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«Il sublime è superiore al bello, per la sua capacità di colpire l’immaginazione, di farla vagare nelle impossibili vette e nelle angosciose voragini dell’esistenza, piuttosto che nelle luminose, ma poco esaltanti, regioni dell’armonia. Elevando l’animo esso lo pone nello stesso tempo dinanzi a profondità inattingibili»

(Remo Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, 1995, p. 87)

Se “leggere i libri di Ellen Meloy” fosse una caratteristica comune alla specie umana e non una virtù esercitata esclusivamente dai suoi – milioni – di appassionati lettori, a nessuno sarebbe venuto in mente d’introdurre surrogati sensoriali come, ad esempio, la “realtà aumentata”. Questo perché cimentarsi nella lettura delle sue opere, come ho fatto con l’Antropologia del turchese (Black Coffee, 2020), tradotto di recente, può rivelare una profondità puramente fisica; tanto da stimolare i recettori neuronali solitamente attivi durante un’esplorazione in terre esotiche, piuttosto che quelli deputati a mantenerci attenti a un testo mentre giacciamo in perfetta stasi sul sofà del soggiorno.

L’opera è una raccolta di scritti in cui Meloy racconta in prima persona spaccati risalenti a diversi periodi della propria vita; a tratti diaristici, altre volte autobiografici, sempre ricchi di spunti di riflessione scientifica, storica, psicologica, sociale e culturale.

L’Antropologia del turchese è uno spesso compendio di esperienze, viaggi, esplorazioni avventurose e racconti storici; ad accomunare ogni narrazione troviamo l’onnipresente elemento naturale: ampi panorami desertici contornati da ispide cime rocciose, gole scavate dallo scorrere millenario dei fiumi, giungle tropicali colme di resti coloniali, litorali incontaminati ove una sottile linea separa il «il blu scuro di una laguna» dal «bianco perlato di una spiaggia sabbiosa», flora e fauna di ogni varietà, compreso l’uomo.

Ufficialmente, dunque, si tratta di un libro naturalistico, genere: divulgazione scientifica; ma nonostante dall’opera trasudi una brillante preparazione accademica – di cui Meloy era certamente dotata – essa non segue il ritmo tipico di tale particolare categoria di scritti. Questi sono condotti di norma applicando razionalmente il metodo galileiano, che mira a ricostruire sperimentalmente la realtà oggetto di studio e a definirne i connotati nei termini di leggi fisse, in modo che ci sia mostrata il più chiaramente possibile. Anche se a costo dell’omissione di dati “superflui”.

Il mostrare è l’atto distintivo dei libri divulgativi. Nel caso dell’Antropologia in questione siamo invece di fronte a un’operazione sostanzialmente diversa, quella dell’astrarre. Non è tuttavia l’astrazione intesa nell’accezione popolare, individuata dall’enciclopedia Treccani, per la quale essa è lo «stato di chi è profondamente dominato da un pensiero e astratto dalle cose circostanti», ma di un’astrazione molto più vicina al significato etimologico della parola; dal latino abs – da, e tràhere – trarre, tirare: trarre da.

Leggendo l’Antropologia del turchese si viene tratti dal luogo fisico in cui siamo ubicati (il comodissimo sofà) e si viene condotti dentro un’altra realtà, più atavica, sfaccettata e virginale, addirittura più vera. Tale realtà non ci viene semplicemente mostrata, ma veniamo calati con forza al suo interno; in quanto vittime di questo tipo d’astrazione, non siamo messi nella posizione di chi può osservare oggettivamente le ragioni naturali che animano certi fenomeni o che li fanno compiere in un determinato modo, ma in quella di chi si trova nella medesima rete ecosistemica da cui quei fenomeni scaturiscono.

