«Comunemente si crede che nelle società “primitive” un alto e profondo livello di comunicazione, che lo straordinario potere chimico di queste piante favorisce, debba essere considerato essenziale per il benessere dell’individuo e della comunità»
(Peter T. Furst, Allucinogeni e cultura, Cesco Ciapanna Editore, 1981 – corsivo mio).
Nel corso del 2021 questo brano – nella sua traduzione italiana – compirà quarant’anni, l’autore ben novantanove.
La scelta di aprire la mia riflessione a proposito de La scommessa psichedelica (Quodlibet, 2020) con uno stralcio così datato, nonostante l’abbondante pubblicazione di titoli molto più recenti, non si spiega tuttavia unicamente con la volontà di tributare il venerando Peter Furst, antropologo e grande studioso delle piante psicoattive, né Cesco Ciapanna, il bistrattato editore del suo capolavoro in Italia, Allucinogeni e cultura.
Il motivo è che in esso troviamo fissate con accuratezza le caratteristiche peculiari, che Furst definisce come «metaculturali», non tanto di cosa le piante psicotrope – e le sostanze psichedeliche – sono, ma, più precisamente, di ciò che esse fanno, in combutta con gli uomini che le assumono. Tali caratteristiche risulteranno fondamentali per l’architettura della riflessione che si proverà a sviluppare.
Esse vengono attualizzate ne La scommessa psichedelica, dove sono declinate secondo il linguaggio contemporaneo, ed esplorate nel vasto spettro delle loro possibili applicazioni, che oggi la società industriale dell’occidente sta scoprendo. O meglio, riscoprendo. Tale processo di riscoperta psichedelica è l’oggetto dell’opera, curata da Federico Di Vita, che ha raccolto attorno alla tavola rotonda psichedelica più di una decina tra scrittori e intellettuali italiani, con l’intento di delineare i tratti di quello che, ormai nel linguaggio comune, viene definito il «Rinascimento Psichedelico»; il risultato è un ricco, vario e argomentato mosaico. Illuminante per il neofita che voglia muovere i primi passi nell’universo psichedelico, utile e stimolante per chi invece sia già avviato allo studio della “disciplina”, per merito soprattutto del carattere al contempo riepilogativo e ragionato che la lettura restituisce. I punti toccati nel libro sono molteplici, e spaziano dalla ricerca scientifica e psichiatrica alla cultura Psytrance e dei festival psichedelici, con tutto quello che può starci in mezzo.
L’esigenza da cui la Scommessa scaturisce è chiara sin dalla Premessa, e si sostanzia nell’urgenza di «cominciare a dire cosa fanno gli psichedelici al mondo in cui viviamo, come lo stanno già trasfigurando e come promettono di farlo nel prossimo futuro». La stessa urgenza che rende impellente la necessità di «andare oltre gli importantissimi risultati scientifici che negli ultimi quindici anni hanno reso possibile l’esistenza stessa del Rinascimento psichedelico».
La parabola storica del rapporto fra la società occidentale e le sostanze psichedeliche, oggi, si trova effettivamente in un momento di risalita, a seguito di quello che di Vita battezza il «Medioevo psichedelico»; si tratta degli anni successivi al ’68, protagonisti di una drastica rottura fra la società e queste sostanze a cui ha fatto seguito un lungo periodo di oblio, specie nei laboratori di ricerca. La preistoria e la storia delle piante psicotrope sono abilmente ricostruite nel primo scritto de La scommessa psichedelica, Breve storia universale della psichedelia, per mano dello stesso Federico di Vita; in particolare, viene approfondito con grande dovizia il periodo che va dal 19 aprile 1943, il Giorno della Bicicletta, quando Albert Hofmann assunse la prima eroica dose di LSD, passando per le strabilianti avventure di Timothy Leary e dell’«Harvard Psychedelic Club», fino, idealmente, alla pubblicazione del libro Come cambiare la tua mente (Adelphi, 2019) di Micheal Pollan, best seller che ha sollevato definitivamente il tema “psichedelia” fino alla sfera dell’informazione mainstream mondiale. Bernardo Parrella, giornalista e traduttore attivo al livello internazionale come studioso delle culture e sub-culture contemporanee, definisce così la fase contemporanea attraversata dal complesso di discipline e studi impegnate nel campo della riscoperta di queste sostanze, nel saggio Rinascimento psichedelico:
«A partire dagli anni ’80, le sostanze allucinogene sono uscite man mano dal ghetto dove le avevano relegate l’oscurantismo legislativo e una classe media più preoccupata dall’uso ricreazionale e dal possibile impatto sociale di tali sostanze, che non dal proseguimento della ricerca farmacologica» (Rinascimento psichedelico, Bernardo Parrella, Le strade bianche, 2017).
