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My favorite things (minimum fax, 2023) è un libro nato dal tempo. È, questa, un’affermazione meno metaforica di quello che sembra, per due motivi. Il primo è che l’intero romanzo potrebbe qualificarsi come un’elaborazione lucida dei traumi collettivi del secondo ‘900 e dell’inizio del nuovo millennio (un sentiero di ricerca letteraria che solo negli ultimi anni si inizia a percorrere con una certa consapevolezza, e che dunque suscita interesse); il secondo ha a che fare con il concetto di tempo in sé che, enfatizzato nella sua irreversibilità, è il demiurgo sottotraccia della storia intessuta da Baratto. 

In altorilievo, c’è un intreccio che ripercorre la vita del protagonista, Franco, seguendola lungo un arco temporale che va dagli anni ’50 al 2016. Figlio del dopoguerra, cresciuto nella Milano del boom – qui efficacemente connotata nel pieno della sua metamorfosi urbanistica e sociale – Franco è uno spirito solitario che attraversa la Storia e la cultura del secondo ‘900 come un testimone sordo e introverso. Tra gli eventi segnanti della sua giovinezza ci sono un incontro casuale con John Coltrane – per cui nutre una passione smodata – e un lungo viaggio di lavoro nelle viscere dell’Asia sovietica. La storia di Franco si sovrappone a quella di sua nipote Simona, anche lei protagonista della sua epoca che, tra le altre cose, vive in prima persona i fatti di Genova del 2001. La malattia della figlia di Simona – Amina, di soli nove anni – è per entrambi l’innesco per uno scavo interiore vertiginoso, in cui il decadimento del corpo, la solitudine, l’incomunicabilità e lo sgomento di fronte alla morte smettono di essere i risvolti di un trauma individuale e finiscono per identificare, nell’insieme, uno status umano rappresentativo della contemporaneità.

Ciascuno di questi temi è affrontato con uno stile singolare, che impiega il linguaggio della fisica quantistica come espediente per il racconto dei traumi che sedimentano nei protagonisti lungo l’intero arco della loro vita. Parallelamente, la scrittura si appropria dell’incanto della fiaba e del ritorno alle cose più amate (come la musica jazz, nel caso di Franco), elevandolo alla stregua di “farmaco” che procura sollievo dal patimento.

Baratto si addentra, in particolare, nel buco nero del fin di vita, dilatandolo per esaminarne tutti i possibili coni d’ombra. A essere sotto la lente di ingrandimento è l’intervallo temporale che intercorre tra il sorgere della consapevolezza della morte e la morte stessa, nel tentativo di intuire quale spazio occupa l’anima quando il corpo sta per smettere di essere.

Il fin di vita raccontato è quello di Amina, restituito con estrema e terribile delicatezza:

«Le lacrime colano invisibili sulle guance invisibili “dove sono andati a finire tutti? […] Ma nessuno risponde […] Allora chiude gli occhi, si sdraia ed entra in un buio più grande, dove le luci e i suoni svaniscono e il nero è percorso da sciami di dischi lamellari in vibrazione. Si ferma sulla soglia. Oltre quel buio c’è un altro buio ancora più nero, un supervuoto di gelida immensità. Vorrebbe tornare subito indietro ma è tanto stanca.»

Ma anche Franco è osservato, da vecchio, proprio nel momento di massima lucidità che precede la morte. In tal senso, la lingua si pone come strumento principe per conferire totalità a quei momenti che la finitezza dell’esperienza umana porta a vivere separatamente (non solo la morte, ma anche la nascita, la crescita, la malattia, la solitudine). Il processo di scrittura pare assorbire i concetti matematici – ma anche filosofici – di “discreto” e “continuo” ponendoli in costante dialogo tra loro: man mano che ci si avvicina alla morte di Franco e di Amina, pezzi della loro vita e della loro memoria, isolati fino a quel momento nel racconto, si diluiscono in visioni totalizzanti volte a evocare uno spazio della mente, in cui proiezioni del passato e del presente si fondono in quella che potrebbe essere definita come un’unica grande “coscienza del mondo”.

«Un lampo accecante cancella il cielo stellato, la notte, il canto dei grilli. […] Ogni cosa è scardinata, disarticolata, compenetrata: l’alto e il basso, la luce e l’oscurità, il fragore e il silenzio.»

My favorite things si presenta, dunque, come un’opera composita, multiforme. Il testo punta, tra le altre cose, a fare Letteratura del nesso tra le storie private e il flusso del tempo collettivo in cui queste storie si raccolgono e si frammentano. Nell’idea di Baratto tale legame si manifesta, prima di tutto, attraverso il paesaggio, che è dotato di una linea narrativa autonoma e di una propria dinamica evolutiva. La trasformazione metropolitana di Milano, per esempio, è la spia primaria del passaggio della Storia e dei movimenti sociali che l’hanno contraddistinta. Le scene ambientate negli anni ’50 sono particolarmente evocative: ci si ritrova, come i protagonisti, a brancolare come pionieri del Far West nell’aria rarefatta dei campi di granturco alle soglie della città, picchettati a loro volta dalle sagome di nuovi fabbricati in costruzione e dal fumo delle ciminiere che si stagliano in lontananza. Uno scenario suburbano, questo, restituito con vividezza e destinato a mutare allo stesso ritmo della società dei consumi. Baratto ripropone la stessa precisione rappresentativa nel racconto dei decenni successivi, senza mai perdere lo sguardo critico di chi punta a far luce su ciò che la coscienza rimuove e su quel che la Storia tende a dimenticare («Gli sbirri pestavano gente a caso», si legge nelle pagine dedicate al G8). Non si risparmiano osservazioni sul tessuto sociale della Milano odierna, fatto delle «ultime sacche di proletariato industriale […] figli di braccianti meridionali che avevano sgobbato nelle fabbriche e nelle officine fino all’avvento del terziario avanzato e che ora spendevano gli anni della pensione tra un giro al mercato di via Crema e un caffè in latteria, sempre più vecchi e acciaccati […] con i loro problemi di figli espatriati in altri paesi […] di figlie divorziate, di nipoti senza lavoro e nipotini che faticavano a ricordare le loro facce.»

