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«Ma poi: perché un libro di racconti dev’essere meno nobile, o più flebile, di un romanzo? È un preconcetto che credo nato nella testa dei librai; io lettore, ad esempio, leggo volentieri racconti, perché li sento più spontanei. Potrei citare diversi scrittori che, per consenso generale, riescono meglio nel racconto che nel romanzo; i primi che mi vengono in mente sono Maupassant, Cortázar, Singer, e naturalmente Boccaccio.»

Lo dice Primo Levi (e, tra l’altro, chi non nominerebbe lo stesso Primo Levi?) a Giovanni Tesio in un’intervista del 1982 pochi mesi dopo la pubblicazione di Lilít e altri racconti. Si tratta di una raccolta di trentotto testi, già pubblicati su quotidiani e riviste, suddivisi in tre sezioni: Passato prossimo, Futuro anteriore, Presente indicativo. L’ultima è una raccolta di racconti che hanno a che fare con l’attuale, con l’ordinario, tra cui si trova l’amara storia di un giovane che disegna svastiche con una bomboletta spray; l’episodio diventa per Levi l’occasione di parlare di comunicazione, anzi di decodificazione. Gli altri sono racconti di lavoro (come La sfida della molecola), di montagna, storie di partigiani, di letteratura. Futuro anteriore riprende Storie naturali e Vizio di forma, i due volumi di racconti fantastici pubblicati rispettivamente nel 1966 e nel 1971 (il primo sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila). I racconti di Passato prossimo sono racconti di Lager, ma sembrano come gli altri racconti fantastici, quasi stentassi a riconoscere la loro verità storica: è questa la grande preoccupazione dei testimoni, che i testimoni diretti scompaiano e rimangano solo i figli e i figli dei figli, e i fatti da non dimenticare diventino lontani e sfuocati. Mi pare, mentre rinnego la mia impressione, mentre mi dico ehi, questi non sono racconti fantastici, di averla già data vinta ai nemici, quelli che Levi non chiamava mostri perché essenzialmente persone educate male, burocrati senza fantasia.

«Lilít e altri racconti» di Primo Levi, edizione Einaudi

«Lilít e altri racconti» di Primo Levi, edizione Einaudi

Eppure, se il fantastico è ciò che esula dall’esperienza comune, ciò che non risponde alle leggi che conosciamo, i racconti ambientati in Lager sono fantastici per definizione: il Lager è il rovescio di tutte le leggi morali, è un grande laboratorio da studiare. Possedere carta e matita in Lager può costare la vita e uno schiaffo può essere una gentilezza (si veda il racconto Il giocoliere). I prigionieri portano addosso giorno e notte un cucchiaio (si veda Capaneo) «pronto ad ogni improbabile emergenza, come i Templari la spada» (immancabile umorismo leviano). Il Lager ha addirittura una lingua propria, il Lagerjargon», un tedesco imbarbarito e influenzato dalle altre lingue del campo. I termini tecnici in Lagerjargon valgono solo all’interno del campo: non vi è motivo, per esempio, dell’esistenza di Bettnachzieher all’esterno (funzionari addetti alla verifica dei letti e coloro che ne curano l’allineamento intervenendo dopo l’operazione di Bettenbauen).

Muselman è il prigioniero esausto prossimo alla morte, Prominent il privilegiato, Zugang il nuovo arrivato. Un discepolo racconta proprio di uno Zugang, un certo Endre chiamato Bandi, ungherese, con «un talento unico per la felicità» che a Levi sembrava pericoloso in quel luogo. L’autore lo fece suo discepolo e tentò di spiegargli che in Lager, «per cavarsela, bisognava darsi da fare, organizzare cibo illegale, scansare il lavoro, trovare amici influenti, nascondersi, nascondere il proprio pensiero, rubare, mentire». In Lager gli ungheresi arrivarono in massa nei mesi di maggio e giugno 1944 e comunicavano tra loro nella loro lingua stramba fatta di parole lunghissime pronunciate lentamente. Così alla squadra di lavoro di Levi si unirono questi ungheresi allegri e ancora in buona salute; tra loro Bandi (il suo nome suonerebbe come santo in italiano e Bandi un santo lo sembrava davvero), assegnatogli come compagno per trasportare mattoni su una barella. Il compito prevedeva venti mattoni per viaggio. Dato che i mattoni si facevano più pesanti a ogni viaggio, Levi gli mostrò come se ne potevano portare diciassette invece di venti, senza destare sospetto; trovata che tornava utile per fargli capire come cavarsela in Lager. Bandi obbedì a Levi, non del tutto convinto. Dopo qualche mese Levi ricevette una lettera da casa, grazie all’aiuto di un italiano libero. La mostrò a Bandi e questi in cambio gli donò un ravanello rubato; e noi capiamo, insieme a Bandi, che quella lettera era «una falla, una lacuna dell’universo nero che ci stringeva, e che attraverso ad essa poteva passare la speranza».

I racconti di Passato prossimo «raccolgono i paralipomeni dei miei primi due libri», scrive l’autore nel Ritorno di Lorenzo. Molti di questi racconti sono infatti le storie di alcuni personaggi già incontrati in Se questo è un uomo e La tregua, degli approfondimenti, quasi degli omaggi. «Lorenzo era ancora vivo quando io stavo scrivendo Se questo è un uomo, e l’impresa di trasformare una persona viva in un personaggio lega la mano di chi scrive.»  Questo ritegno, che è insieme riguardo (impedimento) e responsabilità (dovere di comunicare) lo si intuisce già al primo racconto (Capaneo), quando in chiusura Levi scrive: «Ho ragione di ritenere che Rappoport non sia sopravvissuto; perciò stimo doveroso eseguire del mio meglio l’incarico che mi è stato affidato» ovvero raccontarci la sua filosofia, come Rappoport l’ha detta a lui. L’ultimo racconto della sezione si intitola Il re dei Giudei e verrà ripreso con alcune modifiche nei Sommersi e i salvati. Parla di Rumkowski, il capo del ghetto della città polacca di Lódź, che, nell’ultimo libro, diventa il simbolo dell’ambiguità, il tipico esemplare della zona grigia. Il racconto si chiude così: «Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal denaro da dimenticare la nostra fragilità essenziale: da dimenticare che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori dal recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno».

Sembrano, quelli di Passato prossimo, racconti fantastici, ma non lo sono. Per fortuna Bandi era un buon discepolo. Levi un buon maestro. Lo è ancora: ci insegna ad amare i racconti, da lettore e da scrittore, e ci insegna soprattutto che il passato è tutt’altro che remoto, può tornare, è prossimo.

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