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Il Grande Torino è la squadra più leggendaria d’Italia, sia per la sua serie di vittorie sia per la sua triste fine. Era composta da grandi giocatori tra cui Mazzola, Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Loik e altri fuoriclasse.

Uno degli artefici di quello storico gruppo si chiamava Erno Erbestein ed è purtroppo morto anche lui a Superga nello stesso tragico incidente aereo. Erbstein è stato un giocatore e poi allenatore ungherese, in Italia giocò solo col Vincenza, stagione ’25-’26. Allenò varie squadre, ma le tre più importanti furono il Bari (al suo rientro in Italia), la Lucchese (’33-’38) e il Torino (’38-’39/’48-’49). Pur sorvolando sullo straordinario contributo che il calcio magiaro ha dato alla causa del football mondiale, Erno Erbstein è considerato l’uomo che ha creato il Grande Torino, sia da dirigente che da allenatore. Pare, per esempio, che abbia scelto lui Ezio Loik e Valentino Mazzola insieme al presidente dell’epoca Ferruccio Novi. Ingaggiò dalla Lucchese anche il portiere Olivieri, detto il gatto magico.

Eccola, la Lucchese: Erbstein l’aveva portata dalla serie C alla Serie A in tre anni, arrivando 7° nella prima stagione nella massima serie, annata 1936-37. Era l’idolo della città, ma era ebreo e quando le leggi razziali vennero messe su carta da quel branco di razzisti che erano i fascisti, si trasferì a Torino, con la scusa di far studiare le sue figlie in una scuola privata, visto che le nuovi leggi avevano espulso gli ebrei dalle scuole pubbliche. Proprio nei rossoneri toscani, l’ungherese riuscì ad applicare le sue teorie calcistiche, anche grazie a un manipolo di giocatori convintamente antifascisti, come Bruno Neri. Neri aveva giocato una stagione con la Lucchese, prima che Erbstein lo portasse al Torino. Celebre è la foto che lo ritrae all’inaugurazione di quello che sarà l’Artemio Franchi di Firenze, in cui fu l’unico giocatore a non fare il saluto fascista, anno 1931. Dopo l’armistizio diventò partigiano e comandante di una brigata. Morì in un’azione contro i nazifascisti l’11 luglio 1944. Nello stadio di Faenza, dove era nato, c’è ancora una lapide che lo ricorda.

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Un altro giocatore transitato sempre dalla Lucchese di Erbstein è Libero Marchini, anarchico. Marchini fu tra i campioni olimpici di Berlino 1936 nell’Italia di Pozzo. Quando arrivò il momento di fare il saluto romano a Hitler e Mussolini appollaiati in tribuna, si abbassò per grattarsi la coscia sinistra. È un gesto che rifarà altre volte. La cosa non fu ben vista dalle autorità, anche se Vittorio Pozzo cercava di tenere fuori la politica dallo spogliatoio. Il gatto magico Olivieri dichiarerà che l’allenatore zittiva chiunque parlasse di fascismo e adottava come criterio delle convocazioni il merito e non l’ideologia. Altrimenti lo stesso Olivieri non avrebbe mai potuto vincere il campionato del mondo del 1938, visto che credeva che «chi ama la libertà non può essere fascista».

Fin qui il mood dei fascisti sembra essere: Vinciamo, va bene così! Grattatevi gambe, allacciatevi scarpe, abbracciatevi con i compagni per non fare il saluto romano, ma intanto le coppe le portate al regime e alla sua propaganda. Ma non sempre la situazione era così tranquilla. Per esempio, per un giocatore istriano, comunista e che di cognome faceva Scher. Bruno Scher era nato a Koper, oggi Slovenia, e viene ricordato come un centromediano di grandissima classe. Giocò due grandi stagioni a Lecce e poi andò al Bari, ma per nove partite e poi basta. Perché? Perché non volle italianizzare il cognome in Scheri. Erano gli anni in cui l’aspirina non si poteva chiamare cachet, ma cialdino. Anni riassunti in tanti film, come Anni ruggenti di Luigi Zampa, con Nino Manfredi. Una vera compilation dell’ipocrisia, ignoranza e corruzione del regime fascista. La carriera di Bruno Scher pareva finita, finché Enro Erbstein, che aveva italianizzato il suo cognome in Egri, non lo chiamò in una piccola squadra di terza serie, in Toscana e precisamente nella città di Lucca.

Un altro giocatore perseguitato dal fascismo fu Vittorio Staccione, notissimo antifascista anche alle forze dell’ordine, tant’è che la polizia segreta lo arrestava a corrente alternata rendendogli la vita durissima. Fu una bandiera della Fiorentina, ma militò anche tre stagioni nel Cosenza in serie B, finché nel 1935 abbandonò tutto e diventò operaio alla FIAT. Poiché proseguiva la sua militanza politica anche in fabbrica, venne arrestato dalle SS su suggerimento di delatori e deportato a Mauthausen, dove morirà in seguito ai pestaggi.

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Vi dice niente il nome di Balbino Giuliano? Vi dice qualcosa di più quello di Pietro Gobetti, immagino. Nel 1931 il primo, da ministro dell’istruzione fascista, promulgò su insistenza di Giovanni Gentile il giuramento che costringeva i professori delle università e dei politecnici a giurare di essere fedeli al fascismo, al re e altre baggianate del genere. Il secondo era allievo del potente Balbino e nel 1931 era già morto da cinque anni, in seguito ai pestaggi continui dei criminali iscritti allo stesso partito del ministro, quello fascista. Dopo questa premessa, Giuliano può essere immediatamente cancellato dalla nostra memoria, mentre le poche decine di professori che rifiutarono il giuramento, su circa 1300, hanno un posto nella storia molto più importante.

Tra questi un portiere che aveva calcato solo i campacci delle serie minori per tutti gli anni Venti. Si chiamava Henry Molinari e fu l’unico professore del Politecnico di Milano che non volle giurare fedeltà al fascismo. Molinari era figlio del chimico anarchico (un binomio esplosivo!) Ettore, che tra l’altro aveva chiamato due dei suoi sette figli Ribelle e Libero. Molinari venne anche arrestato mentre era ancora un semplice portiere. Tentarono di dimostrare un suo coinvolgimento in un attentato a Mussolini e lo accusarono di avere stretti contatti con l’anarchico Camillo Berneri, ma alla fine dovettero rilasciarlo. Non gli andò ugualmente bene in ambito accademico: perse la cattedra mentre la stragrande maggioranza dei suoi colleghi aderiva al fascismo senza battere ciglio, come se la dittatura non fosse un problema. Invece per qualcuno il problema esisteva, anche se in ballo non c’era il posto all’università bensì un campo e una palla, fossero in uno stadio di periferia o in una finale del campionato del mondo.

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