Skip to main content

Al culmine della popolarità, tra il 1949 e il 1951, Stig Dagerman arriva a detestare il proprio successo. Si percepisce esposto su un piedistallo, quello di un privilegiato, uno scrittore famoso che, certo, denuncia costantemente, instancabilmente, ingiustizie e soprusi ma che per questo riceve riconoscimenti e inviti nei salotti. Giunge presto a una consapevolezza: i premi e le lodi che la società borghese riserva a un intellettuale impegnato come lui sono accompagnati da una strutturale indifferenza per la sostanza delle sue denunce. 

Allo stesso tempo però, fin dai primi lavori giornalistici, è un riferimento identitario per i giovani di sinistra, anarchici e libertari della sua generazione, una voce esposta capace di orientare davvero quel settore della società svedese. È un’epoca in cui per sperare in un futuro migliore, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, dopo Auschwitz e Hiroshima, ci vuole qualcosa in più del coraggio. A lui i giovani rivoluzionari guardano in cerca di risposte e lui non vuole sottrarsi allo sforzo eroico e poetico di formularle. 

Questo groviglio di attenzioni, aspettative e sensi di colpa lo spinge a una crisi esistenziale, coglie su di sé tutte le contraddizioni dell’emergente società del consumo che sembra svilire l’autenticità di ogni relazione umana. Come alzarsi allora in piedi a urlare il marcio del mondo senza provocare solo applausi? Quelli falsi di chi osserva dall’alto, quelli ammirati di chi resta in basso, in entrambi i casi evanescenti, senza seguito. Se la politica fallisce sempre, se il giornalismo è meschino, se la letteratura rischia di essere solo una forma di spettacolo, se tutti i rapporti, persino gli affetti più cari, finiscono per essere insinceri, come e quando si può provare a cambiare qualcosa? E per chi? 

Dal momento che mi trovo sulla riva del mare, dal mare posso imparare. Nessuno ha il diritto di pretendere dal mare che sorregga tutte le imbarcazioni o di esigere dal vento che riempia costantemente tutte le vele. Così nessuno ha il diritto di pretendere da me che la mia vita divenga una prigionia al servizio di certe funzioni. Non il dovere prima di tutto, ma prima di tutto la vita!
Il nostro bisogno di consolazione 

Stig Dagerman nasce a Älvkarleby nel 1923. A tredici anni è già un attivista anarco-sindacalista e già prima della maggiore età scrive per le riviste Storm e Arbetaren. A ventuno anni pubblica il suo primo romanzo, Il serpente.

Gli esseri umani come Stig Dagerman non esistono più. Non c’è traccia nel mondo contemporaneo di tensioni etiche tanto coerenti e consapevolezze ultime così intransigenti e dolorose, quanto quelle dello scrittore svedese morto suicida nel 1954, a soli trentuno anni. Uno scrittore impegnato ma soprattutto dotato di un talento poetico smisurato, pari solo alla sua sensibilità. 

Servirebbe un linguaggio nuovo, di sincerità assoluta, per tutelare il suo ricordo, per avere cura della sconcertante purezza delle sue idee. Perché accettiamo che esista la povertà? Perché i bambini devono ubbidire? Perché gli uomini mentono e tradiscono? Perché un attimo prima di uccidere un bambino un uomo felice è ancora felice?

Spesso nel raccontare gli autori suicidi si indugia sugli aneddoti biografici, come se una vita intera potesse essere ridotta a volgare cronaca giornalistica e, qui e là, tra gli episodi noti più significativi fossero disseminati gli indizi che portarono alla decisione estrema. Per Dagerman il giornalismo è «l’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile» (cfr. Autunno tedesco), figurarsi allora poter comprendere le ragioni ultime di un suicidio, settant’anni dopo. 

