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Spero soprattutto di aver mostrato chiaramente come in fondo fosse sempre la stessa forza che nella fanciullezza mi portò ai sogni e alle monellerie, più tardi alla malattia, e infine all’arte.

Alfred Kubin, Demoni e visioni notturne

Un uomo si perde in una città sconosciuta, gotica e decadente, che somiglia a Praga. Non sa se è un sogno o uno stato alterato di realtà; è frastornato, impaurito, eccitato allo stesso tempo. Altri uomini sono con lui, si muovono insieme a lui, freneticamente, come seguendo una misteriosa razionalità; le loro azioni si fanno sempre più bizzarre e inquietanti ma coordinate poi dissimili poi di nuovo simili alle sue; l’uomo non capisce se gli altri agiscano contro di lui o se siano parte di lui o se sia lui a essere una parte di un tutto. Soprattutto non sa cosa sia vero di quel che accade né perché stia accadendo né se sia la volontà di un demiurgo a plasmare tutto ciò che succede.

È un riassunto approssimativo del visionario cortometraggio realizzato da Paul Thomas Anderson per l’uscita del nuovo album di Thom Yorke, Anima, ma potrebbe funzionare anche come una sinossi sorprendentemente calzante de L’altra parte (Adelphi, trad. Lia Secci), unica opera letteraria del disegnatore e illustratore boemo Alfred Kubin. Scritto durante una crisi creativa durata tre mesi, pubblicato nel 1909 e quasi dimenticato, questo “romanzo fantastico”, come recita in maniera riduttiva il titolo completo dell’opera, è straordinariamente capace di evocare immagini, umori e paure arcaiche, depositate in un’intimità precosciente, comuni a tutti gli uomini. Le sue suggestioni, cupe e visionarie, sono rintracciabili tanto in opere precedenti e contemporanee al suo autore, quanto e soprattutto in quelle del (suo) futuro, che è poi la nostra epoca. È un libro che ritorna di continuo, un libro che ossessiona.

Prendiamo il caso appena citato. Come il romanzo di Kubin, il cortometraggio di P.T. Anderson sembra fondato sul concetto di inconscio collettivo, formulato da Carl Gustav Jung, ed espanso fino a quello fantastico e mistico di sogno collettivo (anche se Kubin si spinge ancora più in la, fino alla catarsi e, addirittura, all’olocausto purificatore collettivo: la morte di Claus Patera, il sovrano onirodemiurgo del Regno del Sogno, luogo immaginario in cui la storia è ambientata, capolavoro assoluto di visionarietà). Ma il video di Thom Yorke, oltre a basarsi sugli stessi presupposti concettuali, è stato anche girato a Praga. La stessa Praga che appare, stilizzata, in alcune delle cinquantadue tavole allegate a L’altra parte, e realizzate inizialmente da Kubin per le illustrazioni del Golem di Gustav Meyrink, che nella capitale ceca è ambientato, e poi tenute per le nuove edizioni del suo stesso romanzo. Ma, per permanere nel vortice di rimandi senza tempo provocato da questo libro, si può dire che sia anche la stessa Praga di Franz Kafka, il quale attinse apertamente ispirazione dai lavori di Kubin per le sue opere, su tutte il Castello. E, a voler rischiare la lesa maestà, si può inoltre notare che ne L’altra parte, pubblicato sei anni prima della prima stesura de Il processo, il luogo di un potere inconoscibile, burocratico e insensato è rappresentato da un gigantesco Archivio, in cui nessuno riesce mai a ottenere quel che desidera.

Le perversioni oniriche de L’altra parte sono state pensate ovviamente molto prima che, ad esempio, Christopher Nolan concepisse i livelli stratificati di sogno partecipato di Inception o che Tiziano Sclavi immaginasse le gesta antieroiche di un indagatore dell’incubo ma anche prima che Jung definisse quel suo concetto di inconscio collettivo, su cui tutte queste opere posteriori sembrano fondate.

Cos’è allora quest’opera vertiginosa che pare attingere indifferentemente da tutti gli scenari fantastici di ogni epoca?

È un’imponente messinscena dell’immaginario dei sogni, ed è un’utopia spettrale che precipita in una distopia paranoica ma anche un viaggio mistico, in una città in dissoluzione che si confonde o coincide con i corpi e le menti dei propri abitanti. È, in una parola, un libro straordinario.

