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«Coincidendo con questa materia, adottando lo stesso ritmo e lo stesso movimento, la coscienza non potrebbe, grazie a due sforzi di direzione opposta, alzarsi e abbassarsi in successione, cogliere dal di dentro, e non più percepire dal di fuori, le due forme della realtà, corpo e spirito? Questo doppio sforzo non potrebbe, per quanto possibile, farci rivivere l’assoluto?»
(L’evoluzione creatrice – Henri Bergson, BUR 2012, pg. 362)

Bergson è stato, come si può evincere da questo breve stralcio, uno dei più validi avversari del materialismo e della cultura panscientifica che iniziava a imporsi proprio durante la sua vita. È infatti uno dei massimi rappresentanti dello spiritualismo, quella filosofia che «comincia con Socrate e Platone, che l’Evangelo ha diffuso nel mondo, che Descartes ha messo nelle forme severe del genio moderno» e che «insegna la spiritualità dell’anima, la libertà e la responsabilità delle azioni umane» (Du vrai, du beau et du bien – Victor Cousin, Paris 1856, pp. 458-459), rispetto soprattutto agli apparenti limiti posti dal mondo materiale.

Alla stessa corrente potremmo iscrivere anche Bianco, il protagonista de L’occasione (La Nuova Frontiera, 2021), romanzo dello scrittore argentino Juan José Saer, recentemente tradotto. Come Bergson, Bianco ritiene che lo spirito sia superiore alla materia, e si accomuna al filosofo francese per almeno altri tre aspetti: intendere il reale come opposizione di spirito e materia, porsi l’obiettivo di condurre lo spiritualismo alla vittoria definitiva nei confronti del materialismo (farci rivivere l’assoluto) e, soprattutto, detestare i positivisti.

Che Bianco sostenga queste posizioni è chiaro sin dall’incipit dell’opera, dal quale apprendiamo che proprio lui, Bianco, «ha dimostrato tante volte che il pensiero governa la materia, la modella a piacimento, la attraversa e la sposta» e, di conseguenza, «che basta concentrarsi, lavorare e affinare le doti per vincere l’inerzia ripugnante della materia». L’evento narrativo da cui scaturisce la vicenda raccontata è proprio un pubblico scontro con i positivisti rispetto a tali supposte abilità psichiche; Bianco, chiamato a dimostrare la veridicità delle proprie capacità ultramentali, cade entro quella che infine si rivela una trappola e, umiliato a teatro proprio quando avrebbe dovuto consacrarsi, decide di abbandonare l’Europa, fuggendo verso Buenos Aires. Giunto in Argentina, l’obiettivo manifestato da Bianco è quello di dedicarsi «esclusivamente alla meditazione per riuscire a confutare, una volta per tutte, la conventicola positivista che, sei anni prima, l’ha costretto a lasciare l’Europa». Ambizione che sin da subito sfocia quasi nella mitomania, venendosi a identificare con la missione di «liberare la specie umana dalla schiavitù della materia».

Le premesse lasciano dunque presagire un’opera in cui la presenza dello spirito, incarnata nello sforzo a cui Bianco dichiara di volersi ardentemente dedicare, sia preponderante. Eppure, non è affatto così. Aspettandoci un romanzo “spirituale” o “magico”, magari accostabile all’omonimo filone narrativo sudamericano di cui Gabriel García Márquez è il massimo esponente, non coglieremmo la portata del romanzo di Saer, che dal suddetto filone si è comunque ampiamente, e notoriamente, distinto.

Proprio l’assenza di qualcosa (lo spirito, capacità telepatiche, meditazioni filosofiche ecc.) che sarebbe stato “normale” ritrovare fra le pagine de L’occasione, viste le premesse, può accendere la miccia di una profonda e proficua riflessione. Una riflessione che trae la propria linfa dalle vicende che coinvolgono Bianco, l’enigmatica moglie Gina, il dottor Garay López, la sconfinata e palpitante pianura argentina, e che seguiremo tentando di estrapolare un’ipotesi sulla concezione della condizione umana, e della realtà stessa, che Saer ha tentato di imprimere lungo il racconto. Concezione che inerisce proprio al dualismo spirito-materia accennato precedentemente.

Proveremo a interpretare la cascata di eventi, decisioni e macchinazioni cerebrali che condurranno Bianco verso il delirio come il susseguirsi, narrativo e propedeutico, di due diverse soluzioni tentate dal protagonista per dominare, e risolvere, tale dualismo. L’occasione da cui scaturisce il primo tentativo è proprio la fuga forzata del nostro verso l’umida e assolata terra argentina; di fatti «gli è parso quasi subito che per la sua monotonia silenziosa e deserta la pianura fosse un luogo propizio ai pensieri, non quelli rossicci e ruvidi, del colore dei suoi capelli, che ha ora, ma soprattutto quelli levigati, incolori». Bianco decide quindi che sfrutterà le generose possibilità di solitudine e concentrazione che offre il rancho acquistato fuori città, per impegnarsi nella causa dello spirito, tentando di liberarlo «dal suo residuo escrementizio, cioè dalla materia».