Stig Dagerman con i nonni nella fattoria di Älvkarleby, 1931

Eppure una breve ricostruzione della biografia, in questo caso, appare necessaria, poiché Dagerman si dà interamente a una causa – una lotta indefessa contro ogni sopruso su deboli e indifesi, soprattutto se dovuto alla classe sociale di appartenenza – e soffre, anzi si annichilisce, per l’impossibilità di restarvi coerente fino in fondo. In breve, si possono citare allora l’abbandono della madre e per lungo tempo anche del padre, l’infanzia passata con i nonni paterni premurosi e dalle buone letture, l’attivismo politico socialista e anarchico fin dall’adolescenza, la morte del nonno per mano di un folle e poco dopo della nonna per un ictus, il successo letterario repentino, forse addirittura prematuro, i primi tentativi di suicidio, il suo abbandono della prima moglie e dei figli piccoli, il ritiro pubblico a soli ventotto anni, la storia glamour con l’attrice Anita Bjork, il suicidio apparentemente annunciato.

Dagerman è preda, fin da giovanissimo, di un tormento esistenziale che lo accompagnerà fino alla fine: crede sinceramente in ciò che scrive ma appare ipocrita ai suoi stessi occhi. Per diversi anni decide di continuare a scrivere tuttavia. Forza sé stesso a credere nella letteratura come strumento politico, come prezioso strumento di comunicazione. Lotta in nome di un ideale – un socialismo rivoluzionario, l’emancipazione reale dell’uomo da ogni forma di sottomissione al potere – ma soprattutto per mettere a nudo di questa libertà il significato.

La libertà, per lui, è libertaria: non libertà di poter sopraffare l’altro con ogni mezzo e con ogni mezzo accumulare profitto ma libertà da ogni vincolo nei confronti della società, dello Stato, del ricatto delle necessità. Una libertà che, per preservarsi, deve evolvere spontaneamente in una naturale comunione con il prossimo.

La sua è la più alta delle denunce, è l’indignazione per lo scandalo della povertà e delle dinamiche umilianti a cui i poveri sono obbligati in ogni società e soprattutto nella società dell’opulenza, del profitto, del successo. La sua scrittura dura, amara, di sfrenata franchezza, si fa voce di tutte le ingiustizie, quelle dell’epoca in cui vive e quelle universali. Per questo nonostante tutto scrive, lotta, fallisce. 

Il testimone

Che la fame non si concili con alcuna forma di idealismo è un’evidente e amara verità – Autunno tedesco

Con la pubblicazione de Il serpente per Iperborea, l’editore che ha il merito di aver riportato la giusta luce sull’intera opera dell’autore, siamo a un passo dal poter leggere in italiano l’opera omnia di questo scrittore di culto, spesso accostato a Kafka per l’intimità dolente con l’assurdo quotidiano, a Simone Weil per la ricerca di un assoluto come impossibile rinuncia, a Camus per la tensione spossante alla rivolta contro l’esistenza. In più, in Dagerman vi è una dedizione totalizzante e addirittura annichilente alle proprie idee. Le porta a un estremo, in cui ogni ulteriore passo è impossibile e infatti nel 1951, a soli ventotto anni, smette di pubblicare e quasi di scrivere. Ogni frammento di testo scritto dopo, e pubblicato postumo, è intriso di una sofferenza lucida e disperata. 

L’evoluzione intellettuale di Dagerman è precoce, bruciante ma sempre coerente, procede di delusione in delusione nella disamina spietata della realtà. Nei suoi testi finiscono sotto processo prima la passione politica, la giustizia, la famiglia, poi il concetto di innocenza, l’amore e infine la struttura stessa del reale. L’autenticità di ognuna di queste istituzioni crolla sotto i colpi della razionalità, dell’osservazione acuta, della pretesa di purezza cui non riesce a sottrarsi.

