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“Si dice che la morte sia un grande risveglio, l’uscita dalla trance della vita”
Thomas Ligotti, Bevi a me soltanto con occhi labirintini

Ho avuto la fortuna di leggere La cospirazione contro la razza umana un po’ per caso, senza aver letto nulla prima a proposito del libro, senza aver letto altro di Thomas Ligotti, senza avere idea di chi fosse lui o di cosa pensasse davvero della vita, della morte, della nefasta apparizione sulla Terra del peggiore dei virus: la coscienza umana. Quindi, lettore, se vuoi preservare la purezza di questa esperienza, fermati qui e recupera La cospirazione contro la razza umana.

Cospirazione è il capolavoro di Thomas Ligotti e forse della letteratura horror del nuovo millennio. Il volume stesso, l’oggetto-Cospirazione, assume le connotazioni di un manufatto controverso. Si tratta di un saggio, un horror metafisico, di cui Thomas Ligotti è l’autore, come recita la quarta di copertina? O di un romanzo, un monologo, un’arringa à la Thomas Bernhard, di cui Thomas Ligotti è il delirante narratore? Oppure solo un manoscritto anonimo di cui tale Thomas Ligotti è lo sventurato protagonista? Non lo so, o meglio non lo sapevo quando l’ho letto, ma in questo testo, qualsiasi cosa esso sia – finzione, realtà, realtà di una mente disturbata o furba finzione realistica – Ligotti espone lucide e solidissime argomentazioni di un estremismo radicale, contro il mondo, contro la vita (come Michel Houellebecq titola la sua biografia di H.P. Lovecraft) che fanno letteralmente a pezzi la consolazione del Sisifo di Camus.

L’autore/narratore/protagonista Ligotti ci mette di fronte all’orrore supremo, non una minaccia esterna, terribile e sconosciuta come negli horror movie, ma ciò che ci è fin troppo familiare: la realtà, la coscienza della realtà; insensata, violenta, infestata dalla sofferenza, destinata sempre ad estinguersi con la morte dell’individuo, degli individui. Una realtà, la nostra, in cui l’uomo è un non vivo, un non (ancora) morto, una marionetta in balia di un potere indifferente, soprannaturale, probabilmente cieco e stolido come il dio lovecraftiano Azathoth.

Il pensiero filosofico di Ligotti è ben più estremo del pessimismo di Schopenhauer, che stima ma di cui critica il concetto di volontà, «il problema è che il sistema di Schopenhauer funziona soltanto sulla carta e non si può individuare nell’esistenza concreta più di quanto non vi si trovi un creatore-Dio». Ligotti invece si definisce un antinatalista, un nichilista morale, un determinista convinto.

Le tesi alla base di Cospirazione, che hanno notoriamente ispirato il personaggio di Rust Cohle nella prima stagione di True detective, provengono invece dallo sconosciuto filosofo norvegese Peter Wessel Zappfe che nel saggio L’ultimo Messia dimostra la tesi per cui l’unica cosa intelligente da fare, per la razza umana, sarebbe progettare la propria estinzione. Nel frattempo, ci illudiamo in ogni modo possibile, continuando a distrarci dalla nostra coscienza, che è coscienza della morte. «Il risultato – spiega Ligotti commentando l’opera che lo ha ispirato – è un’intera specie fatta di esseri che devono continuamente mentire a se stessi, non sempre con successo, riguardo a ciò che sono e a che cos’è davvero la loro vita. Se non lo facessimo, ci mancherebbe la terra sotto i piedi e saremmo costretti ad ammettere che la nostra razza non sa venire a patti con l’esistenza».

L’argomentazione di Ligotti appare così solida da rendere difficile l’emersione dalla lettura di Cospirazione, sempre supponendo che si tratti di un romanzo con un protagonista particolarmente depresso. Ma se fosse un saggio, un vero saggio con tutte le tesi soppesate e verificate, beh emergere sarebbe impossibile. Ed è qui il capolavoro, nell’incertezza destabilizzante del lettore di fronte al libro, un’esperienza che trascende la letteratura e si fa carne, l’odiata carne sede di ogni male, che tanto tormenta Thomas Ligotti.

