Ad un certo punto di Via dei Mille un’insegna con il nome Paolo Lunare indica l’entrata di una piccola bottega. Via dei Mille è una delle strade più trafficate di Bari perché unisce le due anime della città e permette di raggiungere rapidamente la stazione, la percorrevo anche due volte al giorno negli anni dell’università. Quando qualche mese fa ho notato per la prima volta quella scritta ho pensato di essere impazzita, di vedere ovunque tracce del romanzo che avevo letto qualche sera prima. Davvero ho sospettato un’allucinazione perché mi sembrava in quei giorni di non pensare che a quella storia, alla storia di Petra e Paolo, Paolo Lunare.
A cucire il legame tra i due omonimi è Cristò (Chiapparino), l’autore di La meravigliosa lampada di Paolo Lunare, pubblicato nel 2019 da Terrarossa Edizioni. Cristò vive e lavora a Bari, in una libreria; è un musicista, suona il pianoforte ed è soprattutto uno scrittore di talento su cui questa lampada ha fatto finalmente luce, ben oltre i confini della sua terra natia. Capace di una scrittura luminosa, Cristò merita di essere conosciuto anche attraverso gli altri suoi lavori più maturi, i romanzi Restiamo così quando ve ne andate (Terrarossa, 2017) e La Carne (Intermezzi, 2016).
Non ho esplorato il nesso tra i due Paolo Lunare. È lo stesso Cristò, nella postfazione del libro, a suggerire di non farlo perché “la letteratura è una menzogna. Ogni storia è una finzione. […] I personaggi non corrispondono a persone viventi o vissute, sono spiriti erranti, esistenze potenziali, funzioni narrative”. La familiarità poi con personaggi e luoghi della sua città, Bari, o della Puglia in generale, non è per il lettore una corsia preferenziale per una maggiore intimità con le storie raccontate. Non siamo di fronte a una narrazione strettamente legata al territorio: non compaiono mai riferimenti espliciti a città, paesi o strade. Tuttavia, vi è nei racconti di Cristò una certa sacralità dello spazio, in particolare dei luoghi del vivere quotidiano. Cristò riesce a rendere lirici i resti, tutto ciò che di solito rimane fuori dalla vita romanzabile, come le ore sul divano, tra un turno di lavoro e un altro, la pausa caffè e sigaretta o l’attesa della morte. È nell’introspezione, nella ricerca di sé, esperita dai personaggi in solitaria e attraverso le loro abitudini, che emerge la bellezza e l’incanto di questi romanzi.
È la casa per esempio il palcoscenico in cui si muovono Paolo Lunare e sua moglie Petra ed è l’impalcatura su cui Petra costruisce un sistema di menzogne che Paolo scoprirà grazie ai poteri della meravigliosa lampada da lui progettata.
Ma è soprattutto in Restiamo così quando ve ne andate che gli spazi domestici acquistano un ruolo, straniante e intimo: le pareti di casa si insinuano come voci nella narrazione, come anime che vegliano sulla vita dei loro inquilini senza che questi se ne accorgano. Il protagonista Francesco, un quarantenne alle prese con il più frequente degli aut-aut del nostro tempo, inseguire la solidità economica o assecondare le passioni, ha di per sé un rapporto singolare con le stanze del proprio appartamento: ciascuna di loro viene da lui denominata. La Stanza delle esperienze estatiche e ipnotiche è quella in cui si abbandona all’effetto dell’hashish e al suo potere antidepressivo, a quella possibilità di “guardare dentro e fuori contemporaneamente”, a un’“infinita disperazione creativa”. La stanza del rimorso è quella in cui si trova invece il pianoforte, la passione a cui vorrebbe dedicare il suo tempo.
L’animismo delle pareti e il potere della lampada sono per l’autore porte per il fantastico, per una dimensione intrisa di magia e spettralità presente in ciascuno dei tre romanzi, che ha portato qualcuno a definire Cristò voce di un nuovo realismo magico. Nuovo nel senso di rinnovato, nei temi adattati alla contemporaneità, rispetto alle celebri declinazioni realizzate nel secolo scorso da Garcia Marquez e Borges, da Calvino e Buzzati. Quella di Cristò è una magia nuova anche in un altro senso, non ha la pretesa di raccontare le radici culturali di un popolo e nemmeno quella di infatuare o provocare meraviglia. Non rappresenta insomma la chiave rispetto allo svolgimento dei fatti e nemmeno la soluzione. L’elemento magico, che più spesso si configura come oscuro, sinistro, fonte di inquietudine, è una pista che il lettore insegue ma che presto diventa un elemento per la costruzione della scenografia e a cui i personaggi reagiscono come fosse ordinario.