Il suo occhio critico si muove vorticosamente in tutte le direzioni e in ogni luogo trova ingiustizie, fallimenti, ipocrisie, inganni e autoinganni. Eppure, quando inizia a raccontare questo mondo nei suoi testi, sui suoi personaggi non cala mai la scure della morale, li costruisce e li osserva invece con premura e compassione, ponendosi accanto alle loro sofferenze, compagno nelle loro sventure. Questo succede già a partire dalle primissime opere, gli articoli politici, e nei primi due romanzi Il serpente e L’isola dei condannati (Guida, 1984). 

La capanna sull’isola di Kymmendö, nell’arcipelago di Stoccolma, in cui August Strindberg si rifugiava per scrivere i suoi romanzi. Dagerman vi cercò l’ispirazione per la stesura de L’isola dei condannati.

Nel primo, che lo rende immediatamente noto in patria, espone la frustrazione di una generazione, quella dei ventenni nella Svezia durante la Seconda guerra mondiale, sospesa tra lo smarrimento ideologico interbellico e le tensioni ideali rimaste inespresse dalla neutralità del proprio esercito. Nel secondo mette in scena una imponente allegoria di tutte le frustrazioni possibili, ben oltre quelle di una generazione o di un popolo. Si tratta di due romanzi paradossali poiché se la scrittura è sfrenata, vorticosa, il tema principale è l’immobilità: l’impossibilità all’azione – quella di soldati che non combattono, quella di naufraghi senza speranze di essere salvati – e le conseguenze sulla loro psiche. Soprattutto nel secondo, in cui i protagonisti sono in balìa di emozioni travolgenti, totalizzanti, Dagerman non riesce a trattenere la propria emotività. Si è immersi quindi in una sovrabbondanza di sentimenti, di dolori, di immagini, di suggestioni. Chi scrive è del resto il ventenne più arrabbiato e più sensibile del mondo. Ha bisogno di urlare, di denunciare, di condannare e condannarsi. 

Nell’edificazione di questa sensibilità ha un ruolo cruciale la sua precoce formazione politica, l’attivismo nei movimenti socialisti insieme al padre (con cui si era riconciliato solo durante l’adolescenza proprio in nome della militanza) e l’attività giornalistica su Storm, rivista dei giovani anarchici, e su Arbetaren, la rivista del sindacato libertario svedese.

Possiamo leggere alcuni dei suoi primissimi articoli, spesso più affini all’invettiva che alla cronaca, nella raccolta La politica dell’impossibile (Iperborea, 2016). Così scrive nel 1943, appena ventenne:

«Cuori ardenti. A chi interessano più i cuori, ormai? E i poeti? Sì, certo, ha bisogno di un cuore sano e ben allenato l’efficiente pilota di bombardieri che si inerpica lassù nel cielo con il suo carico di morte, ed è evidente che chi si appresta, con il gentile supporto della mitragliatrice, a infilare piccole pallottole di piombo nel petto e nello stomaco altrui, non può essere dotato di uno strumento debole, lì in alto a sinistra, nel suo corpo. Ma ardente?»

L’opera di Dagerman ha, fin dal primo momento, una sorta di sotto-trama trasversale che è il percorso del suo autore verso la piena, drammatica, consapevolezza dell’assurdo espressa nel manifesto spirituale Il nostro bisogno di consolazione (Iperborea, 1991): 

«Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa»

Il cortometraggio “Our need of consolation”, interpretato da Stellan Skarsgård, è diretto da Dan Levy Dagerman, autore anche di un adattamento cinematografico de I giochi della notte.

Ogni opera, si tratti di romanzi, racconti, articoli, poesie, racchiude in sé un tassello della costruzione di questa altissima denuncia: ha urgenza di declinarla e urlarla in ogni possibile forma. Dopo la pubblicazione de Il serpente nel 1945 la sua produzione accelera infatti in maniera forsennata, nei successivi sei anni scrive tre romanzi, tre raccolte di racconti, poesie, numerosi articoli e saggi, opere teatrali e una serie di reportage magistrali dalla Germania post-bellica devastata dalla fame e dalla distruzione, raccolti in Autunno tedesco (Iperborea, 2018). 

