Ricordo bene la prima volta che ho sentito nominare Frank Kermode. Ricordo bene il libro che me lo ha fatto conoscere, Il senso della fine (The Sense of an Ending. Studies in the Theory of Fiction), all’epoca accessibile in un’ormai esaurita edizione Sansoni. Ricordo quel libretto soprattutto nelle mani di alcuni miei compagni universitari, che nell’autunno del 2010 riuscirono ad assicurarsi le ultime copie disponibili. In quel periodo avevamo appena iniziato a seguire le lezioni di un modulo dedicato al romanzo italiano dell’Ottocento. Visto l’argomento, non era male, secondo il professore, costruirsi una base di teoria del romanzo, ed ecco spuntare nella bibliografia il nome, fino a quel momento sconosciuto, di Frank Kermode, critico letterario e accademico inglese tra i più significativi del Novecento. I meno lesti, tipo me, arrivarono tardi e, non potendo acquistare il libro, ripiegarono sulle biblioteche. Qualcuno, tra i possessori del libro, commentò, con agghiacciante ironia, che era la fine del Senso della fine, ma recentemente, e per fortuna, il Saggiatore ha cambiato le carte in tavola, smentendo quella orripilante battuta e restituendo alle librerie uno tra i più grandi testi di teoria del romanzo mai scritti (ma è un’etichetta riduttiva, e vediamo presto perché). Per questa ripubblicazione è stata mantenuta la traduzione classica, quella firmata da Giorgio Montefoschi e Roberta Zuppet negli anni Settanta, cui si aggiunge un’introduzione di Daniele Giglioli che va a sostituire quella che Giulio Ferroni scrisse nel 2004 per la Sansoni.
Riportare in libreria questo densissimo testo originariamente pubblicato nel 1966, a partire da una ciclo di conferenze tenute dall’autore presso il Bryn Mawr College nell’autunno del 1965, non significa semplicemente restituire ai lettori la possibilità di leggere un libro che fa di un tema delicato e vasto come la fine, in una prospettiva complessa e per nulla scontata, il suo argomento centrale; piuttosto, costringe a una domanda breve e complicata: perché, nel 2020, a più di cinquant’anni dalla sua prima uscita, abbiamo bisogno di leggere, o rileggere, Kermode?
Probabilmente non è possibile dare una sola risposta, e parlare di capolavoro di teoria letteraria non basta; si può comunque avanzare un’ipotesi: al giorno d’oggi non si può ignorare il fascino esercitato dalla parola fine, visto che con essa, e con il suo dinamico e avvolgente campo di significati e corrispondenze, ci confrontiamo quasi quotidianamente.
Come già accennato, parlare di The Sense of an Ending come di un puro testo di teoria del romanzo è riduttivo, e basta semplicemente dare un’occhiata al sottotitolo per capirlo: Studies in the Theory of Fiction. È la fiction, comodamente tradotta come “finzione”, a essere oggetto di studio, ovvero l’insieme dei meccanismi narrativi e artificiali in cui viene incastrato il continuo divenire degli elementi umani. Chiaramente il terreno privilegiato è quella della finzione letteraria, inserita in aperto dialogo con una teoria generale delle finzioni: un’apertura che si muove di pari passo con l’atteggiamento libero e antidogmatico dell’autore, restio ad ogni forma di facile schematismo. L’importanza della finzione, per noi che ci affacciamo al mondo in medias res e non conosciamo né l’origine né il momento finale di tutto, sta nel bloccare questo flusso in una struttura armonica di inizio, centro e fine che renda possibile trovare un senso all’esistenza («Il fatto è questo: non è che noi siamo padroni e conoscitori del caos; siamo circondati dal caos e possiamo coesistere con esso solo per mezzo dei nostri poteri immaginativi»). Questa struttura, o questo ordine, si trova nella narrativa (quindi anche nel romanzo), dove tutto è inserito in un percorso che prevede l’inizio e la conclusione. Ma la narrazione che più di tutte interessa Kermode è quella “finale” per eccellenza: l’Apocalisse. In quanto capitolo risolutivo delle Sacre Scritture, l’Apocalisse incide sul ciclo intero, racchiudendo tutto in un senso ultimo. E costruire una fine è essenziale, poiché «proiettiamo noi stessi – un minuscolo e umile numero di eletti, magari – oltre la fine, in modo da poter vedere, così, tutta intera, la struttura, avere quelle immagini che ci mancano quando siamo nel mezzo, nei nostri spazi angusti». La fine dà senso, e dare senso significa essenzialmente dare conforto.
Uno degli esempi più efficaci, nella sua semplicità, con cui Kermode spiega il bisogno di strutturare e dare ordine, viene da un banale rumore che tutti abbiamo ben presente: il ticchettio dell’orologio. In maniera puramente arbitraria siamo concordi sul fatto che questo rumore faccia tick-tock, ma, appunto, è solo un’immagine convenzionale che schiaccia a livello del linguaggio umano due suoni in verità assolutamente identici. Su questi suoni costruiamo un meccanismo il cui ruolo fondamentale è giocato dalla pausa tra il tick e il tock (qualcuno pensa mai a quella esistente tra tock e tick? No, perché evidentemente ragioniamo sulla base di quel gruppo ritmico, tick-tock; tock–tick, invece, non è limitato, non ha inizio né fine, è tempo vuoto, anche se esistente). «Quando chiamiamo il secondo fra i due suoni in relazione tock è evidente che usiamo una finzione per far sì che la fine conferisca organizzazione e forma alla struttura temporale». E poco più avanti, per tornare a un marchingegno più complesso come la letteratura: «Il tick-tock dell’orologio è il tipico modello di quello che, in letteratura, chiamiamo intreccio, un’organizzazione che rende umano il tempo attribuendogli una forma; mentre l’intervallo fra il tock e il tick è il tempo che passa e basta, quel tempo disorganizzato che sentiamo il bisogno di umanizzare». Ovviamente, per le nostre esigenze abbiamo bisogno di trame più complesse e di Apocalissi più significative di un tock, ma tanto basta a far capire l’assoluta necessità che arrivi una fine a dare senso a ciò che la precede.