Scrive Michele Mari ne I demoni e la pasta sfoglia:

«Se c’è un romanzo che merita il titolo di straordinario, è L’altra parte di Alfred Kubin. Straordinario perché è l’unica opera letteraria di uno straordinario disegnatore, scritta febbrilmente in poche settimane sotto la dettatura di un demone; straordinario perché talmente oltranzoso e sfrenato nell’immaginazione da non poter essere collocato in alcun filone […] e da non evocare nessun’altra topica; straordinario, infine, perché di una bellezza che a tratti lascia senza fiato».

«Si legge come entrando e permanendo in una allucinazione possente», commenta invece Roberto Calasso, a proposito dell’unicità del libro, ne L’impronta dell’editore. «Libro che fu scritto all’interno di un delirio durato tre mesi. Nulla di simile, nella vita di Kubin, prima di quel momento; nulla di simile dopo. Il romanzo coincide perfettamente con qualcosa che è accaduto, un’unica volta, all’autore. Ci sono solo due romanzi che precedono quelli di Kafka e dove già si respirava l’aria di Kafka: L’altra parte di Kubin e Jakob von Gunten di Robert Walser».

La fitta trama de L’altra parte sembra innanzitutto radicata nei tòpoi della letteratura classica, che Kubin si diverte a confondere, espandere, invertire: il Regno del Sogno è un mondo alla rovescia e la sua capitale, Perla, presentata in principio come un idilliaco locus amoenus, patria per artisti e sognatori, si ribalta in un locus horridus dantesco. Un inferno onirico da cui il protagonista, palese doppio di Kubin, vorrà infine fuggire per tornare a casa e ci riuscirà solo ad altissimo prezzo. Il nostos quindi, con la parabola circolare del protagonista, un disegnatore frustrato dagli obblighi della società di mercato, che, pur di fuggirne, si lancia senza precauzioni in questo viaggio misterioso, accettando l’improbabile invito di un suo dimenticato compagno di classe, Claus Patera, a raggiungerlo in un regno sperduto dell’Asia centrale, da lui fondato e governato. È il peregrinare doloroso di un antieroe ingenuo e smarrito, come quello del Bardamu di Cèline, ma pensato prima che gli uomini sperimentassero il trauma di una guerra mondiale.

C’è poi la satira del mito del progresso – la città di Perla è costruita con case malandate letteralmente asportate dai vecchi quartieri delle città europee – ma anche delle velleità dei suoi detrattori. C’è la rappresentazione di una società opulenta e frenetica ma decadente, difatti qualcuno ha inserito il romanzo tra le opere letterarie del filone sulla finis Austriae (con qualche ragione: Kubin nacque nella Boemia ancora austro-ungarica e poi visse tra Salisburgo e l’Alta Austria).

C’è il sogno, soprattutto il sogno, e l’interpretazione del sogno, nell’epoca e nei luoghi in cui le teorie di Sigmund Freud cominciavano a spopolare, ma di cui Kubin non doveva avere grande considerazione («Chi cerca una spiegazione, si attenga alle opere dei nostri tanto ingegnosi psicologi», si legge nella prima pagina de L’altra parte). Ci sono il sesso, e la perversione del sesso fino alla sua degenerazione, e la politica e la perversione della politica: l’Americano, il rivale di Patera che tenta di normalizzare la città di Perla comprando con il denaro il consenso dei suoi abitanti, è figura che insieme rappresenta la pervasività del capitalismo – persino nel reame del sogno – e l’inadeguatezza intrinseca della politica come forma di amministrazione della società.

E cosa provoca il crollo del regno se non la monumentale hybris del sovrano ricco e megalomane che aveva costruito un mondo privato a sua immagine e somiglianza, un monumentale party a cui si accede solo su invito, frequentato da intellettuali, reietti e anarchici, come i terrazzi newyorchesi dei radical chic di Tom Wolfe? Un party a Manhattan ambientato però in una realtà sempre inafferrabile e traballante, in cui le verità sono tutte parziali e contradditorie.