Se da un lato tale posizione può risultare scomoda, perché priva l’osservatore del suo punto di vista esterno, de-privilegiandolo, dall’altro permette di salvaguardare la gran parte di quei dati “superflui” che andrebbero persi in un’esposizione prettamente divulgativa; si tratta di ciò che non è materializzabile entro una descrizione analitica dei fenomeni, o in altre parole, della vita – o della volontà – che anima e connette quei fenomeni. Così essi vengono liberati dalla mera definizione di “oggetti” e fregiati al contempo dello status di agenti; il “superfluo” che viene così recuperato consente di accomunare l’elemento umano e quello naturale nella definizione di soggetto attivo. Bruno Latour rende al meglio quest’operazione quando, riferendosi alla Terra intera, sottolinea che «lungi dall’essere un corpo galileiano privo di altri movimenti che quelli propri delle palle da biliardo», essa «ha oggi riacquisito tutte le caratteristiche di un vero e proprio attore» (Bruno Latour, Essere di questa Terra, Rosemberg & Sellier, 2019 – corsivo dell’autore).

Allo stesso modo l’universo naturale descritto da Meloy è vivo, pulsante, si agita e riposa, decide, desidera e rifiuta, gioisce e si arrabbia, si nutre e si accoppia, agisce, così come ogni singolo ente che lo costituisce; gli alberi si «annidano» fra nicchie e fenditure, le creature «vogliono farsi notare», le valli «si arrampicano verso la vetta» e le pietre «parlano», seppur «ad altri mondi». Al centro della scena c’è dunque un’instancabile danza che non si arresta neanche di fronte alla quiete più assoluta che ovatta il deserto del Mojave poco dopo il tramonto, quando la Nostra si ferma a riposare dopo un lungo trial a piedi; né tantomeno si arresta se l’imperituro scorrere del fiume Colorado trasforma uno stretto canyon solitario in un regno dove il tempo è bandito, mentre Meloy lo discende su di un kayak (in Scivolare sulla seta).

«Vive. È l’aggettivo che userei per descrivere quelle montagne, che fendevano il cuore della California come un unico essere dal placido respiro che potevo udire ogni volta che accostavo la guancia al granito caldo, con le braccia aperte e il cuore in gola».

Il protagonista del libro non sembrerebbe allora essere l’uomo, vista l’onnipresenza di picchi lucenti, fasce di arenaria «grandi come nazioni europee», mandrie di bighorn saggi e solitari, foreste incontaminate, valli aride e secche, petali violacei di Opuntia, fiumi trasparenti, perle turchesi, piante e animali di ogni tipo; ma è proprio l’astrazione appena accennata che aggira l’ostacolo e riporta in piena legittimità il soggetto umano al centro dell’opera. Spogliato del suo preteso distacco dall’oggetto di studio (il paesaggio, la natura, gli animali, la Terra, ecc.) egli non può che confrontarvisi in qualità di partecipante interessato e coinvolto; i luoghi, i colori, gli esseri che li abitano e le forze che li plasmano, rivelano qualcosa di noi che va oltre di noi, rievocano ricordi e memorie, sono veicoli di storie e della Storia, parte attiva e integrante della nostra vita, di quella dell’Uomo e degli uomini allo stesso tempo; è per questo che anche se si tratta di un libro in cui l’elemento ambientale è ampiamente preponderante, il titolo di «Antropologia» è assolutamente adatto. Ne l’Antropologia del turchese Meloy racconta di un mondo in cui l’Uomo, e le sue manifestazioni socioculturali, sono parte dell’ambiente tanto quanto i deserti di Sonora e Mohave, le lucertole che li abitano, gli arbusti di bear clover che li puntellano, le fredde notti stellate che li elevano al rango di luoghi magici.

Troviamo immediata conferma in uno degli interrogativi che l’autrice si pone nel primo dei saggi che compongono l’opera, dal titolo Azioni e passioni della luce, che racconta dell’inverno passato da Meloy sull’Altopiano del Colorado:

«Qual è il prezzo da pagare per abitare una determinata geografia, accorciare la distanza fra occhio e bellezza, trasformare il mondo visibile in istinto?»

