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È il 1° gennaio 1900 quando nasce Modesta, protagonista dell’opera più celebre di Goliarda Sapienza, L’arte della gioia. Non è una data casuale: scandisce un’epoca, la rivoluzione copernicana che ha caratterizzato questo secolo brevissimo, cambiando a tempo di rag time, jazz e rock and roll ciò che aveva sempre avuto un andamento lento e misurato. Modesta infatti è un nuovo tipo di personaggio letterario, così sovversiva che a lungo non ha trovato editori disposti a pubblicare la sua storia, così peculiare che in moltissimi l’hanno amata, per altri invece è risultata ostile, antipatica o respingente come solo i grandi personaggi sanno essere.

A lei Anna Toscano affida il compito di raccontare la sua creatrice, Goliarda Sapienza, nel bellissimo libretto Il calendario non mi segue, pubblicato nella collana Oilà, diretta da Chiara Alessi per Electa, dove si raccontano donne che nel panorama creativo italiano e internazionale del ’900 (dal design alla moda, dall’architettura alla musica, dall’illustrazione alla grafica, dalla fotografia alla letteratura) si sono affermate in campi solitamente di appannaggio maschile. Modesta può essere considerata la figlia letteraria di Goliarda, e infatti nel libro di Toscano la chiama spesso «mia madre», lei che, le scrisse il poeta Ignazio Buttitta su un volume di poesie che le regalò, «è matri di tutti e un havi figghi», come racconta Angelo Pellegrino nella prefazione a L’arte della gioia.

A partire da questa maternità letteraria Toscano fa ripercorrere a Modesta la storia di Goliarda Sapienza, una donna unica sin dal nome, bellissimo, perché accorda l’ironia alla cultura e può sembrare un nom de plume mentre è quello che sua madre, Maria Giudice, rivoluzionaria e socialista, e il suo compagno, Peppino Sapienza, l’avvocato dei poveri, diedero all’ultima di una nidiata di bambini (alcuni nati da relazioni precedenti, altri dalla loro unione, altri ancora adottati e riconosciuti dall’indole aperta e progressista di Peppino), e che crebbero liberi a Catania, un secolo fa, in un modo che è difficile immaginare persino oggi. La cifra che Goliarda conferisce a Modesta è questa, il suo dono da fata madrina per la creatura della sua penna: Modesta non è cattiva, è moderna, novecentesca, è libera.

Non indulge nella malmostosità, non si riveste di ipocrisia e buoni sentimenti mentre cova rancori, non aderisce ad alcuno stereotipo femminile. Modesta non è costretta a fingere, come denunciava il comportamento di molte eroine letterarie dell’800, non si sforza di essere perfetta agli occhi degli uomini e della società mentre di nascosto prepara la ribellione, ma lotta per sé stessa e la sua felicità apertamente, senza farsi intralciare da nessuno eppure senza dimenticare mai la generosità.

È spietatamente sincera, prima di tutto con sé stessa, ed è la sincerità che chiede a chi le sta intorno: è libera e pretende – e offre – libertà, non indulge in ciò che gli altri le chiedono se non coincide con quello che desidera realmente, si prende cura ma senza abnegazione, senza abdicare alla sua parte di gioia. Modesta non vuole essere consolata ma consola, risale a mani nude dalle sventure e dai pozzi bui in cui a volte si cade nella vita e si crea il proprio futuro con intelligenza e astuzia, imparando a discernere la passione dall’affetto, l’amore materno dalla libertà, l’amicizia dalla compassione, le ingiustizie dalle convenzioni sociali.

Goliarda non è Modesta ma le somiglia: Mody possiede la stessa ruvida determinazione di Goliarda, che scrisse molti libri, per la maggior parte autobiografici – Lettera aperta; La mia parte di gioia; Il vizio di parlare a me stessa; Il filo di mezzogiorno; Io, Jean Gabin; Taccuini; Scrittura dell’anima nuda; Elogio del bar, solo per citarne alcuni – ma si consacrò davvero a un solo libro, l’unico che autobiografico non era e quindi forse l’unico in cui davvero mise tutta sé stessa: L’arte della gioia. Per lui rinunciò a lavorare, scegliendo invece di sostare nella povertà che la prostrava e spesso la deprimeva, ma che le consentiva di sedersi alla scrivania tutti i giorni dalle 9:00 alle 13:30, rifiutando persino le colazioni con gli amici nella Roma assolata perché, diceva, «scrivere è sottrarre il tempo anche alla felicità». Arrivò persino a rubare una preziosa collana dalla casa di un’amica facoltosa, per colmare i suoi debiti certo, ma anche per fare esperienza di cosa è il carcere, perché esperire è apprendere e quella vicissitudine Sapienza la trasforma infatti nell’Università di Rebibbia. Goliarda era fatta come tutti i grandi scrittori, comprendeva il mondo soltanto dopo averlo elaborato attraverso le parole.

