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«Nella vita, molti eventi realmente accaduti hanno spesso bisogno di essere narrati come se appartenessero al mondo della finzione» aveva scritto Yan Lianke in apertura dello sboccato romanzo breve Servire il popolo (traduzione di Patrizia Liberati, Einaudi, 2006). E se nel libro smilzo che prende il titolo da un discorso di Mao Zedong la narrazione è investita di verosimiglianza e satira, un’apparente finzione sembra comprimere il memoir Pensando a mio padre (traduzione di Lucia Regola, nottetempo, 2013) su un palcoscenico d’Opera di Pechino: ecco la scenografia delle campagne settentrionali, ecco il giovane protagonista, energico e vigoroso, e il suo saggio padre, e tutti si muovono in quella che sembra un’allegoria dello Xiaojing, il Classico della pietà filiale, uno dei canoni della dottrina filosofica di Confucio: se non proviamo devozione e non ci occupiamo del sostentamento dei nostri padri, cosa ci distinguerà dagli animali? Il senso di colpa per aver mancato a questo comandamento finché il padre era in vita serpeggia tra le righe del libro e si espande spesso in brucianti sessioni d’autoaccusa: «come potranno mai essere ripagate le mie promesse nei confronti di mio padre, ripetutamente espresse e ripetutamente infrante? Che considerazione potrà mai avere mio padre per un figlio così? […] Vorrà forse che, quando arriverà anche per me il giorno di lasciare questo mondo e di incontrarlo, io rimanga inginocchiato davanti a lui per l’eternità, senza potermi più rialzare?».

Yan Lianke ha pubblicato il suo primo romanzo nel 1979 (Tianma de gushi, La storia di Tianma) all’età di 21 anni, mentre serviva come soldato nell’esercito cinese, e ha continuato negli anni a produrre un formidabile corpus di lavori. Egli stesso appare anche come personaggio in Rixi (Il giorno in cui morì il sole, 2015) che è stato letto in Occidente come una critica al sogno cinese di grandezza nazionale di Xi Jinping, e che è stato pubblicato a Taiwan per la difficoltà di trovare un editore cinese.

Cucire assieme vita personale e finzione letteraria è un’arte che Yan padroneggia da sempre; in Rixi (non ancora tradotto in Italia) il filo che lega le due dimensioni è il sonnambulismo: «Ho avuto alcuni casi di sonnambulismo io stesso. […] L’idea per il romanzo è nata da questo. Volevo scrivere sui mondi interiori delle persone e su come si sarebbero manifestati se si fossero comportati secondo i loro desideri più intimi e segreti» risponderà al The Guardian in un’intervista del 2018. L’autore cinese sceglie di far raccontare la storia a un adolescente, alla sua sensibilità ancora acerba e poco sofisticata, raccogliendo la tradizione di una classicità di epoca Qing che vedeva nei giovani la sostanza umana a cui affidare le vicende letterarie, come nel caso del Sogno della camera rossa di Cao Xueqin (tradotto dal tedesco da Clara Bovero e Carla Pirrone Riccio, Einaudi, 1958), romanzo del 1792 che si ritrova citato più volte nelle opere di Yan Lianke.

L’adolescente ingrato e desideroso di fuga che è stato l’autore, nella vita e nel memoir, si rappresenta mediato dalla scrittura con animo sofferente come Jia Baoyu nel Sogno, che soltanto nella segretezza dei propri pensieri mai svelati riesce a desiderare un’altra vita accusando la società e il destino avverso. È quello che succede a Yan, nella vita e nei libri: nasce nelle campagne della provincia dello Henan, da una famiglia contadina la cui costante è il duro lavoro per mantenere i figli e una casa dignitosa, e proprio di fatica, malattia e sfinimento muore il padre, nel 1983. Pensando a lui, per anni e con rimorso, Yan ricostruisce la storia della sua fuga dalla campagna attraverso l’esercito e la scrittura per allontanarsi dal gravoso e spesso insoddisfacente lavoro sulla terra. Al tempo della sua infanzia, ogni famiglia della zona possedeva ancora un piccolo appezzamento di terreno, consentito sebbene esistessero le comuni popolari socialiste e la terra fosse perlopiù collettivizzata. Su questo piccolo terreno il giovane Lianke seguiva il padre come un’ombra, «come fossi una sua appendice. Mentre lavorava, mi piaceva stargli accanto e guardarlo sollevare la vanga o il piccone, calpestando l’ombra che si allungava al suo fianco».