S’intravede l’obiettivo conciliante, lo slancio nella ricerca di un metodo, o di una facoltà, per riunificare effettivamente l’uomo al luogo, per creare un sostrato comune ove l’Abramo autoesiliato possa tornare a confrontarsi con Gaia inviperita in qualità di soggetti alla pari, o ancor meglio, come un unico soggetto (trasformare il mondo visibile in istinto). La ricerca è dunque antropologica, ma si tratta di un’antropologia molto particolare; il ruolo dell’anthropos non è egemonico come vorrebbe la tradizione. Egli non è che un elemento fra la miriade di altri esseri ed entità che instancabilmente concorrono alla creazione del mondo, di ogni mondo, incluso quello della cultura umana, gelosamente custodito entro le barriere del riduzionismo durante gli ultimi tre secoli abbondanti.

Meloy delinea così una sorta di antropologia ecologica, intesa come un’antropologia che fonda sull’ôikos – la casa comune ove gli esseri convivono attivamente – il proprio logos, il proprio criterio di ricerca e forza creatrice. Viene in mente il motto della filosofia della complessità, per il quale «non esistono enti, ma solo relazioni».

Tale approccio è in grado di restituire un orizzonte che supera la prospettiva antropologica classica, dotando di vita e volontà tutto ciò che viene di norma considerato come poco più che una scenografia – la cosiddetta “Natura” – e arricchendo di conseguenza l’affresco dell’esperienza umana di infiniti colori inediti e brillanti, di cui il turchese è senz’altro il principe. Ma occorre fare un passo alla volta.

Qual è il metodo, il criterio, la facoltà, che può accorciare la distanza fra occhio e bellezza?

Rintracciamo due indizi potenzialmente decisivi sia nei contenuti del libro, che nella forma architettata da Meloy per esprimerli. Nel caso dei primi, anche quando a essere raccontati sono episodi e ricordi personali o rievocazioni storiche e sociali, siamo costantemente alle prese con iper-dettagliate descrizioni di luoghi; dalle roboanti forze geologiche che ne hanno causato la genesi, passando per gli esseri che li abitano, fino ai più minuti particolari di ciò che li compone; come quando, per esempio, veniamo informati che nel deserto «Ciascun ciottolo è rivestito di una patina lucida lasciata dal vento e dall’acqua, detta “vernice del deserto”».

Siamo di fronte a un riuscitissimo esempio di scrittura sinestesica; le informazioni percettive travolgono il lettore con la forza bruta, spontanea ed elegante che potrebbe avere una valanga nel suo incedere verso valle. Così ci viene descritto il tramonto di un solstizio d’estate contemplato dalle montagne della California:

«Il sole in procinto di tramontare getta ombre oblique su ogni risvolto delle dune sabbiose fino a farne un mare di malva e ruggine. I boccioli di primula della sera stanno per schiudersi. I sepali allenteranno la presa, e nella penombra si srotoleranno gli ampi petali. Accadrà tutto con una tale lentezza che non riuscirò nemmeno a percepire il movimento. Poi di colpo mi ritroverò immersa in un lago rosso invaso di farfalle bianche. Per ora nell’aria si percepisce una sottile fragranza, una presenza muta abbandonata sul posto da una brezza leggera.»

Sono dunque i sensi l’elemento chiave da cui partire per comprendere l’antropologia proposta da Meloy. Messi davanti all’ancestrale potenza del Luogo, non abbiamo che il nostro apparato percettivo per sintonizzarci con il linguaggio dirompente che da esso si profonde in tutte le direzioni. Un linguaggio che si sostanzia di odori, sapori, rumori e, soprattutto, colori. Così, anche solo una breve passeggiata nei dintorni di casa propria – una solitaria villetta «in una minuscola cittadina dello Utah meridionale, nel cuore di un immenso deserto» – diventa per Meloy un’occasione per tendere i sensi e mettersi in ascolto:

«Che la vista cospiri con altri sensi in una sorta di processo sinestetico, reagendo ai colori di un luogo come se fossero odori o sapori, oggetti tangibili o rumori? Mentre esploro i dintorni della mia casa nel deserto la foglia gialla di un pioppo mi punge la lingua come limone, gli argini indaco e rame del

fiume in ombra mi sfiorano la pelle con l’irruenza di un giovane vento. Che sia nel chiarore prismatico del mattino o nelle rivelazioni ingannevoli della luna, questi globi di sangue e nervi riescono in un modo o nell’altro a intuire che la luce è la lingua in cui il deserto si esprime».

