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Uscito lo scorso autunno per Atlantide Edizioni, La sindrome di Ræbenson dell’esordiente Giuseppe Quaranta è uno di quei libri che a distanza di mesi si può aver riletto una, due o tre volte. Questo perché è uno di quei romanzi che presentano nodi e incastri che, volta per volta volta, cominciano a sciogliersi o a combaciare. Non perché ci sia un mistero particolarmente fitto da risolvere, ma perché ogni volta che ci si appresta a iniziare da capo il romanzo lo si fa con una consapevolezza differente, che getta nuova luce sui personaggi, sui dialoghi e sui vari scenari. La prosa di Quaranta invita poi a lasciarsi immergere nelle pastoie di questa storia fatta di ricordi e menzogne, di nomi che ci vengono imboccati uno dopo l’altro.

Il romanzo racconta però soprattutto di due uomini: il narratore e un caro amico di questo, Antonio Deltito. Entrambi psichiatri, il primo assiste durante una serata in compagnia a una delle prime crisi di Deltito. Antonio Deltito sembra soffrire di un’amnesia improvvisa, che lo getta in un baratro, in uno spazio vacuo da cui anche nei giorni seguenti fatica a riemergere. Solo alcuni dei pezzi mancano nella mente di Deltito, che confessa di continuare a sapere ripetere a memoria, nonostante tutto, il catalogo delle navi di Omero. Eppure altri elementi scivolano o forse vengono inghiottiti e risucchiati da una forza che la sua mente non riesce a contrastare.

«Le mattine in ospedale Deltito faceva sempre l’inventario delle cose che aveva nella stanza, poi passava a quelle nella toilette. La possibilità di un’improvvisa assenza di qualcosa lo terrorizzava. Un pettine che aveva posato in un astuccio; la pila dei libri sul comodino; la busta con gli abstract di articoli scientifici; gli occhiali tondi di metallo sul davanzale della finestra. Aveva preso, stando lì, l’ossessiva abitudine di appuntarsi su un’agenda, insieme alle persone incontrate, gli oggetti di un ambiente. Questo lavoro lo impegnava per diverse ore, ma la sua disposizione mentale a fine giornata ne era in qualche modo rinfrancata».

Il protagonista comincia a interessarsi della malattia di Deltito. Prima di tutto perché un collega, secondariamente perché un amico. Ma, infine, lo fa perché si troverà invischiato in una strana storia fatta di identità che finiscono per sovrapporsi, di ricordi intercambiabili e di una malattia che pare non essere mai stata veramente riconosciuta, per quanto essa sembri esistere ormai da anni e anni. Deltito infatti ammetterà di soffrire di una sindrome strana e non riconosciuta dalla medicina, la sindrome di Ræbenson appunto, che provoca allucinazioni, immensi vuoti di memoria, amnesie che con il passare del tempo progrediscono fino a diventare ricordi falsati, turricefalia. Inoltre chi soffre della sindrome pare non poter morire di morte naturale. Per abbandonare questo piano dell’esistenza occorre un incidente o un suicidio. Questa vita eterna provoca e alimenta la malattia stessa, quindi: troppi ricordi si accumulano nella memoria, creando un carico insopportabile. Le identità si affastellano una sopra l’altra e il malcapitato che ne soffre lentamente scivolerà in una nuova personalità. Gli unici a conoscere la malattia sono gli studiosi – la cui presenza assume i contorni di una misteriosa setta – che si preoccupano che questa misteriosa e miracolosa sindrome, dato che promette vita eterna, resti sconosciuta al mondo.

La voce narrante ci consegna la storia di Antonio Deltito a trent’anni di distanza dai fatti avvenuti fortificando le tematiche del romanzo: la memoria e il fatto di come, una volta che i ricordi vengano trasmessi, possano mutare, la vita eterna e il conflitto che si crea tra realtà e finzione.

«Deltito si sentiva unico, come forse tutti quelli che hanno una malattia rara di cui fino al suo esordio non avevano mai sentito parlare. Si diceva: io non so cosa ho. Ed era talmente viva l’idea che qualcosa di estraneo alla propria natura gli avesse giocato un brutto tiro, che nemmeno per un attimo pensò che forse era meglio dire a sé stesso: io non so cosa sono».

La narrazione si sviluppa infatti su tre piani differenti. Abbiamo prima di tutto il protagonista, che raccoglie la storia di Deltito e cerca di rammendarla cercando i pezzi mancanti. Abbiamo Deltito stesso, che ci offre ricordi forse fasulli, storie che dice non gli appartengono. Infine Quaranta, che come autore, ma anche psichiatra, ci offre queste vite sghembe per aumentarne la veridicità. E malgrado la sindrome di Ræbenson chiaramente non esista, l’autore aggiunge al romanzo un apparato iconografico, con foto e documenti che aiutano chi legge a ricostruire e anche solo a immaginare meglio la forma finale del puzzle.

Tutto ciò diviene ancora più interessante quando, leggendo, ci rendiamo conto che alla fine è proprio così che si propaga e si intensifica la sindrome. Se ne accorge Deltito per primo e il narratore poi, ma la verità è una soltanto: i ricordi non finiranno mai per combaciare con la realtà perché vengono continuamente riletti e rielaborati. La storia di Deltito è già passata in diverse mani e in diverse menti: i suoi ricordi hanno subito una prima scollatura essendo lui afflitto dalla sindrome e dalla vita eterna, sono stati riletti dal protagonista secondo un’investigazione che lo confonde e lo spiazza, e reinterpretati infine nel romanzo da Quaranta. Questo perché, oltre il ricordo, gli esseri umani sono portati per natura a immaginare, a sviare dal sentiero tracciato dalla logica. Questo tipo di attitudine se affiancata alla sindrome crea un potente e letale cortocircuito. Si annaspa nel mondo reale e se ne perdono le coordinate.

