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È difficile spiegare come Roberto Bolaño sia diventato un autore indispensabile. Forse per la sua narrativa sognante, le sue frasi ipnotiche a volte semplici ma mai banali che non si riducono in afflato, ma racchiudono sempre una forza straordinaria. Forse perché riesce ad essere un centro di gravità permanente che irretisce il lettore fin dalle prime pagine (al contrario di molti autori postmoderni yankee dello stesso periodo) o più semplicemente, perché Bolaño, tra giovani poeti e lettori di fantascienza, laboratori di poesia, librerie e salotti letterari e, non ultima, una leggendaria bibliomania, ci fa venire una terribile voglia di scrivere e leggere come lui. Gli alti e bassi vorticosi della sua biografia, tra Cile, Messico e Spagna, non fanno altro che accrescerne la leggenda, in perenne equilibrio tra fiction e realtà. Esemplificativo in questo è La Biografia Inventata (2018), il recente documentario di Nicolás Lasnibat (1975), dove la vita reale di Bolaño si intreccia con la fiction, impersonata dal suo alter ego letterario, quell’Arturo Belano che appare in molti dei suoi libri (per chi sia interessato, il film è disponibile tramite CineAgenzia per proiezioni e rassegne, in collaborazione con il Festivaletteratura di Mantova).

Raramente nella letteratura troviamo casi simili: dopo la morte di un autore spesso echeggia lo spettro dell’oblio. Ma Bolaño non è sicuramente fra questi: come ci diceva nella nostra intervista tempo fa il suo amico Rodrigo Fresán, Bolaño è stato un glitch nel panorama letterario, latinoamericano e non solo. Ancora oggi la sua unicità è come una stella distante, lontana ma luminosissima, abbagliante nella sua prosa. Se è vero infatti che il fenomeno letterario si è quasi spento, la sua aura continua a risplendere.

Ovviamente noi Bolañiani di ferro (il grado di fanatismo si conquista come scalando una montagna, si comincia l’arrampicata leggendo ognuna delle sue opere, dai racconti alle poesie, dai romanzi brevi arrivando infine alla vetta, composta dai colossi Detective e 2666), come nelle sue opere e nei peggiori b-movies amati da lui, continuiamo a essere detective assetati e cerchiamo conforto in qualsiasi cosa che abbia attinenze con lui, ogni traccia o indizio del suo passaggio. E così passiamo in rassegna video dall’adattamento teatrale di 2666 su Youtube alle sue interviste con la consueta sigaretta in bocca, ascoltiamo vecchie trasmissioni radio, riempiamo wishlist con tutti i libri citati nei suoi saggi Tra Parentesi, ci esaltiamo per l’uscita in Italia del suo poeta preferito, Nicanor Parra, e studiamo a fondo i bellissimi saggi di critici e amici che lo hanno conosciuto (finendo inghiottiti anche noi nella parte dei critici?), come il recente Bolaño Selvaggio, di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, pubblicato da Miraggi Edizioni.

Inevitabilmente, l’onda lunga della cosiddetta Bolañomania si sta trasformando in qualcosa di diverso, una sorta di feticismo, una ricerca spasmodica nel recuperare gli ultimi appunti del fantasma, una ricerca archeologica per tornare nella sognata Città del Messico, nel DF, in Calle Insurgentes o in calle Bucareli, nel bar dei poeti infra, luoghi anch’essi divenuti fantasmagorici. E vedendo la mappa dei testi inediti, realizzata nel 2013 per la mostra “Bolaño Archive. 1977- 2003” al Centre de Cultura Contemporània de Barcelona, è facile immaginare che questa strada verrà percorsa ancora a lungo.

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Mentirei spudoratamente se dicessi che durante le vacanze natalizie, leggendo di questa nuova pubblicazione, Sepolcri di Cowboy, tradotta sapientemente da Ilide Carmignani, non ho avuto alcun sussulto. Anzi. Anch’io non vedevo l’ora di ricongiungermi, seppur per qualche ora (SdC è lungo 165 pagine), con la sua Macondo, quella che si cela nei tramonti del Messico, nei deserti del Sonora, nel Cile dilaniato dal golpe, nelle spiagge maledette della costa Brava o nelle ramblas della sua Barcellona grigia, dimessa ed elusiva.