La storia dell’Arte della gioia è celebre: Goliarda Sapienza lo scrisse per trent’anni, lo propose a diverse – note e meno note – realtà editoriali italiane, e tutte rifiutarono questo romanzo corposo, ideologico, che passa dalla terza alla prima persona spesso, e con una protagonista ingombrante come la gioia che si costruisce pagina dopo pagina. È un libro che attraversa un secolo e ribalta molti luoghi comuni, soprattutto sulle donne e sul loro modo di stare al mondo e di amare, che si muove fluido nella sessualità parlando di piacere e desiderio, e nell’amore parlando di rispetto di sé e dell’altro, di denaro e indipendenza economica, di politica, un romanzo dove si cerca un modo di sopravvivere senza compromessi e con la «gioia sempre attaccata alle ossa». Rimase a lungo in una cassapanca e fu dato alle stampe dal marito di Goliarda e instancabile curatore della sua opera, Angelo Pellegrino, dopo la sua morte improvvisa, ma fu un’autopubblicazione per Stampa alternativa che non ebbe molto successo. Dobbiamo alla luminosa intelligenza e all’intuito di due editrici, una tedesca, Waltraud Schwarze, e l’altra francese, Viviane Hamy, se all’inizio degli anni 2000 quel libro venne pubblicato prima all’estero, dove divenne un caso editoriale, e poi in Italia da Einaudi per diventare, molti anni dopo la scomparsa della sua autrice, uno dei loro bestseller.

In Il calendario non mi segue Anna Toscano, da sempre attenta conoscitrice e divulgatrice dell’opera di Sapienza, ripercorre la vita di questa singolare autrice, dall’infanzia a Catania con i genitori socialisti e tanti fratelli, fino al trasferimento a Roma con la madre, che restò sempre per lei faro e radice, alla carriera da attrice e alla relazione con il regista Citto Maselli, soffermandosi anche sui punti più dolenti della sua esistenza, come l’analisi – fallita, ma anche da qui Goliarda farà nascere un libro, Il filo di mezzogiorno – e l’elettroshock a cui fu sottoposta, le miserie e le estromissioni dai circoli letterari più alla moda della Capitale, restituendoci in un centinaio di pagine un intenso ritratto di questa grande scrittrice. Ma non si limita a questo: in pochissime pagine riesce a individuare la sua poetica, il nocciolo duro del suo pensiero, cosa è per lei Ancestrale, come il titolo della sua unica raccolta di poesie, pubblicata in Italia nel 2013 da La vita felice con postfazione a cura della stessa Toscano. Fa dire a Modesta: «È quella forza, ancestrale, che ha tramandato anche a me, quella potenza che le proviene dalla sua famiglia, dai suoi genitori e finanche dai suoi nonni, e che è anche mia: quella del “discernere nel cadere” – lo dice un suo verso –, capire gli eventi, guardare alle cose, studiare i fatti per afferrare la vita, coltivare l’arte della gioia».

Toscano usa la poesia di Goliarda come metronomo della narrazione, e non stupisce perché L’arte della gioia e Ancestrale sono strettamente collegati: chi ha letto entrambi, con attenzione e magari più di una volta, troverà che molte delle poesie di Ancestrale finiscono sulle bocche e nei discorsi dei personaggi di Sapienza, come in «M’uccidi ma il mio viso / ti resterà invetrato / nello sguardo. / Tagliente. Nelle notti / lacrimeranno le palpebre / inchiodate», le parole che Modesta trova per uccidere Carmine, colui che le insegna l’amore, senza coltello né veleno. È alla poesia che Modesta si rivolge nel romanzo quando vuole capire le cose, e trovare un modo per affrontarle. Ma soprattutto la poesia, come la scrittura di Goliarda, serve a sancire un vuoto, un’assenza, una pausa ritmica senza la quale nessuna partitura è possibile: la scrittura come tentativo di sopravvivere alla morte della madre, Maria Giudice, nel 1953, di colmare il tempo non fuggendolo, ma anticipandolo.

