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Distinguere le radici del jazz nella riscrittura di un successo letterario

Le carriere letterarie non seguono tutte gli stessi tempi. Ci sono autori che impiegano anni per scrivere un romanzo e decenni per entrare nel catalogo di un editore. Alcuni debuttano in tarda età, altri ricevono premi postumi. Poi ci sono quelli come Luc Lang, che a 32 anni esordisce con la prestigiosa casa editrice Gallimard. Voyage sur la ligne d’horizon (1988) vince due premi letterari nazionali e si guadagna il favore di pubblico e critica. Il successo arriva dopo un percorso breve e lineare. In pratica un rettilineo.

Un quarto di secolo dopo Lang riscrive quel romanzo e gli dà un nuovo titolo. L’autostrada esce nel 2014 in Francia e nel 2022 è tradotto in italiano da Tommaso Gurrieri per Clichy. Quel rettilineo, a ben guardare, adesso sembra più una circonvallazione, in cui siamo tornati al punto di partenza. Ma perché riscrivere un romanzo che ha avuto successo? è la domanda impertinente che accompagna la lettura di questo vero e proprio remix letterario.

La voce del romanzo è rimasta la stessa negli anni. Si tratta di Frederic, giovane francese che non brilla per nessuna dote tranne forse la condiscendenza, è testimone dell’ambiguo ménage coniugale fra Thèrese e Lucien. Lei è una ex cantante di mezza età; lui è un ex maggiordomo compassato. Due ex che ancora non lo sono? Lucien è tormentato dalla gelosia, e scommetterei anche da un principio di ulcera, perché sua moglie si concede agli operai agricoli della zona anche se, una volta soli a casa, lo ammalia tra cibo, vino e dichiarazioni d’amore in musica.

La strada imboccata dal romanzo ci sembra di riconoscerla e in fondo è rimasta inalterata nella riscrittura, una sequenza di mancati eventi carichi di eros e thanatos. Immaginatevi un thriller psicologico ritmato dal falciare delle macchine nei campi di barbabietole e dallo sfrecciare dei veicoli lungo l’autostrada che li attraversa. Su questo tappeto armonico della provincia rusticana Lang innesta spezzoni di musica jazz e dei “fuori tempo” letterari.

L’incipit, per esempio, prende le mosse da un ritardo ferroviario e da qualche coincidenza fortuita. Siamo nel Secondo Dopoguerra, in una stazioncina fuori Lille. Frederic aspetta il treno per andare in cerca di un lavoro come operaio agricolo; Thèrese e Lucien aspettano che da quello stesso treno scenda il loro amico Alfred detto Fredo. Si fa sera e la donna, certa che il treno non passerà più, offre ospitalità a Frederic che inizia a chiamare “Fredo 2”. Lui accetta, sentendosi obbligato dalla gentilezza di lei.

È Thèrese, dunque, a dare il “la” alla vicenda e sarà sempre lei a determinarne la direzione. Si intuisce da subito che non finirà bene, ma il punto non è questo. Come una canzone già sentita che ascoltiamo di nuovo, il romanzo ci rivela una composizione stratificata i cui layer principali sono lo spazio e il tempo.

Se “Viaggio oltre la linea dell’orizzonte” era un titolo che evocava il confine, L’autostrada rimanda a un luogo fisico, la A23, un nastro d’asfalto lungo 43 chilometri che si srotola sul territorio della Francia settentrionale e si percorre in meno di un’ora salvo imprevisti (che in un romanzo, però, non mancano mai). Fonte di un brusio incessante e perimetro dell’azione, l’autostrada finisce quasi per essere un personaggio nelle vicende dei tre. Nella riscrittura del 2014 Lang rimuove le scene ambientate a Napoli e a Parigi e circoscrive le vicende nella regione del Nord. La terra abitata dagli ch’tis, i simpatici zoticoni resi popolari dalla commedia Benvenuti al Nord (2008, seguita in Italia dal simmetrico Benvenuti al Sud, 2010), mostra qui il lato oscuro di “un luogo di perdizione totale, terre industriali in cui ci sono macchine sui campi”.

L’ambientazione francese tradisce chiari richiami agli Stati Uniti. Le coltivazioni di barbabietole tipiche della zona rievocano un’atmosfera da gotico rurale degna del pennello di Grant Wood, e l’autostrada inneggia all’American Way dalla Beat Generation in poi. Lang ammette di essersi ispirato a Faulkner, a McCarthy, a Dos Passos. Nemmeno in Italia siamo immuni alla fascinazione di raccontare il nostro Sud come quello degli Stati Uniti, si pensi ad autori come Di Monopoli o Labbate. Ma attenzione: la A23 non è un palcoscenico keruachiano dove esibire la giovinezza, né la via crucis di rimpianti di P. K. Dick in In terra ostile. Semmai ricorda il prolungamento della 784 di Stephen King in Uscita per l’inferno e suscita nei personaggi la medesima attrazione distruttiva. È anche in sintonia con una certa idea di “finta teorica marginalità” di cui ha scritto Giorgio Falco: “l’autostrada trasmette l’idea di stare sul bordo e correre lungo i margini, nonostante il tracciato sia sempre al centro di qualcosa”.

Ora, quanto è marginalizzante un declino artistico? E quanto egocentrico sa essere un artista messo da parte? Lo spazio del romanzo si rivela essere la proiezione geografica dello stato emotivo di Thèrese. Prima che il suo impresario americano sparisse lei si esibiva nei migliori locali jazz della capitale. Poi l’oblio. “Parigina esiliata” al Nord, trova sollievo nella fedeltà di Lucien ma soffre il tormento di ciò che poteva essere e non è stato, cerca continue conferme negli amanti di passaggio. “Thèrese e l’autostrada sono la stessa cosa, che è la stessa immensa ferita”, svela Lucien a Frederic, ignaro del fatto che il giovane sia in bilico su una marginalità simile a quella di sua moglie.