È proprio la ripresa massiva, finanziata e organizzata della ricerca farmacologica che ha dato il via al Rinascimento psichedelico. Del resto, una cultura profondamente tecno-scientifica, non poteva che necessitare di un medium parimenti tecno-scientifico per riuscire ad avvicinarsi, timorosa, all’immane potenziale che queste piante e sostanze custodiscono. Più che di una riscoperta, siamo probabilmente di fronte a una traduzione.
I risultati dell’ormai ultra-ventennale rilancio degli studi sulle proprietà benefiche di alcune sostanze psichedeliche (Psilocibina, LSD, MDMA, Ketamina, per citarne alcune) sono condensate in Rompere gli schemi: la cura psichedelica alla depressione ad opera di Ilaria Giannini. Riducendo all’osso, queste sostanze stanno rivelando, tramite il ferreo protocollo scientifico, proprietà formidabili nel trattamento di alcuni disagi psichici, dipendenze e depressioni su tutto, e prospettive di sviluppo tanto ampie da lasciar presagire una rivoluzione nel trattamento di certe patologie nell’intero campo della psicoterapia e della psichiatria. L’autrice esamina le più importanti ricerche nell’ambito della cura psichedelica, sostenendo che esse «per la prima volta hanno posto solide basi scientifiche su cui costruire una medicina psichedelica che possa diffondersi davvero, perché più corazzata contro gli attacchi del passato».
È dunque il successo scientifico e terapeutico ad aver riportato le piante allucinogene al centro dell’attenzione e ad aver innescato il Rinascimento psichedelico; torneremo più avanti sulle criticità e i rischi che la ricerca solleva, specie negli ambiti ad essa strettamente correlati dei finanziamenti, dello sviluppo e del commercio dei farmaci. Seguiamo intanto la vocazione della Scommessa e proviamo a inoltrarci in ciò che va oltre il successo scientifico e le potenzialità mediche, ovvero il “viaggio” psichedelico, la dimensione psichica, interiore e spirituale a cui le piante magiche garantiscono l’accesso; questa, come ben si evince dalla lettura del libro, non può essere separata da quella scientifica e “quantificabile” appena accennata, né potrebbe darsi un vero Rinascimento senza tentare di coglierne il ruolo; ci troveremmo in quel caso privati dell’elemento propriamente psichedelico, ovvero “rivelatore della psiche”, nome coniato dallo psichiatra Humphry Osmond nel 1957, derivato dai termini greci ψυχή «anima, psiche» e δηλόω «manifestare».
Due degli interventi de La scommessa psichedelica affrontano direttamente questo tema: Il trip report come sottogenere della letteratura di viaggio di Peppe Fiore e Piante sacre: ayahuasca, sciamanesimo e coscienza eco-logica di Francesca Matteoni. Esso appare tuttavia in gran parte degli scritti che compongo l’opera, risuonando come una eco che costantemente ricorda al lettore la profondità e la potenza, inquietante e meravigliosa a un tempo, con cui si sta trattando quando si parla di sostanze psichedeliche.
Peppe Fiore si è dedicato alla raccolta di trip report, confezionandone una vera e proprio antologia. Riesce così a restituire una casistica ampia e variegata degli effetti psichici, percettivi, emotivi, cognitivi, ecc.., a cui si può andare incontro assumendo sostanze allucinogene, fuori dall’ambito medico-scientifico. Giochi e alterazioni di suono e colore, distorsione o a-percezione temporale, momenti di profonda lucidità e rivelazione mistico-religiosa, fino a quella che Fiore chiama «la mitologica ego loss», la perdita (o morte, ego death) dell’ego, raggiungibile solo con dosi adeguate. Si tratta della «dissoluzione della coscienza: uno stato parente all’estasi mistica o al nirvana, in cui l’essere fluttua in purezza, fuori dal tempo, fuori dai condizionamenti delle percezioni, della biografia, e del ricordo – dimentico di sé stesso, immobile nel vuoto».