Quella morte sposta il baricentro nella vita di Sapienza, recide le radici e la solleva per aria, e allora bisogna ritrovare uno scopo quando, a dispetto del dolore, si resta vivi: «Non ho potuto e in piedi / sono rimasta. Difficile / è cadere». Scrivere è quello che si fa davanti a una bara che contiene chi ami, «dividere / i secondi dai minuti / discernere nel cadere / della sera / questa sera da ieri da domani».

Toscano fa della scrittura di Sapienza una scrittura dell’assenza, ma anche della resistenza, un modo di sopravvivere che non è terapia, ma esistenza stessa, e infatti la scrittura e i protagonisti di Goliarda sono pura vita, coi loro errori e le loro contraddizioni, con il loro ostinato andare avanti nonostante la vita stessa. Trova la sua esca Goliarda, la sua zattera, il modo di salvarsi da sola (come solo in fondo ci si può salvare): la scrittura. Grazie a essa Goliarda intesse un dialogo con i suoi morti, scava e analizza la sua vita, la sua arte della gioia è la scrittura e le restituisce la felicità, perché davanti alla perdita si comprende che «la felicità è l’unica cosa che andrebbe descritta, insegnata». La gioia è per lei una ricerca costante, uno scopo che attraversa tutta l’esistenza e vince la categoria mortale del tempo, tanto che scrive in una lettera: «Per me la “gioia di vita” è l’intelligenza, specialmente quando la prima giovinezza è passata. Facile essere gioiosi quando si è nel pieno della fioritura! È dopo che si vede il talento. A vent’anni si ha la gioia del somaro».

Eccola Goliarda: in controtendenza con un mondo letterario che fa della sofferenza dello scrivere un motto da ostentare e che spesso mette al centro il dolore come espediente narrativo buono a emozionare facilmente, invece dà vita a Modesta, controeroina scomoda perché non è mai vittima, non cerca la compassione del lettore, non strappa lacrime di immedesimazione. La scrittura di Goliarda nasce dalle ossa spezzate dai lutti e le salda con la gioia di scrivere, in una festa di morti parlanti che danzano attraverso la sua penna. «I morti hanno torto se dopo la loro morte non c’è nessuno che li difenda», diceva.

A Mody e a Goliarda, sua madre, interessa solo il tempo presente, con il suo susseguirsi di istanti che creano l’eternità. La loro forza sta nel non indulgere nella nostalgia, nell’essere entrambe «caruse toste»che non camminano con la testa voltata indietro a rimpiangere il passato. Solo quello che esiste nell’istante conta, solo nell’istante si può vivere, ed è per questo che il calendario non può seguirle, col suo fissare immobile i giorni che sono stati e quelli che saranno. Sapienza rimarrà sempre fedele alla sua scrittura, che è la sua natura, anche quando il mondo editoriale coi suoi rifiuti sembra darle torto, e il suo tempo, che l’aveva misconosciuta, che non era stato in grado di capirla e che lei aveva beffato in vita, le accorda ora, in ritardo, la più piena delle consacrazioni.

Goliarda Sapienza, che era nata il 10 maggio 1924 e aveva sempre diffidato sia dell’anagrafe che del calendario, racconta Toscano, viene a prenderla la «Certa» all’improvviso in un giorno d’estate, il 30 agosto 1996: ha un arresto cardiaco mentre sta uscendo dalla sua casa di Gaeta. Verrà ritrovata solo un paio di giorni dopo, sul pavimento, cappello e borsetta per terra, vestita per uscire, forse per prendere un treno per Roma.

Lascia la casa in disordine, gli oggetti per scrivere sulla scrivania, in attesa, come lasciamo le cose quando coltiviamo la speranza di dover tornare, in un ultimo messaggio di gioia, perché in fondo Goliarda sapeva che l’ordine è la virtù di chi è sempre pronto a morire, il disordine il difetto di chi si pensa immortale, e il tempo, che non l’ha mai raggiunta, non ha potuto che darle ragione.

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