Quest’ultimo meriterebbe un approfondimento a sé. Dagerman non è un giornalista ma un giovanissimo scrittore quando la rivista Expressen gli chiede di viaggiare per due mesi in Germania e raccontare quello che vede. Non solo, è anche un intellettuale non inquadrato, un anarchico che non ha simpatie né per l’Unione Sovietica tantomeno per le potenze capitaliste, ed è un antinazista della prima ora, sposato in quel momento con un’esule anarchica tedesca, la prima moglie Annemarie. Da Dagerman ci si aspetta uno sguardo diverso da quello preconcetto che imperversa sulla stampa occidentale: i tedeschi sconfitti e affamati sono infatti descritti come irriducibili che non si pentono dei loro misfatti, non rinnegano Hitler e quindi devono giustamente espiare una colpa collettiva. Dagerman si limita a osservare e ascoltare e vede fame e distruzione che nulla possono insegnare ad un popolo, fatica a capire perché per i giornalisti inglesi «un piccolo sciopero della fame è più interessante della fame di molti». Riceverà aspre critiche, soprattutto da sinistra, ma oggi questo libro è considerato, in Svezia e non solo, un classico dell’inchiesta sociale. 

Una tensione costante alla dissoluzione

Le mani dei poveri si vergognano sempre di quello che fanno – La sorpresa, Il viaggiatore 

Se in Svezia fu proprio l’esordio a fare di Dagerman una celebrità, negli Stati Uniti il suo capolavoro è invece considerato Bröllopsbesvär, traducibile in “Preoccupazioni per il matrimonio” o “Pene delle nozze” secondo l’attuale traduttore italiano Fulvio Ferrari, unica opera ancora inedita in Italia. In Europa il romanzo di maggior successo è stato invece Bambino bruciato, opera intima e spietata in cui sprofonda ancora di più nelle contraddizioni del sé, primo responsabile dei tormenti umani. 

In Italia invece sono più conosciuti i bellissimi e atroci racconti de Il viaggiatore (Iperborea, 1991), il già citato Autunno tedesco e soprattutto il manifesto-testamento Il nostro bisogno di consolazione. Ma come testimoniano i romanzi, i saggi, le poesie, i testi teatrali, lo svedese non è solo l’autore di brevi racconti o frammenti acuti e lancinanti. È ad esempio un romanziere moderno, capace di descrizioni da manuale che sembrano estratte da Flaubert:

«Nella stanza c’era un debole ronzio. Tra gli alberi mormorava una brezza fresca. In un vaso affogava una mosca. Sopra una brocca di panna ronzava un calabrone. L’orologio a muro rantolò, erano le due e mezzo. Il sole filtrava attraverso il cespuglio di lillà. La finestra era aperta e cigolava contro il gancio. Sul tavolo della cucina c’erano una catasta di tazze pulite e una torre di piattini, puliti anche loro. Su un vassoio erano posate delle fette di ciambella. La caffetteria sibilava sul fornello» (cfr. Il serpente).

Stig Dagerman nell’arcipelago di Stoccolma, 1951

Dagerman è quindi politico, anarchico e libertario, ma anche uno scrittore di raro talento. Le sue opere sembrano rafforzare l’assunto formulato da Roberto Bolaño (che pensava a Proust, Faulkner e Joyce) secondo cui la migliore poesia del Novecento sia stata scritta in prosa. La scrittura di Dagerman è infatti radicale nelle idee quanto nel linguaggio. In questo, oltre a August Strindberg che considera dichiaratamente un modello, ha influenza decisiva su di lui la narrativa espressionista, pessimista e radicale, appunto, del connazionale e contemporaneo Pär Lagerkvist, l’autore de Il boia, premio Nobel nel 1951.