Perché, e qui arriviamo a Nato nella paura, Thomas Ligotti è un uomo tormentatissimo. Vittima di un grave esaurimento nervoso a 17 anni, di continui attacchi di ansia-panico per il resto della vita, affetto da agorafobia, bipolarismo e depressione presto sfociata nel suo stato più estremo, l’anedonia, cioè, dal dizionario di medicina Treccani, “l’incapacità di provare piacere, con appiattimento affettivo e dell’emotività”. Thomas Ligotti non è uno scrittore dell’orrore ma uno scrittore nell’orrore e proprio per questo degno erede dei suoi maestri H.P. Lovecraft e Edgar Allan Poe, altrettanto disturbati, tormentati, reietti. «Ho paura di tutto – dice in un’intervista del 2001 – Ho persino paura di dire troppo in dettaglio che cosa mi fa paura».

Nato nella paura (Il Saggiatore, trad. Luca Fusari) è una raccolta delle migliori interviste concesse da Ligotti tra il 1988 e il 2013, a cura dello scrittore e giornalista Matt Cardin. Questo volume, come propone Cardin nell’introduzione, sta all’opera di Ligotti come le lettere private stanno all’opera di Lovecraft. Ovvero, l’emersione dell’individuo, della persona-autore, così altrimenti ben celato dietro le proprie storie, provoca un piccolo turbamento, un risveglio dall’incubo. La grande forza di questi autori infatti non sta tanto nello stile o nel linguaggio ma nella capacità di creare universi perturbanti e chiusi, dai quali una volta immersi sembra inconcepibile poter uscire. È lo stesso Ligotti a spiegare questo concetto a proposito dell’opera del suo altro grande idolo letterario: «Il mondo delle storie di Poe non rappresenta la cosiddetta realtà. Non ti lascia mai il sospetto che all’esterno della narrazione esista qualcosa».

Da queste interviste invece la figura, la “realtà” dello scrittore di Detroit autore di racconti weird ormai cult, emerge fin troppo bene. È allo stesso tempo affascinante e triste conoscere i veri pensieri di Thomas Ligotti che, tra l’altro, non si risparmia nell’esposizione schietta delle proprie debolezze. Scopriamo così che l’autore di, tra gli altri, Teatro Grottesco (Il Saggiatore, 2015) e Canti di un sognatore morto (Elara, 2008) è moltissimo legato alla propria famiglia, ha lavorato a lungo in un’azienda editoriale, bramava di essere pubblicato e conosciuto nella nicchia dell’horror (ma non si aspettava di diventare cult), e che si diverte molto a leggere e scrivere racconti dell’orrore: «Il processo di Kafka è un esempio eccellente. Leggendolo ho riso così tanto da chiedermi se non fosse solo nella mia testa, l’umorismo. Poi ho letto che lo stesso Kafka ridacchiava leggendo brani del Processo agli amici, mentre lo componeva».

Soprattutto emerge come egli stesso consideri la propria depressione, il proprio sentimento dell’assurdo, come la ragione ultima delle sue argomentazioni. È il primo a smontare la validità universale delle proprie tesi: «(la lettura di Zappfe, ndr) mi ha conquistato, perché ero già predisposto a credere che la vita fosse inutile nella migliore delle ipotesi e un incubo intollerabile nella peggiore. In sostanza, la filosofia di Zapffe è diventata un’altra fonte delle cazzate che mi aiutano a tirare avanti (…)». Si accontenta quindi di essere un buffone e, come Lovecraft, di scrivere «per i pochi sensibili piuttosto che per i tanti felici». Del resto, non si considera capace di scrivere altro che questi racconti di orrore metafisico e claustrofobico: «La maggior parte degli scrittori adora osservare le altre persone e le loro vite e poi farne un racconto. Prestano davvero attenzione al mondo che li circonda. Io non ce la faccio proprio».

Eppure, quando i diversi intervistatori gli chiedono di andare a fondo, Ligotti mostra una padronanza assoluta dei concetti teorici alla base della propria filosofia – i cui capisaldi sono ovviamente Poe e Lovecraft, il pessimismo di Cioran e Schopenhauer, l’estetica spettrale di Vladimir Nabokov e Bruno Schulz, e ancora Beckett, Gogol e alcuni testi della mistica orientale. Il dubbio che il pazzo non sia Ligotti ma tutto l’universo circostante resta allora intatto, grazie ad Azathoth.

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