Quello che piuttosto rende meravigliosa ogni cosa che Cristò racconta è una certa poetica, una filosofia, un’interpretazione da dare alle cose che ricongiunge i protagonisti con le proprie paure, con i propri fantasmi. In La Carne, per esempio, più che la presenza di zombi affamati, a lasciare il segno è la percezione nei protagonisti di un sentire corale, di una forza telepatica giustificata dall’esistenza di una coscienza collettiva, un’idea che si affaccia nella vita dei protagonisti tramite l’apparizione in sogno di Averroè, traduttore e profeta delle dottrine di Aristotele. Questa è la vera magia in Cristò, la capacità di unire la fisicità e la spiritualità, la concretezza e la dimensione incorporea ricorrendo a una fantasia di trame belle, bellissime.
A ripetersi nei romanzi di Cristò è anche una certa caratterizzazione dei protagonisti: uomini offesi, letteralmente o figurativamente mutilati, privati di qualcosa; della verità nel caso di Paolo Lunare, della possibilità di scelta per Francesco. L’incompletezza delle loro esistenze, la frustrazione, la malinconia sono la chiave del loro sentire, l’amplificatore di una sensibilità con cui l’autore ci mette in contatto magistralmente.
Questa sorta di mestizia non si trasforma mai in vittimismo o autocommiserazione; è anzi mitigata nelle voci dei narratori da un moderno cinismo o disillusione, che assume i toni dello humor, del faceto, di una brillante autoironia che ti spiazza, ti cattura e infine intimamente ti seduce.
Il direttore si è allontanato. Io sono stato zitto fino a fine turno e durante la pausa pranzo mi sono chiuso in macchina e ho acceso l’autoradio. Non avevo voglia di parlare con nessuno. In particolare con Donatello. Fanculo a lui, al cazzo di libro che mi ha dato e fanculo soprattutto all’ipermercato, alla fila, agli scontrini e al direttore. Ho pensato questo e ho desiderato di morire all’improvviso con l’autoradio accesa, il sedile mezzo reclinato e una busta di patatine sulla pancia. Ho desiderato compassione e quello mi è sembrato il modo migliore di ottenerne tanta e gratis.
[Restiamo così quando ve ne andate]
Cristò ti accompagna in una discesa infernale per mostrare quello che siamo: esseri umani che devono sopravvivere ai compromessi fatti, che riescono a fatica a non abbandonarsi ai vizi. Questa agognata e continua tensione tra desiderio di cambiamento e fallimento è il filo conduttore di Restiamo così quando ve ne andate, un romanzo che si presenta come una finestra su una generazione e ne diventa il manifesto. In effetti è duro da reggere per quelli come me, come noi, coetanei di Francesco. Costretto a un lavoro di merda e a rapporti sociali mortificati dall’ opportunismo, un ragazzo vive le angosce e le minacce del presente, le ansie di un frigo sempre vuoto e l’ossessione per una passione, coronata con un diploma al conservatorio, a cui dovrebbe dedicare il tempo libero ma che resta seppellito in una stanza. Nella maggior parte del tempo Francesco rimane incastrato, e il lettore con lui, nell’ordinarietà dei gesti sempre uguali, psichedelici, nelle ore passate su Facebook e Wikipedia, nei soliti discorsi: il lavoro, i soldi, le bollette. Nell’allucinazione di questo lasciarsi andare, l’hashish diventa per Francesco l’unica possibilità per rovesciare le regole del tempo, dilatandolo.
In tutte le storie raccontate da Cristò c’è tuttavia una finestra d’aria, un posto in cui i protagonisti trovano asilo. In La Carne, ad esempio, è un periodo sempre evocato, è il mondo del protagonista quando aveva otto anni, prima che fosse privato del suo scroto dal Pitone, lo scivolo di un parco acquatico.
Quando il mondo era ancora come quando avevo otto anni e i genitori di Giulio erano miei coetanei quella casa era l’unico posto in cui desideravo profondamente andare. Perché mia madre era più felice e mio padre era più felice. Perché io ero felice. Quella era la casa in cui mi sbucciavo le ginocchia almeno una volta a settimana, in cui almeno una volta l’anno mi pungeva un’ape, in cui facevo i disegni migliori, in cui scoprivo magnifiche coincidenze che mio padre trovava significative, in cui le cose profumavano […] [La Carne]
Anche Paolo Lunare, in pagine di un’intensa e rara delicatezza, riuscirà a ricongiungersi da spettro con Petra solo dopo aver ininterrottamente vagato, in quello che assomiglia ad un sogno lucido, attraverso un’immensa campagna, dove non avverte stanchezza, dove si ferma anche giorni ad aspettare lo schiudersi dei papaveri.
