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Le donne si dividono in due grandi fazioni: «quelle che contemplano la possibilità di abdicare alla loro libertà e di immolarsi sull’altare della conservazione della specie, e quelle disposte ad accettare lo stigma familiare e sociale pur di preservare la propria autonomia». O almeno così la pensa Laura, protagonista e voce narrante del romanzo La figlia unica firmato dalla messicana Guadalupe Nettel (La Nuova Frontiera, 2020, traduzione di Federica Niola). Anche Alina, la migliore amica di Laura, sembra essere dello stesso avviso; finché non cambia idea e decide di avere un figlio con il compagno Aurelio. Pur temendo che la decisione possa tracciare un «confine invisibile» tra di loro, Laura è consapevole che esistono esseri senza i quali non riusciremmo neanche a concepire la nostra esistenza. E per lei Alina è una di questi esseri speciali.

«Quanto più amiamo una persona, tanto più fragili e insicuri ci sentiamo a causa sua. Ho capito quanto fosse importante la presenza di Alina nella mia vita».

Nonostante le sue convinzioni, decide così di non «combattere contro la gioia» dell’amica e le rimane accanto nel percorso di concepimento tramite fecondazione assistita e nei primi mesi di gravidanza, segnati dall’attesa gioiosa di una bambina che pure nascerà in un Messico dove ogni giorno nove donne muoiono assassinate per ragioni di genere. Le rimane accanto, e il lettore con lei, soprattutto quando per Alina cambia tutto: la bambina, Inés, ha una grave malformazione al cervello e pochissime possibilità di sopravvivere dopo la separazione dalla madre:

«Nello stesso giorno Alina e Aurelio avrebbero accolto la loro figlia e ne sarebbero stati privati».

Così inizia per la coppia un conto alla rovescia scandito da tappe spaventose: al posto della culla c’è una tomba, si smantella la cameretta della piccola, ci si prepara a una nascita che è già morte. Eppure Inés, una volta venuta al mondo, non appare intenzionata a lasciarlo tanto presto, a dispetto delle sue condizioni disperate che comunque (prima o poi) le saranno fatali. Ma intanto questa figlia unica, una creatura fragile che però reca in sé quell’unicità che rende irripetibile e singolare ogni essere, obbliga i genitori a un nuovo processo di apprendimento e di coesistenza con una nuova vita che non è solo quella della neonata, ma anche la loro: «Una vita ancora tutta da inventare».

Nel frattempo, anche Laura si ritrova ad accogliere nuove, inaspettate vite; come quella di Doris, la sua vicina di casa, una giovane madre rimasta vedova dopo la morte del marito violento, schiacciata dalla depressione e dai sensi di colpa. Si è quasi pentita di aver messo al mondo il figlio Nicolás, un ragazzino preda di furibondi attacchi d’ira e apparentemente ingestibile. Sulle prime infastidita, Laura decide in seguito di ascoltare i gemiti e le urla del piccolo la cui «infelicità filtrava attraverso la parete, come fa l’umidità nella stagione delle piogge». A poco a poco si avvicina ai due, arriva conoscerli e a farsi strada nell’involucro di sofferenza che formano. Cova paziente l’uovo che li ingloba, finché entrambi non si sentiranno pronti al momento della schiusa.

Proprio come i piccioni che nidificano sul suo balcone e che si prendono cura di un uovo di cuculo in virtù di quel fenomeno che prende il nome di “parassitismo di cova”. La femmina del cuculo si rifiuta di allevare la prole e attraverso vari stratagemmi lascia che siano altri uccelli a farlo. È possibile che la famiglia di piccioni non si accorga dell’intruso? Che accetti semplicemente di assisterlo? Se la prima domanda rimane aperta, alla seconda possiamo rispondere con certezza: sì, lo accolgono e si occupano di quell’uovo estraneo come se fosse sempre appartenuto a loro.

