, ed è questo che si dovrebbe fare in editing, e adesso devono ancora uscire le prime recensioni perché col lancio top secret tutto è stato un po’ ritardato, ma noto nei complimenti che mi vengono fatti da alcuni lettori degli aspetti a cui non avevo pensato, e se vorrò riprendere quei personaggi saprò anche grazie a loro da dove ripartire. Dalla prima bozza a oggi ci passa una vita intera, ma non serve tanto a capire un racconto quanto a capire un racconto dove potrà andare dopo, come potrà continuare una storia. Il personaggio di Ludovica cosa farà? E per questo il confronto col lettore è così importante, perché ti dà uno spunto che applichi sul futuro più che sul tuo presente.

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