Agognata e temuta, desiderata e respinta, la perdita dell’ego è la pietra filosofale del viaggio psichedelico; qualcosa di simile descrive Francesca Matteoni nel racconto della sua esperienza con l’ayahuasca, miscela di piante amazzoniche dall’ormai celeberrima potenza allucinogena e di guarigione: «Forse il viaggio all’altromondo non è che un’anabasi, un procedere onirico verso l’interno, ponendo fine alla ricerca degli scopi per imparare a stare nella germinazione delle visioni». Sono queste caratteristiche mistico-spirituali – nella “tradizione” inscindibili da quelle curative – che hanno spinto i pionieri del secolo scorso (Richard Evans Schultes, Robert Gordon Wasson, Albert Hofmann, solo per citarne alcuni) a intraprendere viaggi – fisici, ma altrettanto onirici – verso remoti anfratti del pianeta, alla ricerca di popolazioni dagli antichi retaggi dedite l’utilizzo delle piante sacre, per carpirne i segreti e svelarli poi nei laboratori europei. Ancor più importante, è notare come nelle società non industriali siano proprio queste caratteristiche il fulcro dell’utilizzo dei principi psichedelici; tanto che, presso la totalità delle popolazioni “tradizionali” che incorporano nel proprio corpus socio-culturale e religioso l’uso di sostanze allucinogene – la stragrande maggioranza – sia l’assunzione “sistematica” da parte degli sciamani, che quella occasionale di individui “comuni” (riti di passaggio, guarigione, oracoli ecc..) sono minuziosamente ritualizzate, e richiedono una preparazione spesso più dura del viaggio o del rito stesso. Tale processo di approntamento è irrinunciabile per assicurare la buona riuscita del cerimoniale, e l’accesso a quella che Matteoni chiama l’«area altra dell’esperienza», ove lo sciamano (o lo psiconauta) compie il proprio viaggio.
È qui che iniziano le nostre considerazioni.
Possiamo partire dal riconoscimento di una certa povertà spirituale e aridità religiosa che caratterizzano, almeno in parte, lo spirito della società occidentale post- Nietzscheana; la morte di Dio, con il conseguente crollo valoriale ha indotto una veemente, confusa e tecnocratica secolarizzazione di tutti gli aspetti della vita sociale delle persone, operando una drastica cesura con le consuetudini del passato, divenute per lo più “credenze”. Il “vuoto” creatosi a livello esistenziale dalla “perdita del senso”, che la cultura consumista neo-liberale fallisce nel colmare – pur distruggendo il pianeta nel tentativo – sembra oggi alimentare, in diverse fasce sociali, una certa fame spirituale, che Albert Hofmann stesso rimproverava affettuosamente a molti giovani presenti alle sue conferenze durante gli anni ’60, che «pensavano subito a qualcosa di trascendentale, di mistico» costringendolo a fare « sempre molta fatica a riportarli con i piedi per terra» (Il Dio degli acidi. Conversazioni con Albert Hofmann, A. Gnoli e F. Volpi, Bompiani 2003).
Niente di male in tutto ciò; proprio per lo spiccato carattere materialista della nostra società, una sana voglia di quella che Andrea Betti in Perché un Rinascimento non si faccia Restaurazione chiama «liberazione cognitiva», la riconnessione interiore con quell’«area altra dell’esperienza» ormai da troppo tempo negataci, risulta assolutamente legittima, oltre che auspicabile. Eppure, come Betti stesso sottolinea, bisogna fare molta attenzione, affinché tale processo di liberazione e, potremmo dire, di riappropriazione-dello-spirito non venga inquinato da forze interferenti il cui unico scopo è il successo individuale, trasformando il Rinascimento Psichedelico in un «clubbettino d’élite», o, peggio, il profitto, degradandolo a mangiatoia. Occorre quindi essere entusiasti, ma non lasciare che sia unicamente l’entusiasmo a guidarci. È per questo che, a parere di chi scrive, quella Psichedelica non può essere solo una scommessa.
Certo, come sosteneva il filosofo e matematico seicentesco Blaise Pascal, scommettere su qualcosa che pare indubbiamente positivo, Dio nel suo caso, è certamente conveniente: anche se dovessimo perdere, una vita di fede entusiasta sarebbe senz’altro la più preferibile delle esistenze. Però, e qui sta il nodo della questione, il presupposto dell’intero ragionamento di Pascal è che si scommette su Dio perché è ciò che non si può conoscere, e quindi tanto meno “controllare”: «Se c’è un Dio, è infinitamente incomprensibile», e noi «siamo dunque incapaci di sapere né che cosa è, né se c’è» (Pensieri. Antologia dei testi filosofici, Blaise Pascal, a cura de Il Giardino dei pensieri, 2013).
