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«Non è che affoghi ma, dopo ogni immersione, respiri come fosse la prima volta». È lo stesso Georgi Gospodinov a dare la migliore definizione di cosa comporti imbattersi nella successione delle 103 storie superbrevi che compongono Tutti i nostri corpi (Voland, trad. Giuseppe Dell’Agata).

Se i romanzi fiume delle centurie di Manganelli rischiavano di apparire al lettore frettoloso solo testi di poche e scarne righe qui Gospodinov non lascia neppure il tempo di illudersi: è evidente che ogni storia sia un frammento sfuggito all’Aleph di Borges. Fa quasi rabbia non poter conoscere di più, eppure immediatamente dopo la sensazione è che non ci sia altro da sapere, o perlomeno non qui e non ora: «Ci sono toccate varie vite. E non ne abbiamo portata a termine nemmeno una» recita l’intero testo della storia Finora.

L’autore di Fisica della malinconia ci ha ormai abituati alla sua collezione di storie, ad una poetica del frammento, alle brevi trame trasversali e ubique il cui epilogo non può che compiersi altrove (un altrove che prima o poi finirà nei libri del Georgi Gospodinov di un multiverso affine al nostro). Ma questo suo ultimo lavoro è addirittura uno stillicidio di storie. Ognuna di esse apre un mondo intero e lo richiude nel giro di un secondo, eppure in questo secondo, come l’istante dopo il Big Bang, moltissime cose essenziali sono accadute, ponendo le basi di un intero universo.

Tutti i nostri corpi, come dimostra una riflessione finale sulla brevitas in letteratura (il testo più lungo del libro), è anche il (frammentato) manifesto del suo autore, forse la sublimazione di una ricerca letteraria iniziata fin dagli esordi in nome dell’atomizzazione delle storie, e della Storia: elementi aggregabili al massimo in particelle indipendenti ed effimere, eppure legate da una trama universale. Con questo libro l’autore bulgaro fa un ulteriore passo oltre il romanzo, la critica letteraria, il racconto breve, la poesia, forme espressive pur frequentate con successo finora: per raccontare queste molecole di storie bastano solo poche righe, se non solo una manciata di parole. È un ennesimo tentativo, forse il più estremo, di rimediare alla propria identità o alla necessità di averne una: «Tutta la mia vita è cucita con vite altrui» confessa in Altro, altrove .

Ritorna tutto qui della sua bi(bli)ografia, soprattutto la contiguità, anzi l’impossibilità di distinguere tra fisica e metafisica, vita e letteratura, storie di mondi e Storia del mondo. Torna l’ambiguo alter ego scrittore Gaustìn e torna la tăgà, la malinconia bulgara diversa dalla turca hüzün o la portoghese saudade, perché è malinconia per ciò che non è avvenuto e «le cose che non si verificano spesso durano più a lungo». Anche qui resta infatti irrisolto il rapporto con il proprio paese, di cui ormai è forse l’autore più celebre nel mondo, una patria con una storia ricca solo di occasioni mancate che non è neppure più casa o non lo è mai stata:

«E anch’io ho lasciato la casa della mia infanzia nella cittadina di T., casa è una parola grossa, una stanza comune in affitto al pianterreno, ma fa lo stesso, il posto dove sono stato bambino. Ho sentito dire che l’hanno demolita.
Se la nostalgia deriva etimologicamente da dolore (algos) per il ritorno a casa (nostos), per la casa che ti aspetta da qualche parte, allora la nostra nostalgia è per un casa che non esiste più. E perciò inguaribile».

Ritorna anche l’errare incessante dello scrittore ormai adulto, per il suo o per ogni altro paese, in un mondo inafferrato attraversato nelle sembianze di un vagabondo silenzioso, un cacciatore defilato di dettagli discreti. La sua attenzione è allora per i cavalli dei monumenti a cavallo e non per chi siede sopra, per il senzatetto che colleziona chiavi perse di altre case, per la pianta cresciuta all’ombra delle Torri Gemelle nel cui DNA resiste il ricordo di un trauma più grande: l’estinzione dei dinosauri, o per il vecchio che lotta contro una mela, anzi per la mela che resiste caparbiamente, finché può, alla superbia dell’uomo che vuole strapparla dal ramo.

Può capitare di incontrarlo a Santa Maria dei Monti intento a fissare una donna che fuma in balcone, o seduto in un bar del quartiere Alfama di Lisbona a osservare l’imbrunire, o errabondo e triste per le strade di Vienna, e sempre con lo stesso sguardo sommesso, come di chi a nulla appartiene davvero, se non al Tutto. Uno straniero in ogni patria capace però di trovare improvvisa cittadinanza in un ristorante indiano di Charing Cross, a Londra, dove gli giunge il profumo inatteso del cibo come un ricordo ed è quello delle «stesse focacce che cucinava mia nonna» (non si tratta di un plagio, una delle biografie di cui si appropria fin dalla prima pagina è quella di Proust).

È come se Gospodinov pescasse di continuo da una biblioteca infinita mista di romanzi, vite vere e pensieri inconsci e strappasse via un pezzetto a caso di ogni storia. E ogni storia fosse a un tempo a sé stante e organica alle altre: a comporre una storia di tutte le storie e di nessuna.

In Tutti i nostri corpi rinuncia a rammendare questi frammenti di vita in una narrazione unica, come aveva fatto, con qualche sforzo ma brillantemente, in Fisica della malinconia. Queste storie superbrevi, spesso spiccioli di frasi, sono frammenti sottratti a un mondo morente ed esausto dove gli eventi, le narrazioni, sono già tutti alle spalle, eppure non ancora avvenuti, come per il popolo andino degli Aymara:

«Quando parlano di qualcosa che deve avvenire, indicano dietro a sé. Quando parlano del passato indicano col braccio davanti a loro. Perché il passato è già davanti ai loro occhi, è avvenuto, eccolo, davanti a noi. Il futuro è dietro di noi, alle nostre spalle, invisibile e atteso. Non sappiamo mai cosa ci capiterà».

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