La luce è complice dei sensi; il nostro ricevere il dato percettivo tramite l’occhio sorge in concomitanza al dato stesso, non c’è separazione tra l’uno e l’altro. Il Luogo allora, sempre vivo e variopinto conglomerato ecosistemico, diviene, nell’incontro con quella che Meloy chiama la nostra Intelligenza Sensoriale, catalizzatore della riflessione, della Storia, delle storie e del ricordo, nonché della nostra stessa esistenza, della cultura, dell’antropologia propriamente detta.

Nulla più del colore riattiva questo circuito perduto, niente quanto l’abbaglio suscitato dalle distese di terra rossa puntellate da cespugli giallo-verdi sotto un’infinita cupola azzurra, risveglia il legame sopito fra l’Uomo e il Luogo. È il colore, in sintesi, «a farci sentire a casa in luoghi simili, a darci l’impressione che il mondo non sia poi così grande».

Nel libro allora ogni escursione, ogni viaggio intrapreso alla ricerca di un antenato o di una vecchia mulattiera, ogni discesa del fiume in canotto e ogni trekking fra i sentieri riarsi dal sole in Texas o Arizona, ogni incontro con un albero particolarmente raro, un rudere di un tempo antico, o una famigliola di picchi del deserto, è un’opportunità unica per accedere allo spirito di quei luoghi; lo stesso spirito che anima gli uomini che in quei luoghi, in tutti i luoghi, vivono, soffrono, gioiscono e muoiono. Insieme ai luoghi, non semplicemente nei luoghi.

Questa particolare dinamica dona inaspettata e attuale reviviscenza alla teoria dell’occasionalismo elaborata da Nicholas Malebranche sul finire del XVII secolo; se per il monaco francese è l’efficacia della volontà di Dio a permettere alle cause occasionali esteriori di avere effetto sulla nostra anima, generando conoscenza, per Meloy è la fusione fra gli enti esterni e l’apparato sensoriale umano a garantire il medesimo risultato.

Così, il tour in macchina della California raccontato in Attraversare il Mojave a nuoto assume man mano la forma di un racconto autobiografico, che si intreccia con vecchie storie di famiglia e traumi giovanili insoluti. Il lungo periodo trascorso su un isolotto delle Out Islands nell’arcipelago delle Bahamas, affrontato solo per «la promessa di pace che pervade la luce equatoriale e i suoi colori» e narrato in Heron Bay, dischiude ampie riflessioni sul passato colonialista europeo, sul genocidio e lo sfruttamento subito dalle terre e dai popoli colonizzati, e sulle possibili vie di redenzione per il futuro. O ancora, ne I Jeans di Tilano, il viaggio fra le aspre terre della riserva Navajo, adiacente alla contea sperduta dove Meloy viveva con il marito, diventa un racconto sulla donna e il femminismo; le storie delle donne indigene si intrecciano con quelle delle successive occupatrici delle stesse terre, trasformando queste ultime nel veicolo perfetto per una riflessione sul linguaggio femminista, sui meriti del movimento e sui suoi errori.

La cifra comune è quella stessa Intelligenza Sensoriale individuata in precedenza; è sempre l’incontro fra il linguaggio del mondo e i nostri sensi a spalancare le porte alla riflessione, al ricordo, alla messa in discussione, alla critica storica, alla significazione della vita e delle esistenze passate, presenti e future. I temi che Meloy affronta applicando questo metodo sono innumerevoli e coinvolgenti, e l’autrice li scandaglia esattamente come esplora i luoghi da cui essi vengono suscitati. Ancora di più, è tramite l’esplorazione dei deserti, delle foreste, dei Canyon, delle coste affacciate sul mare turchese, dei percorsi in alta montagna, che è possibile accedere alla dimensione antropologica carteggiata dall’autrice, come una mappa ben dettagliata. Poiché «proprio come le mappe, il punto focale di un certo luogo riunisce terra, cielo ed esperienza umana».