Scommettere, sperare che le cose vadano bene, non è abbastanza per le piante psicotrope e il bagaglio di potenzialità e cambiamento che trasportano; il rischio di agire come se un democratico ed equilibrato “innesto” delle sostanze allucinogene nella nostra società possa avvenire automaticamente (ovvero: agire come se non si conoscesse) è quello di assistere a una normalizzazione dell’intero asset (termine scelto non a caso) psichedelico, con un suo conseguente inglobamento nelle logiche del mercato, del consumismo, e dell’edonismo individualista; rischi che, ad ogni modo, sono ben evidenziati fra le pagine de La scommessa psichedelica.
La realtà fattuale del potenziale degenerativo del lobbismo rispetto alle sostanze psicotrope è mappata con abbondanza di dettagli da Agnese Codignola ne L’antidepressivo di Trump, dove vengono svelate le sudice macchinazioni già in atto per assicurarsi i grossi profitti possibilmente provenienti dalla nuova branca farmaceutica che le sostanze psichedeliche stanno spalancando, lasciando presagire scenari in cui il controllo dei principi psichedelici nelle mani “sbagliate” potrebbe procurare molti più danni che benefici. Carlo Mazza Galanti, da parte sua, individua il possibile, nefasto sbocco a cui tale paventato inglobamento potrebbe condurre, se non ostacolato, in Fantadroghe e pseudorealtà. A suo condivisibile parere, ci troveremmo «da una parte uno spiritualismo sempre più intriso di cultura aziendalista e valori tardocapitalistici come quello della new age; dall’altra una dissipazione insultante e punk». Bisogna insomma riconoscere che se l’obiettivo del Rinascimento vuole essere un’integrazione positiva, un dispiegamento popolare (nel senso radicale del termine) delle potenzialità psichedeliche, finalizzato a dare un contributo significativo all’impellente ristrutturazione generale a cui la nostra cultura deve essere sottoposta, allora bisognerà lottare, poiché le forze che oggi dominano ogni aspetto della nostra vita e di quella del Pianeta, stanno già affondando gli artigli nel succoso frutto psichedelico. Così si esprime a proposito Vanni Santoni in Medicina per il mondo… o per i mercati?
«Se la cultura capitalista dominante è ormai una minaccia per la stessa vita sulla terra, come si può presumere che faccia buon uso di qualcosa che tende naturalmente a metterla in discussione? È logico, allora, pensare che a una legalizzazione degli psichedelici in chiave commerciale corrisponderebbe una loro “addomesticazione” volta a disinnescarne il potenziale di acceleratore politico».
È alla luce di questa consapevolezza che assumono particolare importanza le conclusioni a cui Santoni stesso giunge nel medesimo scritto: «il senso delle sostanze, lungi dall’essere dato una volta per tutte, è un terreno di contesa tra discorsi e pratiche antagoniste». Questo punto fondamentale è affrontato da Edoardo Camurri in Gnosticismo acido, titolo che vuole tributare Mark Fisher e il suo Acid Communism, citato più volte nello scritto. Camurri descrive con originale lucidità e spirito combattivo quella che, a tutti gli effetti, è «una guerra spirituale che – con sprezzo dell’ingenuità – potremmo definire come una battaglia tra le forze dell’apertura e le forze della chiusura».
Siamo d’accordo con lui, l’immagine di uno scontro fra due compagini compatte pecca d’ingenuità, ma il ricorso all’archetipo del conflitto rende tuttavia in modo immediato la necessità cui ci troviamo di fronte: parteggiare, scegliere, schierarsi; con quei movimenti che lottano per l’emancipazione tanto delle sostanze psichedeliche quanto dello spazio politico in cui disporne, come sottolinea Marco Cappato nel suo intervento Psichedelia e politica.
Come possiamo, allora, fare in modo che a vincere siano le forze dell’apertura?