Rixi, attraverso la scrittura sul sonnambulismo, riflette molte verità fondamentali sulla natura umana, usando la connessione tra i desideri mai rivelati a se stessi e le azioni inconsce dei personaggi sonnambuli. La lettura critica che ne è stata fatta, soprattutto nel mondo anglosassone, non collima del tutto con le intenzioni dell’autore: «una connessione diretta con il sogno cinese non era affatto ciò che intendevo. In realtà sarebbe stato piuttosto pericoloso per me andare in giro a scriverne una critica – e decisamente troppo semplicistico». L’utilizzo del sonnambulismo consente di esplorare cosa succede quando le persone hanno la possibilità di fare cose a cui pensano sempre, ma che nella vita reale sono assolutamente impossibili da fare.

Nello stesso romanzo Yan affronta una questione essenziale: l’incubo di non riuscire più a scrivere, di perdersi nella vastità del foglio bianco senza ritrovarne la bussola. È una paura che lo accompagna anche nella vita, come scrive nella postfazione a Il sogno del villaggio dei Ding (traduzione di Lucia Regola, nottetempo, 2011): finita l’ultima pagina del romanzo, la sensazione provata è l’inquietudine improvvisa, lo smarrimento, il pianto irrefrenabile come unico sfogo possibile. «Mi sentivo completamente spossato, come fossi un sacco vuoto senza più ossa né muscoli, e completamente impotente, come schiacciato dalla solitudine e dalla disperazione», la stessa disperazione avvertita alla fine di Gli anni del sole nel 1997, quando si sommavano «oltre al senso di perdita che seguiva la conclusione del romanzo – anche l’esplosione di una tristezza accumulata durante dodici anni di scrittura». I quasi duecentomila caratteri cinesi che compongono la storia villaggio dei Ding sono l’espressione, per ammissione stessa dell’autore, non soltanto del suo amore per la vita, ma anche della sua idea di narrazione e la passione cieca per l’arte del romanzo.

Il sangue scorre tra le pagine del romanzo, sangue che infetta i corpi e le famiglie, perfino i sentimenti. La famiglia Ding infatti si arricchisce con il commercio del sangue, pratica diffusa nelle campagne cinesi disseccate dalla povertà, e raccontata anche da un altro grande narratore della Cina del novecento, Yu Hua, in Cronache di un venditore di sangue (traduzione di Maria Rita Masci, Einaudi, 1999): un commercio produttivo che consente a molte famiglie di acquistare cibo, o tegole per la casa, oppure uno shampoo per mantenere i capelli lucidi, merci essenziali e anche frivolezze desiderate, e che sembra essere l’espediente perfetto per raccontare la rivoluzione popolare dalla prospettiva più bassa. Per un margine maggiore, Ding Hui utilizza più volte gli stessi aghi, perfino gli stessi batuffoli di cotone: e l’Aids si espande come un enorme corvo dalle ali nere sui villaggi della valle. Tutti gli abitanti del villaggio dei Ding sono condannati, chi prima, chi dopo, cadranno preda delle febbri e la morte li coglierà comunque: «morivano come le foglie che d’autunno cadono a terra volteggiando. La luce si spegneva e non erano più di questo mondo».

Nel romanzo, uno dei personaggi principali è il vecchio nonno Ding, anche qui l’anziano e saggio maestro che ricalca i paradigmi dell’opera cinese; ma è lui che ha usato la propria venerabilità per convincere i concittadini a vendere il sangue, e di questo si sentirà responsabile fino alla fine. Il sangue, paragonato a una sorgente vitale, fluisce e contagia, richiama alla vita e alla morte; e se è nel sangue che scorre imperterrita una lunga linea ininterrotta dagli avi al secolo delle comuni socialiste, è invece nella narrazione eloquente di Yan Lianke che leggiamo i volti assai diversi della Cina: da un lato il passato confuciano con le pratiche legate alla terra cristallizzate nei secoli, dall’altro la modernità non ancora assimilata. Dunque spalla a spalla si ritrovano i principi di devozione filiale e di sacrificio, anche estremo, e la burocrazia che dà il ritmo al nuovo quotidiano, anche in Gli anni, i mesi, i giorni (traduzione di Lucia Regola, nottetempo, 2019) in cui una madre immola la propria carne e la offre in riparazione per le malattie dei figli. Come fa Lu Xun con il suo racconto Yao (Medicina, 1919) in cui il sangue contenuto in un baozi è inteso come cura per le malattie e fallisce l’intento, anche Yan affida allo scorrere del liquido rosso le speranze disilluse e la condanna. Ricalcando ancora i ritmi tipici dei romanzi Qing, lo scrittore utilizza la diversità del tempo narrativo, con inquadrature e movimenti dei protagonisti negli spazi assegnati loro nel romanzo, fino all’improvviso precipitare degli eventi.