Intorno a Laura e Alina orbitano altre due figure femminili, che incarnano ulteriori tipologie di relazione. C’è Marlene, la bambinaia che non può avere figli e che s’innamora della piccola Inés in maniera viscerale, animata tuttavia da quell’amore «lieve e insieme intenso di chi non è costretto a rimanere». E poi c’è la madre di Laura, che non approva e giudica le scelte della figlia (temendone a sua volta il giudizio), eppure aiuta le altre donne unendosi a un gruppo femminista chiamato, non a caso, l’Alveare.

Una delle cifre narrative caratterizzanti la prosa di Nettel è proprio il parallelo col mondo animale. Già nella raccolta di racconti Bestiario sentimentale (La Nuova Frontiera, 2018, traduzione di Federica Niola) gli animali diventano metafora e insieme strumento di analisi dei rapporti umani. In natura è possibile affidare il proprio uovo a un altro nido, così com’è possibile che una neonata destinata alla morte decida di vivere smentendo ogni pronostico scientifico, di far saltare i piani e di fornire una nuova prospettiva a quella che non è tanto una lotta per la sopravvivenza, quanto piuttosto un apprendistato alla convivenza, un itinerario verso l’accettazione, che trova nuova sostanza nelle tante maniere inesplorate in cui è possibile prendersi cura delle persone. Figli, figli degli altri, amici, genitori: esiste un tipo di convivenza attiva, che presuppone la scelta consapevole di occupare e animare insieme uno stesso luogo, fisico ed esistenziale, e che passa anche dallo sforzo di comprendere ciò che d’impulso si ritiene inaccettabile, aprendosi alla possibilità di rinvenire un significato inedito nelle «cose che ci tocca vivere». E si finisce così per imparare.

Tra gli intenti di Nettel, che per il romanzo si è ispirata alla storia vera di una cara amica, c’è anche quello di liberare la maternità dallo stigma sociale; scardinare quell’idea stantia che la vorrebbe solo come un periodo dorato o come una missione, restituendole uno status più sfaccettato fatto anche di esitazioni, di dubbi, di cambiamenti. E tra le opzioni percorribili c’è anche il rifiuto della maternità. Come ha dichiarato la stessa autrice in un’intervista, la donna che sceglie di non essere madre viene automaticamente collocata ai margini: deve aver subito un trauma, nascondere un difetto di fabbrica da qualche parte. Perché invece non vedere questa decisione come qualcosa di altrettanto naturale? È anche per questo motivo che la scrittrice attinge ai fenomeni del regno animale, inteso come massimo modello di diversità, che non contempla una divisione netta tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Dall’osservazione del comportamento degli animali si traggono le dimostrazioni più variegate in tal senso. Ci sono femmine che si prendono cura dei loro figli in gruppo, famiglie formate dai soli padri, esistono specie trans. E d’altronde, anche «noi abbiamo sempre accudito i figli delle altre, e altre donne ci hanno aiutato ad accudire i nostri figli». A ben vedere, quello di maternità è un concetto molto più permeabile ed elastico di come viene tradizionalmente concepito, che si presta a molteplici sfumature e declinazioni. Perché «todo es natural y todo existe».

L’autrice delinea così una sorta d’inventario della cura. E se è vero che l’accudimento è parte integrante e primordiale dell’essere madre, è anche vero che non è necessario avere le stesse piume o la stessa pelle per sentir germogliare dentro di sé l’istinto e la volontà di proteggere un altro individuo, di farlo crescere e di vederlo vivere. Ma si va oltre: è possibile tradurre e concretizzare questa spinta in una pluralità di rapporti tutti legittimi e ugualmente preziosi.

Guadalupe Nettel ricorre a una prosa elegante, mai eccessiva, in cui le parole vengono selezionate e disposte sulla pagina con precisione cristallina e con grazia. Al contempo, evita infingimenti e edulcorazioni, in particolare nelle pagine che raccontano la malattia e la morte. Quasi a voler sottolineare tramite la scrittura che il verificarsi di alcune circostanze (che sulle prime sembrerebbero sovvertire l’ordine abituale delle cose) è in realtà connaturato alla nostra esistenza più di quanto non s’immagini. E quando si dispone delle parole per nominare e descrivere anche gli eventi più indicibili, allora si dispone anche delle risorse per visualizzarli, sviscerarli e in ultimo decidere come affrontarli.

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