Le cose però non procedono esattamente come previsto; di meditazioni neanche l’ombra, di esperimenti mentali ben pochi e sempre fallimentari (tre in tutto l’arco del racconto), nessun progresso rispetto alla crociata antipositivista. Tuttavia, Bianco inizia a destreggiarsi con disinvoltura e un certo successo nel campo degli affari, spinto, quasi inconsapevolmente, dal proprio lato pragmatico, che domina ampiamente la scena da dietro le quinte. Non deve stupirci l’abilità mostrata da Saer nell’incarnare in Bianco quello stesso dualismo spirito-materia che pare ombreggiare su tutta l’opera, nella sua versione corpo-anima, teoria e prassi. Il comportamento di Bianco è decisamente contrario ai suoi pensieri e alle sue intenzioni, come l’autore chiarisce inequivocabilmente:

«Così, arrivato nella pianura con i suoi titoli di proprietà, ha deciso al primo sguardo, osservando i ricchi del posto, che si dedicherà al bestiame e al commercio – fare tutto quello che fanno i ricchi, se ci si vuole arricchire, è stata, da quando ha potuto frequentare i ricchi e studiarli da vicino, la sua regola d’oro, grazie alla facilità, all’astuzia pratica, che in lui è un dono come per altri lo è l’attitudine alla musica, un’astuzia che ora tinge i suoi pensieri dello stesso colore dei suoi capelli, perché sa che gli immigranti stanno arrivando a decine, a centinaia di migliaia nella pianura in cui nel raggio di varie leghe non si vede un albero o una pietra, e che quegli immigranti, quando avranno fatto un po’ di soldi coltivando il grano e vorranno vivere in case più solide dei ranchos di fango e sterco che si costruiscono quando arrivano, avranno bisogno di mattoni per costruire quelle case, e lui, Bianco, li farà fabbricare per venderglieli».

Il passo, oltre a denotare l’elevata sensibilità storica e sociale di Saer che si riverbera lungo tutto il romanzo, è colmo di ricchezza, astuzia pratica, commercio, addirittura mattoni; davvero tanta materia. Tutto però, almeno nell’intento pianificatore di Bianco, è funzionale al costruirsi una solida tranquillità economica, così da potersi concentrare sulla vendetta spirituale contro i positivisti e sancire il trionfo dello spirito.

Ma il tempo non è ancora maturo, il dualismo non può ancora essere sciolto; Saer ce lo lascia dedurre da due episodi emblematici, che attestano l’impossibilità per Bianco di venire fuori dal circolo entro cui è bloccato in questa prima fase; non è un caso che entrambi gli episodi paiano come un diretto riferimento all’idealismo tedesco, corrente auto-dichiaratasi, soprattutto in G.W.F. Hegel, come soluzione definitiva allo stesso dualismo che affligge il nostro Bianco, prima di essere frantumata dalla folgore anti-sistemica scagliata da Nietzsche.

Nel primo dei due eventi, Bianco assiste a una fugace apparizione che sembra incarnare precisamente l’insolvibilità della dicotomia spirito-materia, trovandosi d’un tratto, immobile in mezzo alla pianura, davanti a un’enorme mandria di cavalli, «devono essere più di duemila». È necessario qui rimarcare il genio di Saer, nel rappresentare le due diverse concezioni di assoluto (soluzione del rapporto spirito/materia) fornite prima da F. Schelling, e poi da Hegel, nei due differenti modi in cui appare la grande mandria. Inizialmente, questa ricorda «l’impasto arcaico dell’essere che vola come un vento cosmico, diviso in un numero indefinito di individui identici, come un’infinità di stelle separate dal nero ma costituite della medesima sostanza, o come un filare di pioppi germogliati dallo stesso seme che, osservati da un certo punto nello spazio, si sovrappongono e si fondono dando l’impressione di essere uno solo».

Viene in mente proprio l’assoluto schellinghiano, che Hegel definì, nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito, come «la notte in cui tutte le vacche sono nere», un’unificazione forzata del tutto entro un indefinito assoluto privo di qualunque determinazione. In netta contrapposizione è invece la concezione hegeliana, che teorizza un assoluto non dato, ma costituentesi nell’instancabile movimento dello spirito che si realizza concretamente nella storia reale del mondo. Come la seconda versione della mandria di cavalli, che tumultuosa avanza verso Bianco, e che appare come una «massa cupa e palpitante, una moltitudine unificata da tutti i membri che la compongono e al contempo dispersa in ciascuno, agglomerato di carne calda, di muscoli e nervi e sensi». Estremamente significativa è la reazione di Bianco di fronte a questa visione confusa e di possente mescolanza, al contempo unità eterea e composizione viva e pulsante; «comincia a correre in quella direzione con il folle proposito di fermarla, impadronirsene, addomesticarla, tanto il galoppo fragoroso, inaspettato dei cavalli gli ha fatto perdere il sangue freddo, la facciata di calma e decisione inalterabile che è quasi una leggenda per chi lo circonda».