«Provava, Antonio, il dolore più tremendo per la perdita di qualcosa? Era tale da non aver spazio a sufficienza per essere contenuto. Si era scontrato con i limiti della sua disperazione, aveva cercato di espanderli. Non c’era riuscito e aveva dunque rinunciato alla propria identità. Era per questo che voleva essere un altro, altrove».

Tuttavia immaginare la storia come una sequenza di scatole cinesi è forse poco fruttuoso. Non si tratta di storie che si incastrano, ma di una memoria che si ingigantisce e poi dilaga. Non scatole quindi, ma la memoria come un enorme lago da attraversare in lungo e in largo dove convivono alla stessa profondità diversi ricordi, diverse storie, diverse identità. Ricordare insomma non è semplicemente costruire una banca dati, ma è la possibilità di saper rimaneggiare questi ricordi, estrarli e vederli in nuova luce. Non c’è poi molto però di fantascientifico o particolarmente weird in tutto ciò, almeno non nel romanzo di Quaranta. Si tratta al contrario di un’osservazione più tecnica, pragmatica, aiutata in questo dallo stile evocativo ma comunque chirurgico dell’autore, e dal già citato apparato iconografico che accompagna la storia.

Certo, la memoria potrebbe volendo continuare ad aumentare all’infinito e sfuggire di mano a chi la possiede. Eppure non si travalica mai la vera e propria visione, non si presenta uno scenario onirico. Nei sogni infatti non siamo sottoposti a leggi, non dobbiamo misurarci con una qualche cautela. Nei sogni infine il dolore non esiste. La realtà che comincia a sfumare e a dissolversi di Deltito invece è soggetta a leggi ben precise: avrà problemi alla vista, all’udito. Non può abbandonare il sogno e svegliarsi: può solo commettere un suicido, se vuole uscire dall’afflizione della sindrome.

La vita eterna, nel romanzo di Quaranta, non è una benedizione né una grazia. È la mesta consapevolezza che tutta quella vita pesa e continua ad ammassarsi nella mente di chi la vita eterna la subisce.

Non essendo in grado di saperla gestire, Deltito e il protagonista dovranno interrogarsi quindi su come questa consapevolezza può essere superata, come si può sopravvivere a tale peso. Occorre stringere i denti, occorre indagare come fa il narratore, o forse sperare che lentamente, venendo risucchiata nel lago abissale, la coscienza finirà per dissolversi insieme a molti altri ricordi e quindi molte altre identità?
Non c’è una componente prettamente fantastica in questo, ma di sicuro c’è una lieve tensione orrifica, tipica di alcune storie psicologiche in cui i personaggi si trovano a fare i conti con qualcosa da accettare a tutti i costi, qualcosa di più grande di loro. Ma questo elemento con cui corrispondere non è certo una creatura o un immenso segreto cosmico ma la verità cruda: spesso il modo in cui concepiamo la nostra identità, il modo in cui riusciamo a maneggiare ricordi o speranze non è sufficiente. È l’incubo che vive per esempio la protagonista di L’incubo di Hill House di Shirley Jackson, una storia horror certo, ma dalla forte componente psicologica. Nessuna tazza con raffigurate le stelle può ancorare la protagonista Eleanor alla realtà. Arriva un momento in cui tutto quanto diventa troppo, troppo presente o troppo sfuggente. Una zona di limbo in cui ci sono ben poche vie di uscita.

Il romanzo di Quaranta ci getta ugualmente in un’indagine che ha le atmosfere languide di un horror psicologico, di un thriller à la Hitchcock. Mettere insieme i pezzi dell’enigma è difficile perché ogni voce che ci parla della malattia è allo stesso tempo sincera e inattendibile. Chissà di chi sono i ricordi, chissà quante volte una storia è stata maneggiata da menti diverse, finendo così per assumere quei contorni che, una volta arrivati a noi lettori, sfumeranno di nuovo.

Per questo occorre leggere da capo la storia. Possiamo affannarci a trovare una risposta, ma tutto quello che si rivelerà utile alla fine è provare ad adottare un nuovo punto di vista: rileggere il romanzo con gli occhi sofferenti di Deltito, con lo sguardo indagatore e sempre più nervoso del protagonista, o con il fascino che Quaranta prova nel consegnarci il romanzo stesso.

Pagina dopo pagina, sia Deltito e il protagonista si sentiranno mancare le fondamenta sotto i piedi e cominceranno a cadere. Quello che resta da fare è continuare a indagare, e quindi a ricordare, anche in mezzo a rovine di ricordi che più non si possono riconoscere. Ricordi che continuano a precipitare intanto, una pioggia infinita, ed è proprio la consapevolezza che tutto ciò non può terminare che continuerà ad aumentare la sindrome di Ræbenson, con le sue vittime e i suoi segreti, in mezzo a chi sceglie di osservare i ricordi che precipitano a costo di perseguire la vita eterna e chi invece ne ha abbastanza e tenta una via di fuga.



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