Ancora, il cataclisma onirico nel finale de L’altra parte fa pensare al capolavoro orrifico e visionario di David Lynch nell’ottava puntata della terza stagione di Twin Peaks, in cui l’origine di tutte le vicende che determinano la trama della serie, la liberazione sulla Terra di entità sovrannaturali malvagie, sono ricondotte al Trinity test, il primo esperimento di detonazione nucleare condotto dal genere umano il 16 luglio 1945 ad Alamogordo, New Mexico. Cos’è del resto la morte di Patera, spaventosa e annichilente di tutto ciò che lo circonda, se non l’esplosione di una bomba atomica? Ai disegni di Kubin è riconosciuta, non a caso, l’inquietante capacità di aver interpretato in anticipo tutti gli umori tormentosi e violenti che precipitarono l’Europa nel caos e nel massacro delle due guerre mondiali. Anche se non si può dire che questi umori appartengano a una sola epoca. Si prova lo stesso umore di sottile ma crescente irrequietezza del protagonista de L’altra parte, di fronte a Il sonno della ragione genera mostri di Goya (1797) o leggendo l’albo La stagione delle nebbie del Sandman di Neil Gaiman (1992). Non è quindi, forse, solo una coincidenza che Alfred Kubin fosse stato il principale illustratore dei racconti notturni di E.T.A. Hoffmann, di cui il più noto è appunto Der Sandman, l’uomo di sabbia (1815).

Si è già detto del kafkianissimo Archivio e del legame con la città del Golem, con quei cupi e occulti sotterranei (qui avviene un grandioso incontro estatico con un cavallo imbizzarrito in fuga) che Meyrink non poteva non aver letto ne L’altra parte. E in questa città, tetra, febbrile, cadente, controllata da un onnipresente e forse onnipotente occhio orwelliano, vanno in scena frenetici riti goderecci che sembrano preludi felliniani, messi in scena da cittadini attraversati da pulsioni erotiche incontrollabili, incuranti di precipitare persino nel macabro, come il Micky Sabbath di Philip Roth, per poi degenerare addirittura in riti orgiastici collettivi e omicidi, come in un trip di William Burroughs.

Le suggestioni de L’altra parte sono anche nel Nyarlatothep di Lovecraft o, per dire, nel sottosopra di Stranger Things, eppure qui non ci sono mostri minacciosi nell’ombra, ma la stessa aria di pericolo inconoscibile e insensato. Oppure nel realismo estremista dell’idea di umani come marionette in balia di un potere beffardo e stolido, concepito da Thomas Ligotti ne La cospirazione contro la razza umana. E cos’è la disgregazione delle vecchie case cadenti di Perla, abitate da sognatori immersi nel sogno di un sogno, se non un’immensa casa Usher? Cos’è del resto questa “altra parte” se non il luogo non euclideo che si raggiunge dall’Hanging Rock di Peter Weir o dal Monte Analogo di Renè Daumal?

A volersi arrischiare in altri territori si può inoltre dire che la già citata apocalisse finale di visioni estatiche e suoni e colori che si riducono in un punto, sembra una puntigliosa raffigurazione della teoria cosmologica del big crunch. E che a salvarsi, insieme al protagonista, sono solo alcuni strani individui apparentemente marginali, una comunità di illuminati disinteressati ai piaceri terreni, con crani rasati e occhi a mandorla, fin troppo esplicitamente richiamanti i buddhisti tibetani, che forse sono stati i mistici artefici di tutto ciò che è avvenuto, o forse no.

Cosa diavolo è questo romanzo?

Sono questi riferimenti sensati o è solo una suggestione meta-letteraria?

Ovviamente di sogni e di incubi la letteratura e l’arte si sono occupate ben prima di Kubin, dai sogni premonitori di Gilgamesh in poi. Non, o non solo, un precursore è stato quindi Kubin ma anzi un interprete che forse si può definire atemporale, capace di evocare con le sue immagini qualcosa di fondamentale, di antico, sepolto nel substrato della coscienza collettiva, frammenti di un patrimonio di suggestioni primordiali condivise, o se si vuole archetipi dell’inconscio collettivo junghiano, che riaffiorano puntualmente nell’immaginario di ogni epoca.

Egli stesso riconosce il momento cruciale della propria ispirazione all’ammirazione dell’opera di un altro autore: il ciclo di acqueforti sul Ritrovamento di un Guanto di Max Klinger (ciclo raccontato splendidamente da Francesco De Gregori nella sua Un guanto), considerata una delle prime opere d’arte a fissare in immagini eventi avvenuti in uno scenario onirico. «Lo vidi e fremetti di piacere. Mi si rivelava qui un’arte nuova, che offriva la possibilità di esprimere in rapidi tratti», scrive nell’autobiografia Demoni e visioni notturne. Uscito dalla Pinacoteca, Kubin si recò a un varietà dove avvenne un fenomeno psichico «molto strano, e per me di importanza decisiva», per cui tutto l’ambiente gli sembrò «più netto e più chiaro», e i volti degli spettatori «un misto di tratti animaleschi e umani», i suoni «bizzarri e come staccati dalla loro causa». «E allora all’improvviso traboccò in me un vero torrente di visioni e di immagini in bianco e nero».