Il comune denominatore di questa arcadia nei romanzi di Cristò è un rapporto più stretto con le proprie radici, con un bagaglio di cose perdute, come la lentezza, la semplicità, la pazienza. A realizzare questa unione è la natura, nel senso sia di paesaggio rurale sia di luogo incontaminato, in cui l’uomo riscopre la contemplazione. Di nuovo una visione delle cose e una filosofia che viene sviluppata in particolare in Restiamo così quando ve ne andate. Qui la seconda delle tre parti in cui è diviso il romanzo è intitolata e dedicata al pensiero pomeridiano, una voce, una presenza, che è poi Francesco stesso, che si ferma, lo osserva, lo interroga, lo riporta in campagna, lo spinge a ricominciare daccapo, cercando “il contatto mancante”, quello che ha mandato in aria la sua vita, simile, probabilmente, a quello che ha mandato in corto l’impianto elettrico della casa.
È lento il pensiero pomeridiano. Costruisce il suo percorso a passo d’uomo, non folgora ma illumina gradatamente, come questa luce filtrata dal vetrocemento del soffitto dell’androne del palazzo. Entra dalla finestra che si apre sulle scale e comincia a illuminare tenuamente mentre sto ancora dormendo e quando mi sveglio riesco a vedere che la casa ha le crepe sul soffitto, che c’è una ragnatela abbandonata e che io non sono quello che volevo essere”.
“Non è come luce elettrica lui, è luce naturale. Bisognerà aspettarlo, attendere con pazienza che faccia il suo percorso, che osservi tutto per bene. Perché nella passeggiata c’è il pensiero profondo, la contemplazione del fuori e del dentro, dell’oggetto e del soggetto, e delle loro relazioni reciproche. La filosofia
[Restiamo così quando ve ne andate]
In queste pagine, in cui il numero e la fattezza delle sottolineature sulla mia copia rivela la volontà di farne una vera e propria guida, si erge un inno alla vita (“la vita è sacra, non la morte!”).
La ricorrenza di tali argomenti, insieme a una palese assonanza formale, evoca il legame con una grande lezione filosofica del secolo scorso, quella del pensiero meridiano, illustrata da Franco Cassano in un saggio seminale edito da Laterza nel 1996. Il pensiero meridiano, introdotto da Albert Camus ne L’uomo in rivolta, richiama l’attenzione sulla necessità di ripensare la ‘misura’ dell’uomo nella sua armonia con la natura, come lo spirito greco insegnava. Il pensiero meridiano è un pensiero meridionale in questo senso: la via del Mediterraneo e del Sud è ancora oggi, nelle più recenti declinazioni di questa filosofia, la possibilità che abbiamo per riprendere contatti con la nostra identità oggi corrotta dalla velocità del mercato e dalla logica del profitto.
Andare lenti è il filosofare di tutti, vivere ad un’altra velocità, più vicini agli inizi e alle fini, laddove si fa esperienza grande del mondo, appena entrati in esso o vicini al congedo. Andare lenti significa poter scendere senza farsi male, non annegarsi nelle emozioni industriali, ma essere fedeli a tutti i sensi, assaggiare con il corpo la terra che attraversiamo. […] Il pensiero lento offrirà ripari ai profughi del pensiero veloce, quando la macchina inizierà a tremare sempre di più e nessun sapere riuscirà a soffocare il tremito. Il pensiero lento è la più antica costruzione antisismica.
[Il pensiero meridiano, Franco Cassano]
Il recupero del concetto di lentezza porta con sé il ripensamento di una serie di assunti su cui si è basata la narrazione sul meridione. L’idea per esempio di una modernizzazione del Sud definita tardiva, imperfetta e insufficiente, è assurta nel pensiero meridiano come l’unica modernizzazione reale possibile, perché è forse la modernizzazione stessa, come noi la intendiamo, a dover essere interpretata nuovamente e non necessariamente come rimedio.
Sarà solo grazie all’intervento del pensiero (po)meridiano che Francesco riuscirà alla fine a uscire dalla propria impasse, per ritrovare un proprio ritmo e plasmarlo attraverso i tasti bianchi e neri del pianoforte. Così Cristò si rivela, contrariamente a quanto detto in partenza, un autore legato al territorio in maniera invece profonda. Non a caso è solo in questa parte dedicata al pensiero pomeridiano che Francesco/Cristò si riferisce alla Puglia di fine anni Settanta come al luogo della propria fanciullezza, dove giocava a riconoscere le piante selvatiche, dove imparava a giocare con gli insetti, dove succhiava i fiori di gelsomino come fossero sigarette, dove imparava a non fidarsi della processionaria. In questo romanzo, così come negli altri, si riconosce nel recupero dell’identità, del proprio “dove”, la strada per un modello alternativo di pensiero, per una nuova linfa vitale, che Cristò con la sua scrittura, regala anche alla letteratura.
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