Per provare a rintracciare la difficile risposta ci affideremo alla massima del filosofo napoletano Gianbattista Vico, per cui «il criterio e la regola del vero consiste nell’averlo fatto», rivolgendoci dunque alla storia; a ben vedere uno scontro di tal fatta è già avvenuto, nel recentissimo passato. Si tratta ovviamente del già citato periodo del ’68, quando la voglia di rottura con il sistema culturale dominante sfociò in un complesso mix di movimenti di protesta e lotta radicale, presso cui gli psichedelici ebbero un ruolo centrale, come raccontato a più riprese ne La scommessa psichedelica. Sappiamo tutti, purtroppo, come è andato a finire il prequel della pellicola di cui ci troviamo oggi protagonisti; Slavoj Žižek, in Dalla tragedia alla farsa, individua la causa del fallimento del ’68 nella degradazione subita dalla scintilla di lotta “dura” che ne distinse le prime fasi – il «Maggio ’68» – in quello che nomina il successivo, annacquato, «spirito del ’68»:
«Mentre il Maggio del ’68 mirava a un’attività totale (e totalmente politicizzata), lo “spirito del ’68” ha trasposto questo scopo in una pseudo-attività depoliticizzata (nuovi stili di vita ecc.), la forma stessa della passività sociale» (Dalla tragedia alla farsa, Ponte alle Grazie, 2010)
Tale degenerazione disinnescante del reale potenziale degli psichedelici e dei movimenti politici loro affini è localizzata con grade lucidità da un novantunenne Albert Hofmann, durante una delle ultime interviste concesse, nel 1997, ad Antonio Gnoli e Franco Volpi, e pubblicata nel già citato Il Dio degli acidi: «L’allarme scattò perché il consumo di LSD si era diffuso tra i movimenti di opposizione e si era creata l’alleanza tra la nuova sinistra e il movimento psichedelico. L’LSD fu dichiarata sostanza proibita e ne furono vietati sia la produzione sia il consumo».
Una sconfitta totale, per l’appunto, una tragedia.
Ma se è vero, come nota ancora Žižek sulla scorta della teoria di Karl Marx, che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa, allora occorre essere ancora più vigili, ancora più critici. Con la “scusa” di una certa liberalizzazione medica, o con la concessione di limitati “permessi” per l’uso personale, potrebbero convincerci di aver vinto vendendoci un sonoro fallimento mascherato da trionfo, con tanto di lustrini e paillettes. Ecco che la domanda a cui stiamo tentando di rispondere – come contribuire alla vittoria delle forze di apertura – può spogliarsi dalla retorica e mostrarsi nella sua concreta crudezza: vogliamo che il potenziale benefico delle sostanze psichedeliche ci aiuti a curare quei disagi psichico/esistenziali più o meno patologici connaturati alla società capitalista? Che si limitino a rendere, in sostanza, meno grave il peso psicosomatico che grava sulle spalle delle schiere di lavoratori/consumatori che ogni giorno si sacrificano al cospetto dell’altare economico, come i docili soggetti addomesticati dal Soma ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley? O siamo forse in grado di immaginare qualcosa di più coraggioso? Un progetto in cui le sostanze psichedeliche, in qualità di alleate millenarie delle specie umana, concorrano a debellare le condizioni socioculturali che rendono possibile – o meglio, obbligata – l’emersione massiva dei suddetti disagi psicosomatici, oltre che di sfruttamento e distruzione in quantità?
Ancora Vanni Santoni, in Medicina per il mondo… o per i mercati?, fissa questo punto con precisione:
«Resta difficile immaginare che gli psichedelici possano portare, da soli, a un ritorno del pensiero rivoluzionario, o anche solo a una soluzione all’empasse politica che attanaglia i progressisti dei nostri tempi: la “vecchia” controcultura psichedelica aspirava letteralmente a smantellare la cultura dominante, intesa come un intero sistema di codici, valori e comportamenti»
È esattamente a tale aspirazione di abbattimento totale della cultura dominante che la causa psichedelica va nuovamente intrecciata. Fallire nel recuperare il suo carattere ontologicamente anti-sistema non ci lascerebbe «altra scelta che l’adattamento al realismo capitalista», come nota amaramente Mark Fisher, citato da Andrea Betti in Perché un Rinascimento non si faccia Restaurazione. Nel tentativo di rintracciare un possibile terreno comune sul quale controcultura psichedelica e lotte di emancipazione intellettuale e politica possano tornare a muoversi in concerto e collaborazione, faremo appello ancora una volta ad Albert Hofmann; a una risposta in particolare fornita durante la già citata intervista, a proposito della necessità di aggiornare i criteri valoriali di base su cui sviluppare la nostra società, dal presente e per l’avvenire:
«Io credo che uno di questi valori innovativi sia la relativizzazione dell’individuo: esso non sarà più in primo piano, ma si sentirà tutt’uno con l’universo. La futura visione del mondo dovrà superare alcuni dualismi dominanti nell’attuale modo di pensare, per esempio la rigida contrapposizione tra soggetto e oggetto, oppure la separazione di spirito e materia, o ancora la problematica spaccatura fra mente e corpo. E sono convinto che sostanze come l’LSD possano avere grande importanza nel trasmettere questo senso d’appartenenza» (Il Dio degli acidi, Cit.).