È stato allora Alfred Kubin un medium? Ha forse Kubin avuto accesso, scavando nel proprio tormento, alla radice arcaica della paura?

Nato nella Boemia austro-ungarica nel 1877 e morto nel 1956, dopo un ritiro di quasi mezzo secolo in una tenuta sperduta nell’attuale Alta Austria, a Zwickledt, Kubin riuscì a rimanere concretamente estraneo alle vicende delle due grandi guerre, che pure avevano tormentato la sua immaginazione.

L’altra parte è quindi il suo unico libro, anzi un libro unico, il libro unico per definizione del suo editore italiano, Adelphi, che ne ha fatto il capostipite della sua Biblioteca, una collana cult che ha forgiato l’identità dello stesso editore milanese. Un libro unico, cioè quel libro, spiega Roberto Calasso, «dove subito si riconosce che all’autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto».

Qualcosa di sicuro è accaduto ad Alfred Kubin, che scrisse L’altra parte in dodici settimane, durante un ininterrotto periodo di crisi, materiale e psichica, in cui non riusciva più a disegnare. Oltre al blocco artistico, alla depressione, a forti febbri allucinatorie, Kubin doveva affrontare, nella solitudine della tenuta di Zwickledt, la recente morte di un padre di cui aveva conquistato l’affetto solo nell’età adulta e l’ennesima malattia della moglie, convalescente in una clinica.

Prima e dopo la crisi che portò a L’altra parte, Kubin è stato un grande disegnatore, un visionario dell’immaginario onirico contemporaneo, uno dei primi artisti a spingersi a fondo nella natura dei sogni, cioè non limitandosi nei propri disegni a rappresentare questi come evocazioni o premonizioni del reale, ma come luoghi, popolati da uomini o sembianti tali, esseri antropomorfi e demoni, fissati in panorami apocalittici e decadenti, scenari macabri e abbacinanti.

È stato autore soprattutto di acquerelli e chine a inchiostro, divenuto celebre già giovanissimo a inizio Novecento, epoca a cui risalgono le sue opere più note, tra cui l’immagine che apre questo articolo, The moment of birth (1902). Associato ora all’espressionismo ora al surrealismo, e membro defilato del Blaue Reiter di Kandinsky e Klee, Kubin è sostanzialmente incollocabile: un disegnatore onirico o un Traumkünstler, evocatore di sogni, come fu definito già nel 1903 dal bollettino Kunstwart.

Illustratore inoltre di grandi libri, dei già citati Meyrink e Hoffmann, ma anche di Poe e Dostoevskij, di Jean Paul e Strindberg, delle Storie mistiche di Balzac e di Voltaire; intimo amico di Edward Munch ma anche conoscente e confidente di Kafka; e ancora contemporaneo critico di Freud e Jung, lettore di testi mistici e buddhisti, di Nietzsche e dei Parerga e Paralipomena di Schopenhauer; in preda in gioventù e non solo a continui periodi di crisi febbrili, lunghi intervalli deliranti in cui era pervaso da grandiose visioni cupe, orribili e fantastiche ma passeggere, sulle cui origini ruminava spaventato egli stesso. Così si racconta nell’autobiografia Demoni e visioni notturne (Abscondita, trad. Maria Attardo Magrini), che appare ispirata almeno quanto L’altra parte, e quanto il romanzo attraversata dalla suggestione di un protagonista eterodiretto da una forza altra, un demiurgo folle e ispirato:

«[…] ero continuamente travolto e trascinato avanti, al di fuori della mia volontà, da nuove fantasie, che sopraggiungevano e incalzavano. Un giorno ne fui così sconvolto che caddi in uno stato di smarrimento e di convulsioni». 

L’altra parte è talmente pregno di quest’aria onirica di crisi, di caos, di concreta assurdità, da trascendere la dimensione individuale dell’autore, per sua stessa ammissione attraversato, sconvolto, guidato da immagini spaventose e incomprensibili, evocate dal suo subconscio e da qui emerse, solo in questa occasione, come parole e non come disegni. Come se tutte le inquietudini del suo tempo, e di ogni altro tempo, si esprimessero tramite lui, i suoi disegni, i suoi testi, ma senza mai giungere lucidamente alla sua coscienza, la misera coscienza di un uomo.

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↔ In alto: Alfred Kubin, The moment of birth, 1902.

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