Lo stile di Baratto si muove al di fuori degli schemi della narrazione lineare: più che rispettare la successione consequenziale degli eventi, la scrittura scandaglia gli spazi del rimosso e si scompone nella rappresentazione degli stati della coscienza, fatta di accumuli emotivi e alterazioni percettive. Del resto, quello dei protagonisti (in particolare di Franco e di Simona) è un lungo viaggio a ritroso nel tempo frammentato della memoria.

«E perché si rivede vagare più giovane e meno curvo in una notte d’inverno aprendosi la strada ciecamente […]? E il marciapiede ondeggia germinando dal nulla per scomparire subito dopo alle sue spalle, e la sua andatura è malferma, ma non per aver bevuto o corso. Forse per aver pianto.»

Il lettore si trova spesso immerso in una dimensione altra, configurata da un crescendo di immagini sinestetiche e metamorfiche che, da un lato, si soffermano sulla vita e l’origine del tutto, mentre dall’altro fanno i conti con la fine, la morte, il nulla. Si potrebbe ravvisare, in questo, un rimando cinematografico ai deliri onirici di 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick o, di riflesso, alle allucinazioni intime di Solaris di Tarkovskij, due esempi di opere in cui, esattamente come accade in My favorite things, la fisica quantistica è lo strumento impiegato per rispondere a domande sulla vita e sulla morte, su cosa – forse – c’è prima e su cosa – forse – c’è dopo.

«Poiché ogni segmento è presente nel continuum spazio-temporale di questo universo, se per qualche falla strutturale potessi penetrare nel bulk limaccioso oltre la membrana della creazione e fluttuando senza tempo né spazio né dimensione riuscissi a seguire il percorso di Franco lungo l’asse che in altre epoche da Porta Romana conduceva attraverso i prati di ortaglie e marcite fino al Lambro, in questa versione di cosmo che è frutto di una miriade di scelte consapevoli, decisioni imponderate e concatenazioni casuali di fatti minimi, vedresti coesistere e sovrapporsi ogni singola foglia di albero, i manipoli dei Goti, le truppe del Barbarossa, le camionette dei tedeschi.»

Pur trattandosi di un libro sul dolore e sulla sua elaborazione, l’esperienza di lettura è tutt’altro che angosciosa. La si potrebbe definire, piuttosto, trascinante. Vincere il dolore con il ritorno alle cose più amate sembrerebbe infatti essere una chiave d’accesso all’oltre-vita quando sopraggiunge l’annichilimento del corpo, e un’azione salvifica per chi resta ad affrontare il dolore della perdita.

Ma cosa s’intende per cose più amate? Nel romanzo assumono un significato fondamentale: si tratta di elementi ricorrenti nella vita dei protagonisti, epifanie che contribuiscono a un tipo di reinvenzione fiabesca che punteggia tutto il racconto e che permette di alleggerire, in qualche misura, il peso naturale che il pensiero della fine porta con sé. Per esempio, il motivo musicale che dà titolo al libro, My favorite things, è il brano che manda in estasi Franco la sera del suo incontro con Coltrane: non solo esso è richiamato a più riprese nelle rievocazioni del protagonista, ma s’impone alla mente per tutto il tempo di lettura, come una sorta di accompagnamento alla narrazione, un contrappunto malinconico, eppure felice. La fiaba è anche l’espediente usato per raccontare il viaggio di Amina nell’oltre-vita e un modo per affrontare l’elaborazione dei traumi di Franco. In tale prospettiva, si potrebbero intendere anche gli episodi ambientati nei pressi del cratere di Darvaza, nel cuore dell’attuale Turkmenistan, luogo dell’anima, in cui Franco si ritrova per lavoro proprio all’inizio degli anni ’70, all’epoca cioè del rinvenimento di una riserva di gas naturale che da allora brucia ininterrottamente. Per Franco e per i suoi colleghi autoctoni, quella zona desertica si riempie di significato mistico: il cratere viene identificato come territorio di confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti – curiosamente il nome del villaggio più prossimo, Derweze, significa “porta” – o almeno è quanto viene raccontato in una notte in cui i personaggi si ritrovano riuniti intorno al fuoco. Proprio questo istante di raccoglimento diventa un pretesto per ritrovare l’affabulazione primitiva del racconto orale e il fuoco stesso assume le forme di un aleph incandescente, in grado di restituire il continuum spazio-temporale nel suo andamento circolare e vorticoso, di riportare bambino Franco, e noi con lui. L’infanzia, in fondo, è lo stato a cui tende l’anima del protagonista al suo stadio finale: ormai liberato da ogni dolore, Franco ritrova se stesso nella dimensione più genuina possibile, dove tutto è nato e tutto si risolve – anche il suo trauma originario – in un prato di periferia degli anni ’50, quando lo scoppio di un ordigno residuo di guerra costò la vita a un suo compagno di giochi e dove tutto per lui sarebbe cambiato per sempre.

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