Via del Vento ha pubblicato tre racconti inediti di Dagerman: L’uomo di Milesia, I vagoni rossi e L’uomo che non sapeva piangere

Se nei primi romanzi la sua prosa straripa, nei racconti il suo linguaggio si fa più asciutto ma sempre estremo. Se vuole può lasciarsi andare a qualsiasi esperimento narrativo, come nell’oscuro racconto L’uomo di Milesia (Via del Vento, 2011), in cui si avventura in un labirintico paradosso gogoliano per cui si giunge infine alla consapevolezza dell’irreparabile.

A questa capacità narrativa tuttavia non si abbandona mai. Il suo talento è una condanna e sente sempre il dovere di impegnarlo in difesa dei più sofferenti. Se nei primi scritti cerca di riscattare tutte le vittime, gli esclusi, nelle opere successive si focalizza sui più innocenti in assoluto: i bambini. Al loro servizio mette tutta la sua capacità di suggestione poetica. 

Simbolo immediato di innocenza violata, soggetti a ingiustizie, soprusi e povertà, i bambini sono sempre al centro dei suoi pensieri. La violenza sui bambini è ingiustificabile, assurda, eppure è la costante in qualsiasi società, anche la più civile e sviluppata del mondo come spesso la Svezia definisce sé stessa. La tristezza dei bambini, soprattutto la tristezza provocata dalla povertà, è la rappresentazione perfetta della crudeltà dell’esistenza. 

Si prenda Nevischio, piccolo capolavoro presente ne I giochi della notte (Iperborea, 1996). Qui c’è una famiglia, povera, contadina, raffigurata nell’ attesa di un evento straordinario per le loro vite: una lontana zia d’America che non vedono da vent’anni sta per fargli visita. La zia però tarda, va’ a trovarli per ultimi proprio perché sono i parenti più poveri. È una giornata importante ma nulla cambia nei gesti necessari alla sopravvivenza quotidiana di chi è logorato dalla povertà. All’arrivo della sorella, dopo lunga attesa, il nonno resta allora impassibile, come se a entrare fosse stato solo un breve ricordo senza senso: lui è sempre e solo un vecchio povero, con una famiglia povera. Nulla è cambiato, nulla può ormai cambiare, e il passato in cui forse vi era ancora qualche esile speranza di un futuro migliore, non esiste più. Chi è allora quella donna? E cosa importa? Solo il bambino, suo nipote, conserva un briciolo d’innocenza, per lui è una grande giornata, alla sua età si può ancora rimanere delusi dagli eventi, ed è solo a lui che si rivolge quella strana signora per dirgli con intollerabile pietà: “Povero bambino senza papà”. Così sul bambino impatta, con fragore immondo, lo sguardo esterno sulla propria condizione: lui che era solo un bambino adesso è un bambino povero e orfano.

Sono bambini o poco più i protagonisti di tutti i suoi scritti più struggenti: i racconti “Carne salata e cetrioli” (da I giochi della notte), “Ho remato per un lord” (da cui il fumettista italiano Davide Reviati ha tratto una bella graphic novel per Coconino Press), “Il freddo della notte di San Giovanni”, “Una tragedia minore” da Il viaggiatore, i frammenti “Difficoltà dei genitori”, “Perché i bambini devono ubbidire?” dalla raccolta omonima. 

Ho remato per un lord, Davide Reviati, Coconino Press, 2021

È un bambino o poco più Bengt, il protagonista del migliore dei suoi romanzi, Bambino bruciato, un ragazzo nell’atto di crescere o nell’atto di consumarsi – come la candela al centro di una scena tra le più tristi e memorabili – nella vana ricerca di un surrogato impossibile all’amore materno appena perduto.

Dagerman sembra aver sempre presente una verità atroce sulla natura dell’uomo, essere infimo, egoista, codardo, violento, al netto di slanci di altruismo e di pietà dettati quasi sempre dall’interesse. Un essere sciagurato schiacciato da un potere invincibile o addirittura incomprensibile. Non ci sono eccezioni, non esiste un punto di rottura oltre cui l’essere umano possa fuggire la propria condizione. L’unica illusoria eccezione è per l’ingenuo, il folle, il puro, il bambino non ancora uomo. In questo è erede di Strindberg, di Kafka, di Leopardi.