Kermode, inoltre, non nasconde l’esistenza di un lato oscuro e pericoloso: occorre stare attenti a far sì che le nostre finzioni non degenerino nel mito, cosa che accade quando si perde cognizione del loro statuto fantastico. L’adesione totale, fanatica e irrazionale alle finzioni genera il mito, che è assoluto e che apre la porta a disastri inimmaginabili (con tanto di allusione al nazismo, alla sua Apocalisse e all’antisemitismo come fantasia degenerata che si tramuta in mito). Nella storia, d’altra parte, si assiste anche a un fenomeno contrario, di scetticismo verso le costruzioni finzionali sulla spinta della realtà e delle sue dinamiche, il che porta a un continuo ripensamento della finzione fino a un punto di massimo scetticismo che Kermode intravede nelle avanguardie artistiche a lui più vicine, ubriacate dalla pretesa del nuovo a tutti i costi, dalla distruzione delle forme e disposte a fare terra bruciata del passato, con cui invece è sempre necessario dialogare (più ambiguo, e non del tutto pacifico, il rapporto con il modernismo primonovecentesco, quello di Proust, Joyce o Kafka, che propone in una veste nuova certe immagini del passato ma che si ha l’impressione convinca solo in parte il nostro autore, come se qualcosa lo tenesse a distanza, in un rispettoso pudore, nella convinzione che non è facile liquidare quelle esperienze). Per evitare la caduta nel fanatismo del mito o nello scetticismo assoluto, dando per scontato il bisogno di confrontarsi con la fine e con il senso che solo essa è in grado di fornire, ogni epoca crea una specie di strano equilibrio tramite delle «finzioni-armoniche» che evitino la caduta nel mito ma allo stesso tempo diano soddisfazione alla fantasia anche quando la realtà sembra impegnarsi per negarla. La finzione armonica è una specie di compromesso che crea una soddisfazione in accordo con la realtà.
Questo costruire senza sosta non si limita, ovviamente, al solo ambito della creazione artistica ma tocca il modo stesso in cui il genere umano intende sé stesso nel rapporto col mondo. Uno dei modi con cui creiamo ordine è quello della crisi. Kermode scrive in un momento fortemente segnato dalla crisi. Siamo a metà degli anni Sessanta, c’è stata, appunto, la crisi di Cuba, c’è la guerra in Vietnam, John Kennedy è stato assassinato solo pochi anni prima (e solo pochi anni dopo sarà assassinato Bobby Kennedy), la guerra fredda è ancora lontana dal terminare e la minaccia di un olocausto nucleare non è poi così remota. Ciò nonostante, Kermode ha la lucidità di notare come ogni generazione ha sottolineato la sua crisi, ha voluto anzi specificare il suo stato di crisi come fosse un marchio di unicità, come se si trovasse nella privilegiata posizione di essere alla fine o all’inizio di un’epoca. Non a caso, quando si è prossimi alla fine di un secolo (o ancora meglio di un millennio, cosa che molti di noi possono testimoniare), ecco subito il constatare la fine di questa o quell’epoca (e di quante crisi abbiamo letto nei libri). Questo concetto è strettamente correlato a quello di transizione: ogni fase storica si è infatti descritta come di passaggio tra un vecchio e un nuovo con il risultato – paradossale – di far diventare la transizione stessa epoca. Ma cosa sono questi concetti se non delle semplici finzioni che esprimono «la convinzione che la fine è immanente piuttosto che imminente»?
Il senso della fine, allora, è qualcosa di molto profondo, che risuona nel modo stesso di intendersi in una data realtà e che si espande in direzioni molteplici: quelle artistiche e letterarie sono ovviamente tra le più interessanti.
Certo, è difficile non essere d’accordo con Kermode quando riconosce in ogni momento della storia umana il pensiero della crisi (è così anche per noi, nel nostro presente); tuttavia, meglio non dimenticare che certe civiltà, certe esperienze sociali, hanno conosciuto davvero la crisi definitiva per poi scomparire. È un concetto che certamente obbedisce a quella volontà di strutturare e ordinare di cui abbiamo tanto parlato ma che non si può nemmeno liquidare con troppa disinvoltura. Se fosse così semplice dovremmo forse trascurare le crisi attuali, lo scricchiolio che certi sistemi di valori (ad esempio umanistici) fanno sentire sempre più rumorosamente, o le derive politiche più minacciose di cui siamo testimoni (per non dire dei problemi ecologici). Ciò che interessa, allora, nel rileggere Kermode, oltre che nelle questioni puramente letterarie, sta nel valore che può assumere la consapevolezza del senso della fine e delle finzioni che produciamo oggi, quando il nostro complesso e stratificato immaginario ci ha fatto attraversare molte volte l’Apocalisse nella letteratura e nel cinema (e non solo, a pensarci bene). E quando il pensiero di essere alla fine, o dopo la fine di qualcosa, sembra inevitabile.
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