“Tutti quanti voglion fare jazz, perché resister non si può, al ritmo del jazz” miagolano gli Aristogatti. Ed ecco che Thèrese vede un sassofono fare capolino dalla valigia dell’ospite. Guarda un po’, Frederic suona in una fanfara di paese e desidera diventare sassofonista! Lo è anche suo zio, racconta, l’omonimo Frederic che si esibisce nella Napoli liberata dagli americani. L’attenzione inattesa che la donna presta alle sue parole è un drop che cambia ritmo e lui, che era pronto a ripartire, decide di restare. Stordito come avesse sentito le Sirene dell’Odissea, si adagia nella quotidianità domestica, un andante cadenzato dagli assoli comportamentali di Thèrese. Mesta come Bessie Smith e trasgressiva come Satan’s Angel, è ora reale ora onirica. Veste pizzi fluorescenti, collant striminziti e vestaglie slacciate. Ostenta una massa di carni “flaccide e lattiginose che straripavano dalla sua carcassa larga e tarchiata”. Improvvisa travestimenti e spogliarelli. Si abbandona a effusioni intime con Lucien senza curarsi della presenza dell’ospite, che rimane fuori campo sempre meno senziente.

Frederic non si chiede mai cosa stia accadendo. “Quando non sai cos’è, allora è jazz” scrive Baricco. Ma il jazz di Novecento (Feltrinelli, 1994) non è quello di Frederic; mentre Baricco esalta il talento, l’immaginifico e il dirompente che caratterizzano l’esecuzione della musica, Lang si concentra sulla psiche dei personaggi per mostrare al lettore da dove nasce quella sonorità. Vuole farci sentire la fatica di vivere, il fardello delle radici che ha ispirato il canto degli schiavi afroamericani e che, per definizione, manca al leggendario pianista sull’oceano. Novecento nasce orfano su una nave, vive da artista ed è votato al silenzio degli abissi; anche Frederic è orfano, ma è stato cresciuto dalla nonna e fa l’operaio. L’umiliazione dei workers, costretti a un lavoro che nega loro i diritti umani, è distorto nelle scelte di Frederic, il quale rinuncia alla musica per lavorare nei campi.

Il jazz in L’autostrada non è un mistero, riecheggia la massima di Louis Armstrong: “Se hai bisogno di chiedere cos’è il jazz, non lo saprai mai”. I personaggi di Lang lo conoscono bene e sanno che non va né chiesto né rivelato. Non va spiegato, intona un brano di Billie Holiday che Thèrese canta spesso. Soltanto Lucien sente l’esigenza di raccontare chi sia davvero sua moglie, il suo passato, le sue ragioni; non a caso, lui è l’unico personaggio senza velleità artistiche.

Che il jazz è libertà ce l’hanno insegnato le note sbagliate di Thelonius Monk, sempre in bilico ma azzeccatissime. In L’autostrada il jazz rappresenta l’incantesimo sonoro con il quale Thèrese costringe i suoi uomini in un tragico legame di co-dipendenza. Alfred detto Fredo tenterà il suicidio per amore di lei; Lucien, inseguendola in una fuga notturna, verrà travolto da un camion in autostrada; di Frederic ci viene detto che si stabilirà alla villa, ne curerà il giardino e sognerà di sradicare i campi di barbabietole e coltivarvi fiori. I fiori rendono sedentari, le barbabietole no: da questa frase di Alfred fatta propria da Frederic sul finale, si intuisce la salvezza di chi è stato abbandonato e sente finalmente di aver trovato una casa, ossia Thèrese, che lo avvinghia nelle sue carni “cremose e lenitive”, vere e proprie “paludi di tenerezza nutritiva” nelle quali compensa la mancanza d’amore. La sedentarietà dell’operaio stagionale è un ossimoro, una provocatoria devianza. È la bugia che si racconta e che starà in piedi finché Thèrese crederà in lui, e viceversa. Per sopportare certe esistenze, sembra voler dire Lang fra le righe, ci si deve per forza disumanizzare.

Solo adesso la riscrittura del romanzo ci appare come una coerente manipolazione del testo che insiste sulla forma per esaltare il contenuto. Da un punto di vista tecnico Lang introduce un presente sincrono alla trama, sortendo l’effetto di avvicinare il lettore alla scena e renderlo testimone della storia. Tra dialoghi domestici e fatti quotidiani, si percepiscono da un lato le note dolenti dell’insuccesso di Thèrese; dall’altro, vibra un tritono sinistro che prelude alla tragedia. L’autore gioca con la concordanza fra passato, presente e futuro. Modula la lunghezza delle frasi per aumentare o rallentare il ritmo, intervalla uno smooth jazz a un be-bop dosando la punteggiatura. Alcuni periodi sono davvero molto lunghi, ma la lettura è vivacizzata dall’abbondanza di virgole, dai frammenti e dalle sospensioni delle frasi, dall’indiretto libero dei dialoghi e dall’omissione delle virgolette. Insomma, l’autore ha operato un fine tuning di formidabile raffinatezza, il cui risultato è un volumetto lungo circa 135 pagine che si legge in poco più di un’ora salvo imprevisti. Un viaggio tutt’altro che leggero, un last minute all’insegna del comfort e dell’evasione, rovinato dall’atmosfera mefitica che deforma il viaggiatore e il suo bagaglio, ogni giorno più pesanti.

Probabilmente – e questa è la mia risposta alla domanda iniziale –, per Luc Lang L’autostrada in tutti questi anni è stata il vero orizzonte cui tendere, sempre.

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