Quello che Hofmann rimarca è un punto di capitale importanza, e di natura eminentemente filosofica, ancor prima che politica, che ci traghetterà verso la conclusione delle nostre riflessioni; la ego loss, l’estasi psichedelica, la caduta delle barriere egoiche, la sensazione di fondersi con “Il Tutto” per poi tornare in noi arricchiti, non devono, in sostanza, indurci a trasformare il classico Soggetto della tradizione occidentale in una sorta di SuperSoggetto, illuminato finalmente dalle piante magiche, asceso, superiore, separato dalle “bassezze” del mondo materiale, ancora più isolato. Occorre piuttosto sforzarsi di remare con decisione nella direzione opposta, ovvero farsi carico del reale peso che gli effetti psichedelici rappresentano per la nostra concezione stessa dell’essere, in particolare dell’essere umani (soggetti supposti autocoscienti); riconoscere quindi come l’esperienza psichedelica possa condurci non solo a concepire la soggettività anche degli enti che non siamo noi, ma a superare finalmente la dicotomia stessa soggetto/oggetto, permettendoci, piuttosto che di ascendere a sfere superiori dell’essere, di ri-discendere nella concreta rete di relazioni ineludibili di cui è fatta la vita. Ridimensionando così, finalmente a ribasso, l’ostinato mito adamitico dell’Uomo custode del Mondo o detentore del Vero.
Così Chiara Baldini in Tramonto al tempio, sottolinea, con po’ di romanticismo, tale esigenza: «Con l’approssimarsi della catastrofe climatica, credo che sia più che mai necessaria la riscoperta di quegli strumenti che possano riavvicinare i figliol prodighi alla Grande Madre».
Gli eventi contemporanei impongono segnatamente tale obiettivo di riavvicinamento, che il filosofo Bruno Latour nel suo recente capolavoro, dall’emblematico titolo La sfida di Gaia (Meltemi, 2020), battezza come «redistribuzione delle agency» o «composizione progressiva dei collettivi». Possiamo quindi notare, chiudendo il nostro cerchio, come le funzioni «metaculturali» delle sostanze psichedeliche, che Peter Furst fissava nello stralcio d’apertura – ovvero che il loro potenziale «debba essere considerato essenziale per il benessere dell’individuo e della comunità» – risultino oggi d’inaspettata e incalzante utilità, grazie all’inseparabilità del benessere dell’individuo da quello della comunità (umana e non umana) a cui è ontologicamente legato; con la cruciale differenza che, le società “primitive” – a cui Furst si riferisce nel passo – non dovevano vedersela con un establishment industriale, politico e finanziario pronto ad arrogarsi il diritto univoco di produzione, gestione e regolamentazione delle sostanze magiche. Noi sì.
La scommessa psichedelica, in conclusione, rappresenta un contributo prezioso, proprio alla luce dell’esigenza d’integrazione ed ecologizzazione appena sottolineata; lo dimostra la sua vocazione aggregante e compositiva, e la sua stessa struttura multidisciplinare e concretamente collettiva. L’opera è quindi un arsenale multiforme e articolato, in grado di fornire alcune delle armi necessarie a combattere la guerra fra le forze d’apertura e quelle della chiusura.
Ma se le prime al momento scommettono, le seconde sono già sul campo di battaglia con l’equipaggiamento pesante, in piena fase d’offensiva. I giochi sono tuttavia ancora aperti, e anche se non è possibile preconizzare l’epilogo del conflitto, decidere di prenderne parte lo è senza dubbio. Affrettiamoci dunque a scegliere con cura i nostri alleati, a muoverci con decisione e apertura verso una nuova composizione di forze, valori e interessi, capace di catalizzare le enormi potenzialità psichedeliche entro la causa comune d’emancipazione e riconciliazione che oggi lega – consciamente o meno – ogni uomo sulla Terra, e alla Terra.
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