Ed è qui che possiamo muovere un ulteriore passo avanti nella nostra disanima, e scoperchiare lo scrigno che custodisce il contributo forse più significativo nascosto fra le righe dell’Antropologia.

Perché il libro si delinea come un’unica perlustrazione, lunga quanto una vita, delle innumerevoli occasioni che scaturiscono dai luoghi, e il lettore gioirà nell’essere trasportato da Meloy in alcuni dei paesaggi più spettacolari della Terra, per poi scoprire di non aver mosso un passo dagli anfratti del proprio essere; ma il concetto di Intelligenza Sensoriale ha delle ripercussioni ancora più profonde. Ne ha in particolare sulla visione del modo in cui l’Uomo si rapporta al Luogo, e più in generale a ciò che esiste fuori da sé. Nel linguaggio meloyano però, come abbiamo rilevato finora, rapportarsi al luogo tramite i sensi, fino a fondervisi, equivale a conoscere quel determinato luogo.

Tramite l’Intelligenza Sensoriale insomma, Meloy finisce col delineare una vera e propria Filosofia della Conoscenza, relativa tanto al come l’uomo conosce, quanto al cosa conosce.

Uno dei più noti e influenti rappresentanti dell’Empirismo Filosofico, corrente che si sviluppò prevalentemente nell’attuale Regno Unito durante il XVIII secolo, fu George Berkley. Il nodo cruciale della teoria empirica, in rottura con la corrente razionalista facente capo a Cartesio, è che tutta la conoscenza deriva dai sensi, non esistono idee innate e non ci sono certezze ultime e verità assolute. L’assioma assurto a sintesi del pensiero di Berkley, e a manifesto dell’intero sistema filosofico empirista, è «Esse est percipi», ovvero «Essere è essere percepito».

Non si faticherà a rintracciare la medesima tesi nelle parole della Meloy, quando in Guida pratica all’intraprendenza sessuale dichiara accoratamente che «una vita trascorsa senza avere accesso alla percezione» equivale a «rinunciare al diritto di fare esperienza dell’esistenza».

L’intento non è giudicare la giustezza o la veridicità della conoscenza che otteniamo per via dei sensi, né tanto meno la sua aderenza a un supposto quid reale che esisterebbe indipendentemente da chi osserva; si tratta piuttosto di accettare che la via sensoriale è l’unica di cui disponiamo per ottenere conoscenza del mondo, al fine di appurarne i limiti e maneggiarla al meglio.

Anche Immanuel Kant si pose il quesito dei limiti della conoscenza umana; nella Critica del Giudizio troviamo materiale prezioso per proseguire la nostra ermeneutica dell’Antropologia del turchese. In essa il filosofo tedesco affronta un tema che, anche se mai nominato direttamente, riveste un ruolo di primaria importanza anche per Meloy: il sentimento del sublime.

Dichiarazioni d’amore incondizionato verso la magnificente bellezza dei luoghi ove la scrittrice ha trascorso la vita si susseguono lungo tutto l’opera; elegie all’acqua azzurrina e alle rocce color turchese, odi agli ostili e sterminati paesaggi del deserto, tributi agli sgargianti colori mostrati dai fiori. Ma in certi passaggi sembra emergere qualcosa di più della semplice ammirazione, una strana e inspiegabile inquietudine accompagna i più intensi momenti di contemplazione, di fronte agli scorci più potenti e incontaminati.

Per Kant l’animo umano posto di fronte al sublime «non è semplicemente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto» (Critica del Giudizio, Laterza, 2020, p. 61). È quando procede all’analisi del sublime nella natura però, che Kant ne delinea ancora più chiaramente i connotati: «Le rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lasciano dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta di un grande fiume etc., riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole» (Ivi, p. 195 – corsivo mio).