Una frase

Questo scrittore possiede la capacità di osservare gli uomini e di scrutarne profondità che essi stessi ignorano. Sono fondi quasi sempre fatti di ipocrisia, meschinità, miseria. Ma è anche capace di pietà, di ironia e di spirito d’osservazione, oltre che critico: le responsabilità dell’uomo infatti arrivano fino a un certo punto, nulla possono contro il caso o la volontà che presiede alle proprie esistenze. 

Nel racconto Uccidere un bambino, presente nella raccolta Il viaggiatore, subito dopo aver ricostruito la fatalità che dà il nome al racconto, un incidente automobilistico, scrive:

La vita è congegnata così spietatamente che un minuto prima di uccidere un bambino un uomo felice è ancora felice.

Un istante prima sei sereno, sorridi e pensi a niente o al futuro, un istante dopo sei un passo oltre il precipizio, destinato alla tirannia del senso di colpa, alla disperazione, a una più piena consapevolezza dell’infame struttura della realtà. In un istante il tuo rapporto con i concetti di vita e di morte, di dolore e di innocenza, muta irrimediabilmente. Questo vale se sei l’autista che uccide il bambino, se sei il bambino invece un istante prima sorridi e un istante dopo semplicemente non ci sei.

Att döda ett Barn (Uccidere un bambino), cortometraggio di Alexander Skarsgård e Björne Larsson, 2003

In questa breve frase risuona l’eco della stessa riflessione sul determinismo con cui Albert Einstein sperava di recare conforto alla sorella dell’amico Michele Besso, appena scomparso: «Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distanza fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente, cocciuta illusione».

Non solo, c’è qualcosa in più, c’è uno scarto in termini di consapevolezza. La vita non è «solo una maledetta cosa dopo l’altra», come diceva Mark Twain, ma un’assurda cosa dopo l’altra: una serie di eventi di cui l’uomo è parte integrante, quale evento o sottoinsieme di eventi, da cui non ha scampo e, soprattutto, di cui ha ormai coscienza di non avere scampo. La realtà è claustrofobica, simile al tribunale de Il processo di Kafka, un labirinto chiuso e insensato. 

Qui è messo in scena un violento squarciamento del Velo di Maya: con un racconto, anzi con una sola frase, Dagerman svela la struttura della cosa in sé, del noumeno, e mostra l’abisso di ignoranza che rende possibili le illusioni, le rappresentazioni del mondo e quindi le emozioni umane. Solo la nostra fallace percezione del tempo come divenire ci permette di perseverare nella speranza.

Con Uccidere un bambino Dagerman compie un salto definitivo. Non è più la società, con le sue leggi di prevaricazione e violenza, a essere ingiusta ma la struttura stessa del reale. La realtà è meschina e questo è insanabile, di conseguenza lo è il nostro bisogno di consolazione. 

Dissezionati la struttura della società e dei sentimenti umani, il nesso causa-effetto, l’ordine stesso del tempo, conosciuto il limite della razionalità, il mondo non tiene. Dagerman solo questo mondo conosce e in questo mondo non può che soccombere: se il viluppo della razionalità termina con l’assurdo allora il mondo è un incubo, la vita insopportabile. O così perlomeno apparve agli occhi puri di un bambino bruciato in Svezia settanta anni fa. Non ebbe, o non volle avere, il tempo di sofisticare il proprio pensiero con la dissimulazione o la rassegnazione degli adulti. 


In alto: illustrazione © Marta Perroni. Per gentile concessione.

Il testo all’interno dell’illustrazione è un piccolo estratto de Il Serpente:
L’angoscia primitiva non deve essere negata. La convivenza con l’angoscia è l’unico modo di vivere che può dare all’uomo una qualche piccola opportunità di sperimentare se stesso.