La lettura dei classici della letteratura cinese fa parte della formazione giovanile di Yan e di questa si avverte la fragranza nelle sue opere. Durante l’adolescenza la prosa di propaganda e i romanzi rivoluzionari inondano la mente e la creatività del giovane cinese, spingendolo a ideare un lungo romanzo, scritto su un’infinità di fogli che non mancava di portarsi dietro neppure nei mesi estivi sui cantieri in cui lavorava fino a spaccarsi le mani tanto da non riuscire più a reggere la penna. Ma se all’inizio la scrittura poteva rappresentare la speranza di una pubblicazione e quindi di denaro per lasciare la campagna per la città, dopo anni di fatica e lavoro per Yan Lianke diventa un nuovo strumento con cui cui percepire l’esistenza in tutta la sua disperazione: «così con la scrittura si può comunicare la sensazione che esista un mondo nuovo», ricorderà di questa epifania in Pensando a mio padre.

Scrivere il memoir per Yan è riordinare i ricordi in una prosa lucida che compone una precisa visione del mondo, in cui è impossibile svincolare i personaggi dalle circostanze: lo Henan, i campi, la terra, il miraggio della città e i legami famigliari come un conforto che a volte gli si stringe troppo intorno; narrare la fatica grama della campagna significa rappresentare la convinzione intima che lo scontro tra istruzione cittadina e villaggi, per esempio, osservato durante gli «Scambi di massa di esperienze rivoluzionarie» del 1966 e ’67, biennio in cui milioni di giovani perlopiù istruiti attraversavano il paese in treno a spese del governo incitando alla rivoluzione, mettesse in luce il divario di opportunità fra città e villaggio, molto più grande di quanto non sia stato raccontato in origine, e venato dal disprezzo congenito dei giovani istruiti per i contadini. «La partenza dei giovani istruiti mi fece vagamente capire che, invece di restare al villaggio ad aspettare che si compisse il mio destino, avrei fatto molto meglio a darmi da fare per trovare una via di fuga dalla mia terra e provare a cambiare qualcosa.»

Tale via di fuga è appunto l’incontro con la scrittura, anzi con un romanzo in particolare, La linea di demarcazione della scrittrice Zhang Kangkang, e la sua biografia in quarta di copertina: Zhang, originaria di Hangzhou, era stata mandata come «giovane istruita» a rieducarsi in una città del Grande Nord, dopo aveva scritto il romanzo che era stato sottoposto a revisione e pubblicato da una casa editrice di Harbin. Quindi, da una zona remota del Grande Nord, Zhang Kangkang era riuscita a trasferirsi nella capitale provinciale Harbin – e lì era rimasta, per continuare a lavorare come scrittrice. «Ciò che lessi in quella presentazione mi colpì all’istante come un fulmine: dunque, scrivere un libro poteva rappresentare un’occasione per lasciare la campagna e andare in città. E così in quel periodo, intorno al 1975, nacque in me l’idea di scrivere, si piantò e mise radici dentro di me il seme di una volontà prepotente e sfrontata: comporre un romanzo, pubblicarlo e trasferirmi finalmente in città. Presi a scrivere di nascosto.»

Yan Lianke, che non era quel che si dice un lettore forte, scopre la letteratura straniera e i classici della Cina intorno ai vent’anni, quando lascia il proprio villaggio nello Henan. Le ripetizioni che fanno da coro nei suoi romanzi, il ritmo e la musicalità nel suo modo di scrivere, tipico della narrazione tradizionale di lingua cinese, non celano l’amore per i libri della Cina dei letterati, come l’opera monumentale di Cao Xueqin sopracitata, amata anche dal presidente Mao, pare di difficile reperibilità: soltanto i quadri di alto livello, si diceva, potevano ottenere una copia del romanzo che il Grande Timoniere tanto amava: «non credetti del tutto a quella storia».