Siamo di fronte a un sentimento della stessa specie quando la Nostra afferma con decisione: «Il deserto sottolinea la smisuratezza dell’universo rispetto al singolo. Il deserto è un luogo spaventoso per l’essere umano che non sia disposto a sentirsi piccolo e insignificante (ovvero esattamente ciò che è)» (corsivo mio).

O quando, raccontando di un campeggio solitario lungo un remoto ruscello, confessa che «nulla esercitava su di me il medesimo fascino di quei corsi d’acqua, nella foresta di sequoie o negli immediati dintorni. La loro era una bellezza talmente maestosa da suscitare uno stupore che sconfinava quasi nel dolore.» (corsivo mio)

I momenti più intensi dell’opera sono quasi sempre accompagnati da formule di questo tipo; è come se giungere all’apice della fusione percettiva con il luogo comporti sempre anche un certo carico di agitazione, di spaesamento. Come se la meraviglia possa sorgere solo in concomitanza all’incertezza, all’immediata comprensione dell’impossibilità di una conoscenza totale.

Queste sono le estreme conseguenze dell’Intelligenza Sensoriale; essa ci permette di rapportarci al mondo e, spinta al limite estremo della sua potenza, finisce col condurci di fronte al sentimento del sublime, con l’incassarci all’interno del sublime. Sembra colmarsi così la distanza fra l’occhio e la bellezza, il mondo visibile pare farsi finalmente istinto.

«Per me il legame fra l’io e un luogo non è conscio – nulla può la ragione, in questo senso – ma esclusivamente sensoriale. Istinto e confidenza sono la nostra unica bussola, il fiume celebra ciò che noi non sappiamo più celebrare: il nostro spirito, l’eternità che è di tutte le cose».

È proprio quest’eternità però, che genera uno scarto inesauribile; a livello conoscitivo, il sublime è il muro finale, la barriera oltre cui anche solo affacciarsi genera timori e vertigini. È l’incommensurabile che irrompe.

Anche nell’analisi di Kant le conclusioni sono simili: «La natura, dunque, è sublime in quei suoi fenomeni, la cui intuizione include l’idea della sua infinità. La qual cosa non può avvenire se non mediante l’insufficienza anche del più grande sforzo della nostra immaginazione, nella valutazione della grandezza di un oggetto» (p. 181).

Un oggetto come, ad esempio, il Grand Canyon, il fiume Colorado, il deserto del Mojave, o un antico monile turchese.

Perché è proprio il turchese a incarnare pienamente il concetto del sublime nella molteplicità delle sue sfaccettature; un colore raro, che da sempre affascina l’uomo, a prescindere dall’epoca e della cultura; un colore che necessita di condizioni estremamente particolari per generarsi geologicamente, e che esiste solo in qualità di iato evanescente in tutto ciò che non è roccia; il cielo, l’acqua, i riflessi di luce. Il turchese appare lì dove l’essere sembra transitare, mostrandosi ai sensi nella sua enigmatica e traspirante lucentezza, per un unico istante, prima di diventare qualcos’altro. Un istante di stupore e inquietudine. Si tratta, in sostanza, del «colore del desiderio doloroso, il colore che combina la tensione spiraleggiante del verde e la seducente pace dell’azzurro» (corsivo mio).

O in altre parole, il colore del sublime.

A questo punto si apre però un ultimo interrogativo, su cui è necessaria una riflessione.

L’Intelligenza Sensoriale, se usata al massimo delle sue possibilità, come Meloy ha fatto fino alla prematura morte avvenuta nel 2004, può condurre dritti fino al confine della conoscenza umana: il sublime. Qui, nella contemplazione percettiva, meraviglia e stupore si mischiano a inquietudine e timore, di fronte alla sconfinata totalità della natura che stimola e agita l’animo.

«Questo paradiso che rifugge le parole appartiene di diritto al regno dei sensi. I suoi colori obbediscono a un imperativo di pura estasi visiva».