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Sepolcri di Cowboy racchiude tre novelle brevi, estese e divise in capitoli tra loro. Il primo racconto, chiamato appunto Sepolcri di cowboy, è databile tra il 1995 e il 1998; il secondo, Patria, risale ad un periodo tra il 1992 e il 1993 ed infine Commedia dell’orrore di Francia, è stato scritto tra il 2002 e il 2003, in contemporanea alla stesura di 2666. A differenza di quest’ultimo, che rimane un romanzo incompiuto ma definito nella sua forma, nessuno dei testi che compongono i Sepolcri superano a malapena lo stato di bozze. Ciò nonostante, non solo è possibile scorgere il talento in fieri del suo autore, ma il filo diretto che li lega con i suoi scritti più famosi.

Come per tutti i grandi scrittori, i libri di Bolaño appaiono come un’unica maestosa opera, indistinguibili fra loro, con scene, luoghi e temi che si ripetono nel tempo. Se infatti Lo spirito della fantascienza, altro testo incompleto pubblicato postumo lo scorso anno, può essere considerato un lavoro rassomigliante ai Detective Selvaggi, in questo caso Patria è un abbozzo di Stella Distante. In Patria ritroviamo infatti il golpe cileno del ’73 e il poeta-criminale celebre per le sue poesie aeree, qui soprannominato Cherniakovski, che ritroveremo in Stella distante come Carlos Wieder-Ruiz Tagle, e sotto il nome di Carlos Ramírez Hoffman ne La letteratura nazista in America. La sensazione di déjàvu non è un caso isolato: ad esempio il ricordo del padre ex pugile, presente nei Sepolcri, è un profilo che tornerà in uno dei racconti di Puttane Assassine, denominato Ultimi crepuscoli sulla terra. Il secondo capitolo invece, chiamato Il verme, è un testo che Bolaño pubblicherà come racconto in Chiamate Telefoniche.

Nel primo capitolo dei Sepolcri, L’aereoporto, viene descritta la partenza della famiglia Bolaño dal Cile al Messico. Qui troviamo alcune scene memorabili, come il rapporto con il padre, descritto durante una cavalcata a cavallo fra i due, o del tentativo fatto dal giovane Bolaño di visitare Nicanor Parra. Si avverte nel racconto una malinconia appena sussurrante, ma estremamente autentica e tipicamente sudamericana, un classico esempio di Bolañismo triste mi verrebbe da dire.

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Ciò che si soffre leggermente, nelle prime due novelle, è un repentino salto da uno scenario ad un altro, segno evidente che la scrittura di queste ultime non è mai stata completata o comunque abbandonata per altri progetti. Questo però non rappresenta un limite insormontabile: sappiamo infatti che Bolaño in molti suoi testi è volutamente episodico, non segue sempre una procedura narrativa, ma al contrario scompone varie scene in fasi di breve durata.

La Commedia dell’orrore in Francia, invece, essendo l’unico testo non riutilizzato (è forse un capitolo di un libro futuro a cui stava lavorando?), ha un respiro più ampio e un quadro generale più definito. Sorprende all’inizio per l’insolita location, mai trattata da Bolaño in precedenza, ovvero la Guyana francese, ma ben presto ritroviamo i tratti iconici e il suo sense of humour, visto che tratteggia un’insolita telefonata tra il protagonista e tale Gruppo Surrealista Segreto, di stanza a Parigi.

Il merito principale della prosa di Bolaño è che appena finito un suo libro, o anche un singolo racconto, si avverte sempre un magnetismo incalzante, l’urgenza di rileggere tutti i suoi scritti. Ciononostante, si può suggerire che Sepolcri di cowboy debba essere letto da chi è già entrato in dimestichezza con lo scrittore cileno, i suoi seguaci per intenderci, mentre per chi si avvicinasse per la prima volta ai suoi libri, il consiglio è di cominciare da altro.

Se i personaggi dei Detective e di 2666 incontravano spesso una sorte malevola, con l’oblio, l’estinzione e la scomparsa in vita per mancanza di lettori – a meno che i lettori non fossero altri scrittori – siamo certi che il suo autore ha scampato questo pericolo.

Al contrario di Auxilio Lacouture in Amuleto, non facciamo profezie su in quale anno preciso Bolaño smetterà di essere letto, né sappiamo se verranno erette statue a sua immagine o se entrerà nel canone tradizionale della letteratura, ma siamo sicuri che lo leggeremo ancora  per molto tempo. Perchè Bolaño sarà divenuto anche un fantasma ma “ma solo i morti sono tranquilli. E dopo un po’: neanche i morti, a pensarci bene.”

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