Essere uno scrittore in Cina oggi è complicato, non necessariamente per via della censura. Se è pur vero che Yan Lianke ha avuto difficoltà a pubblicare in patria, in realtà sembra non importargli granché perché «se non si ha un editore, puoi scrivere quello che ti piace e è una sorta di libertà». D’altra parte, è forse anche il momento di riconoscere che la letteratura ricopre un ruolo sempre più marginale: bisogna riconoscere che «nella nostra epoca uno scrittore altro non è che uno scrittore» racconta Yan Lianke al manifesto (tradotto da Riccardo Moratto) il 24 marzo 2020, in piena pandemia da coronavirus. «La creazione di grandi capolavori letterari appartiene ormai a un’epoca passata. Solo un autore geniale, con l’aiuto della provvidenza divina, riuscirebbe a scrivere grandi opere in grado di sconvolgere cielo e terra.»

E questa catastrofe è stata il propagarsi della pandemia a partire da Wuhan, nella provincia dello Hubei; tuttavia, dal momento critico in cui Wuhan è stata chiusa, la Cina intera è divenuta un tutt’uno: «è questa la forza del popolo, e questa è anche la sua unica speranza». Ma di fronte al dramma sanitario, ancora una volta si è potuto verificare che la letteratura è impotente quando si trova a dover descrivere una ferocia così catastrofica, e per quanto si dica dei suoi meriti «quando la gente ha fame e sete, la letteratura non supplisce alla carenza di pane e latte». Eppure nel momento del bisogno, l’assenza di voci fuori dal coro può diventare una tragedia ancora più devastante, ed è qui che occorrono scrittori disposti a diventare belligeranti: «Le loro voci attutiscono il rumore degli spari. Sovente i loro proclami di dissenso riescono a impedire che l’avversario innesti la baionetta e a ovattare il rimbombo degli spari. Come Babel’ e Hemingway, Norman Mailer, Singer e Orwell».

Pochi scrittori come Yan Lianke hanno così costantemente esplorato, sezionato e a volte deriso gli ultimi decenni di governo comunista cinese. Non è mai stato timido nel calpestare il Partito, e Servire il popolo venne infatti proibito con l’etichetta di pornografia; anche se si può immaginare che alle maglie della censura non siano sfuggite, oltre alle descrizioni del sesso affamato della bella Liu Lian con il sottoposto del marito comandante Wu Dawang, la satira di un sistema di quadri e gerarchie e cieca obbedienza.

Anche successivamente non è stato timido, se pensiamo a I quattro libri (traduzione di Lucia Regola, nottetempo, 2018): siamo nella Cina degli anni Cinquanta, lungo le rive del fiume Giallo devastate dalla ricerca di sabbia nera per la produzione dell’acciaio; quattro personaggi sono rinchiusi nella Sezione 99, un campo di rieducazione per intellettuali contrari allo spirito rivoluzionario. Vietato nella Cina continentale, racconta un vuoto narrativo nella narrazione politica e popolare della Cina, quella degli errori del Grande balzo in avanti, il piano di industrializzazione di Mao: la campagna in rovina e 40 milioni di persone morte di fame. Mentre i contadini morivano, la Cina esportava il riso prodotto. Lo scrittore dello Henan ha impiegato, racconta, circa vent’anni per pianificare la struttura del romanzo, e due per scriverlo davvero, esattamente come desiderava. I quattro libri è stato rifiutato da una ventina di editori, i quali hanno capito che la pubblicazione avrebbe significato la fine della loro casa editrice. A pubblicarlo sarà la Rye Field Publishing House di Taipei (Taiwan) nel 2011.

E qui di nuovo la finzione riprende le fila del reale per raccontarlo con precisione in tutto il suo orrore grottesco: il titolo ammicca sia ai vangeli che ai Quattro libri del canone confuciano classico. Intrecciati insieme, questi testi e le altrettante riflessioni filosofiche che accompagnano la narrazione riflettono la catastrofe dei tempi e meditano sul significato di integrità, verità, amore e etica di fronte all’orrore. La dedica che apre il libro recita: «In omaggio a un pezzo di storia dimenticata e alle decine di migliaia di intellettuali che morirono e che sopravvissero».

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↔ In altoillustrazione © Gianluca Patti. Per gentile concessione.

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