Eppure il sentimento finale lasciatomi dalla lettura dell’Antropologia somiglia a qualcosa di diverso, tanto dalla meraviglia quanto dall’inquieta agitazione. Il sapore rimasto in bocca una volta chiuso il libro è stato quello della rassegnazione: com’è possibile?

La risposta è, ahinoi, tanto ovvia quanto tragica.

Il naturalismo di Meloy non è neutrale, è realista, schierato; non poteva certo sfuggirle l’immane e pressocché onnipresente devastazione a cui è sottoposta la Terra.

In ognuno degli scritti in cui l’opera è suddivisa è lasciato ampio spazio alla straziante rovina subita da ogni Luogo (vivo e variopinto conglomerato ecosistemico), a causa della famigerata economia capitalista, consumista, sfruttatrice, estrattivista… e così via. Una distruzione che, per quanto positivo potesse essere lo spirito della scrittrice, appariva come senza rimedio già durante i decenni della sua attività; perché mai sazia appariva – e appare – la fame dell’Uomo; di quell’Uomo che non usa la sua Intelligenza Sensoriale.

«Le parole utilizzate conferiscono al racconto della natura un’aura di nostalgica rassegnazione: nessun paesaggio è immune e tutto ciò che di selvaggio esisteva un tempo è ormai irrimediabilmente compromesso».

La paradossale ironia qui è che proprio alcune delle riflessioni kantiane sul sublime costituiscono le fondamenta concettuali su cui si è costruito l’edificio della modernità, sorto grazie a tale abominevole distruzione.

Kant sostiene che le cose sublimi, pur svelando la nostra limitatezza, «ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con l’apparente onnipotenza della natura» (Critica del giudizio, p. 195). Il sublime, di fronte al quale si schiantano le possibilità di una conoscenza che abbracci la totalità della natura, è anche il sentimento di fronte al quale troviamo «nel nostro animo una superiorità sulla natura considerata anche nella sua immensità» (Ibidem).

È in virtù di questi presupposti che la civiltà occidentale ha infine messo da parte l’Intelligenza Sensoriale, in favore di questa nuova facoltà, dell’inedito sentimento di superiorità rispetto all’interezza del mondo. Superiorità sfociata, in meno di tre secoli, nel peggior disastro ascrivibile al bipede dal grosso cervello.

Tutto ciò era perfettamente chiaro a Meloy, che proprio nell’abbandono dell’Intelligenza Sensoriale rintraccia le cause della catastrofe ambientale, che oggi vediamo categoricamente palesatasi nel Cambiamento Climatico:

«Ciascuno di noi possiede dentro di sé cinque, imprescindibili e misteriose bussole per esplorare il mondo naturale: vista, tatto, gusto, udito, olfatto. Recidendo i fili che ci legano alla natura, distratti da informazioni e immagini, sepolti dal caos assordante, smettiamo di ascoltare la nostra intelligenza sensoriale. Questa mancata attenzione ci renderà tutti orfani».

È allora del tutto comprensibile che L’Antropologia del turchese, inno al mondo naturale e ardito tentativo di ristrutturare il ponte fra questo e l’Uomo, di fronte al massacro in atto non possa che lasciare una nota di amarezza e rassegnazione:

«Siamo condannati a una carestia metafisica, impegnati come siamo a rinunciare all’intelligenza sensoriale in favore della tecnologia e del progresso».

Ma non tutto è perduto; perché per quanto possa ancora prosperare l’idea di una separazione reale fra uomo e ambiente o fra natura e cultura, tale idea, che continuerà a causare immani tragedie, resterà nient’altro che un’illusione. L’Antropologia del turchese è un egregio – sublime verrebbe da dire – tentativo di smascherare questa illusione, con nient’altro che la sinergia dei nostri sensi a guidarci dentro i vivi colori del mondo.

Come la Nostra, ci aggrappiamo alla speranza che «ci vorrà del tempo prima che questi sensi vecchi di milioni di anni si atrofizzino» e che magari, prima di quel momento, avremo ripreso a maneggiarli in maniera libera e intelligente.

Così ha fatto Ellen Meloy per tutta la sua vita.

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