La partita del 16 luglio del 1950 tra Brasile e Uruguay, il cosiddetto Maracanazo, è probabilmente una delle partite su cui si è scritto di più. Forse solo Italia-Germania 4-3 dei mondiali messicani del 1970 può vantare una simile letteratura. Ma chi avrebbe raccontato, per radio e tv, ai brasiliani quella storica partita che avrebbe dovuto consacrare Campione del Mondo il Brasile di Zizinho, Friaça e Ademir? Un tipino magro, con gli occhiali tondi e i baffetti sottili: il suo nome era Ary Barroso.
Ary Barroso è la voce della stadio del Flamengo. Quando il Fla segna, oltre a urlare gol come solo un’allenata ugola sudamericana sa fare, tira fuori la gaitinha e la suona in maniera fantastica. Sì, perché Barroso, non è un semplice telecronista o radiocronista, ma un grandissimo musicista che nella sua vita ha composto decine di brani. Nel suo album Meu Brasil Brasilero è incisa la più popolare canzone brasiliana di tutti i tempi: Acquarela do Brasil.
Il mondiale del ’50 è il primo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Avrebbe dovuto svolgersi nel 1949, ma il Brasile chiese una proroga per poter costruire il più grande stadio al mondo dell’epoca, il leggendario Maracanà che poteva contenere circa duecentomila persone. Tutti erano convinti che il Brasile, considerato una delle potenze calcistiche globali, sarebbe stato campione.
La formula di questo primo mondiale moderno è un po’ complicata. Basti sapere che il Brasile travolge il Messico 4-0, ma poi pareggia con la Svizzera 2-2! E dopo? Deve vincere l’ultima partita con la Jugoslavia che è una signora squadra. Gli slavi, però, giocano in dieci tutto il primo tempo, perché il loro capitano si sbrega la testa contro un tondino di ferro in un corridoio del Maracanà, che in buona parte è ancora un cantiere. L’arbitro, lo svedese Eklind, fa iniziare lo stesso la partita senza far sostituire il giocatore. Il Brasile vince 2-0 (Zizinho e Ademir) e approda al gironcino finale, che funzionava più o meno come gli attuali gironi di Champion’s League. Chi lo vince è Campione del Mondo.
L’allenatore brasiliano Flavio Costa, è così sicuro di avere il titolo in tasca, che si è già prenotato un posto nel parlamento brasiliano per le prossime elezioni di ottobre. Nel girone finale ci sono la Spagna che non è quella di Zamora, e la Svezia che non è ancora la squadra di Liedholm, Gren e Nordhal. Ci gioca Jepson, in seguito comprato dal Napoli di Achille Lauro al prezzo del capitale di una banca, tant’è che al San Paolo, una volta che il giocatore venne messo giù, si sentì urlare: È caduto ‘o Banco ‘e Napule!
L’unica vera preoccupazione per i brasiliani è l’Uruguay.
Ci giocano El Futbol Schiaffino, Ghiggia, il portiere Maspoli, il mitico Obdulio Varela, addirittura il nipote di Jorge Luis Andrade (Campione del Mondo nel 1930), Rodriguez Andrade. È un’ottima squadra e diversi cronisti che hanno ricostruito la partita, sostengono che l’allenatore Lopez Fontana, fosse molto, molto più sveglio del futuro deputato Costa. A Friaça e compagni bastava un pareggio per essere campeon, gli uruguagi invece dovevano vincere.
Ed è esattamente quello che successe: 2-1 per l’albiceleste al triplice fischio. Gli oltre duecento mila spettatori del Maracanà rimasero ammutoliti. Anche Jules Rimet, nel consegnare la coppa nelle mani del capitano, non si era preparato alcun discorso su quella vittoria. Nessuno suonò l’inno uruguayano, perché nessuno aveva messo in conto che avrebbe vinto la squadra di Varela. La disperazione era palpabile; la gente piangeva in tribuna. Forse persino Obdulio Varela avrebbe preferito ricordare quella partita come un’onorevole sconfitta.
Per la disfatta venne incolpato il primo portiere nero della storia del Brasile, Moacyr Barbosa. L’estremo difensore non era più colpevole dei suoi compagni, e in particolare di Bigode, che avrebbe dovuto marcare Ghiggia. Invece Bigode se l’era perso regolarmente, scappato sulla fascia e poi a crossare dentro o a provare il tiro sul primo palo, com’era nel suo stile. Per il 2-1 Ghiggia fece un triangolo con un compagno – pared tuya mia in uruguayano – segnando il gol che avrebbe mandato all’inferno un intero paese. Barbosa era il colpevole ideale: un nero che veniva dal nulla. Non era un grande attaccante, né faceva impazzire la folla con i suoi dribbling. Doveva solo parare, e in quel caso non ci riuscì. Venne fatto a pezzi dalla stampa e dai suoi connazionali, ributtando nella depressione anche una parte della popolazione nera brasiliana, che lo aveva visto come una boccata d’ossigeno.
Di fatto, di Brasile-Uruguay ci sono arrivate solo delle voci, qualche foto e pochissime riprese. Eppure sappiamo che il Maracanazo è la pagina più terribile del calcio brasiliano, peggio del 7-1 coi tedeschi al Mondiale del 2014. Dopo quella terribile delusione, la federazione di calcio brasiliana decise di cambiare colore alle maglie della nazionale, che dal 1954 diventeranno verde oro.
È vero c’è la grande impresa sportiva dell’Uruguay che ha vinto contro tutto! Compresi i suoi dirigenti che dicevano che perdere anche 3-0 sarebbe stato dignitoso, e che a fine partita si sarebbero portati via le medaglie placcate oro dei giocatori per rivendersele. È anche vero che i brasiliani avevano sottovalutato la partita con la solita presunzione.
I giornali avevano scritto per giorni che l’unica incertezza della partita era il punteggio con cui la seleçao avrebbe distrutto l’albiceleste. I politici brasiliani avevano fatto a gara per stringere le mani ai giocatori e farsi immortalare con loro. Troppo entusiasmo? Troppa pressione? La difesa fallace? Un allenatore meno bravo del suo avversario? Probabilmente tutto ciò che poteva andare storto, andò storto.
Prima tamburi, pandeiros, cuìcas, risuonavano in tutto il Maracanà, poi niente. O meglio, risuonava il silenzio di duecentomila persone. Ary Barroso non voleva vedere tutto questo. Al secondo gol di Ghiggia, al 76′ del secondo tempo, si riprese la gaitinha e se andò via. Quella fu la sua ultima cronaca sportiva. Non voleva vedere Obdulio Varela alzare la coppa, lo stadio che si svuotava in silenzio, la gente con le guance solcate dalle lacrime. E non voleva rimanere con i suoi colleghi che chiudevano i loro articoli seduti sulle gradinate, con gli occhi stanchi e tristi. Non voleva sentire il ticchettio solitario delle macchine da scrivere. Sarebbe stato insopportabile per lui, così come vedere le cartacce spazzate via dal vento della sconfitta, in quel 16 luglio del 1950 al Maracanà.
20 Comments