L’inscindibilità degli opposti simboleggiata dalla mandria smuove in Bianco un profondo turbamento, che preconizza il tormento che lo prenderà di lì a poco, e che intanto lo spinge a tentare di dominare e fare suo quell’inestricabile caos, addolcirne l’indole con il proprio proposito spiritualizzante; ovviamente la mandria finirà con il virare fuori dalla portata di Bianco, inafferrabile, fino alla dissolvenza definitiva oltre l’orizzonte. Lo stesso intento di dominio guida Bianco durante il secondo degli episodi, che caratterizzano maggiormente il primo stadio del suo tentativo di imposizione dello spirito sulla materia. Ancora una volta Saer sembra fare ricorso a una delle acquisizioni teoriche fondamentali dell’idealismo hegeliano; ovvero il processo che dall’”Io” non autocosciente, conduce, tramite un primo momento negativo (l’io si fa non-io/natura), al ritorno in-sé, negazione della negazione, come spirito autocosciente e totalizzante.

«Quando le pratiche al catasto sono concluse, quando ormai i confini, l’ubicazione e l’esatta estensione delle sue terre sono stabiliti nei documenti ufficiali della provincia, Bianco compra tre cavalli, si prepara un bagaglio leggero in cui non mancano un revolver e due o tre libri, un po’ di carta e d’inchiostro, una carabina, e un mattino d’autunno, alla prime luci dell’alba, si inoltra nella pianura».

Bianco sta via, da solo in mezzo alla natura, facendosi natura (non-io), per ben sei mesi, durante i quali perlustra «la pianura in lungo e in largo, evitando i radi paesini e anche i ranchos isolati o le estancias e vivendo per tutto il tempo all’aria aperta, indifferente alla pioggia, al sole che batte forte anche d’inverno, al vento o alle gelate, cacciando per sfamarsi». A primo acchito, l’intento di Bianco sembrerebbe proprio quello di tornare in-sé arricchito dal passaggio negativo, appropriandosi di una più vasta fetta di realtà, di vivere la pianura per «cercare di interiorizzarla, di rendersela connaturata, teso a ricostruire dentro di sé la percezione che ne hanno coloro vi hanno visto la luce, coloro che, come Adamo con l’argilla del Paradiso, sono impastati col fango grigio che calpestano gli zoccoli dei suoi cavalli». Ma presto scopriamo che l’ambizione del nostro è molto più farisaica, ancora del tutto imbrigliata nella rete del dualismo: «ciò che i peones credono che Bianco abbia fatto per essere uguale a loro, in realtà, attraversando senza soffermarcisi la fase dell’identificazione, lui l’ha fatto per distinguersi al meglio, e il suo apprendistato non ha a che fare con l’identificazione più di quanto ne abbiano le osservazioni di un cacciatore sulle abitudini di un giaguaro allo scopo di addomesticarlo o venderne la pelle». Quindi, se ancora resta, in Bianco, un’illusoria ed evanescente parvenza di fedeltà alla missione spirituale (il tutto non è stato che «un semplice pretesto per disporre del tempo libero che gli serve per confutare i positivisti»), l’osservazione tangibile, che chiude l’episodio, è che «quando torna in città, senza che nelle sue terre ci sia ancora un solo capo di bestiame, i peones lavorano già per lui».

Insomma, Saer costringe Bianco a rimanere bloccato nel dualismo più estremo, ad agire con mezzi e finalità puramente pratiche e materiali, giustificandosi con un sempre più flebile autoconvincimento rispetto alle vere motivazioni spiritualiste che lo starebbero spingendo. Come se, nella finzione, l’autoinganno possa per lo meno mantenere stabile il suo equilibrio mentale. Ma tale, precaria condizione, è destinata a non durare a lungo; con l’ingresso nella vita di Bianco di Gina e Garay López, il nostro sarà presto scaraventato dentro quel caos amalgamato di spirito e materia che finora è riuscito solo blandamente a evitare, aggirandolo.

Un cambiamento sostanziale nelle sue condizioni di vita, che gli imporrà di affrontare faccia a faccia la reale potenza dell’assoluto che si è proposto di controllare, e che finirà, almeno apparentemente, col condurlo al delirio. Il matrimonio con Gina, lo strano triangolo con il dott. Garay López, e la gravidanza della donna, rappresentano la seconda occasione a disposizione di Bianco per dimostrare la propria potenza spirituale, di fronte a quella che lui stesso realizza essere «la vera trappola in cui è caduto», al cui confronto «quella che i positivisti gli hanno teso tanto tempo fa a Parigi non è che uno scherzo innocente da studenti».

Gina è una giovane donna che sin dalle prime battute risulta a Bianco enigmatica, difficile da sondare nelle reali intenzioni, «un territorio ignoto, inestricabile, nel quale cerca, con ansia ben dissimulata, dei segni, per quanto infimi, che gli permettano di orientarsi, di sapere qualcosa della regione interna che vive e si agita dietro quel territorio, la fonte di immagini ed emozioni sulla quale non riesce a proiettarsi, ma in cui gli piacerebbe immergersi come in acque profonde, per esaminare a una a una, con decisione e minuziosità, le masse vive che pullulano confuse sul fondo». Probabilmente proprio per questa vivida inafferrabilità, Bianco finisce per lasciarsi ossessionare da Gina; il momento preciso in cui tale ossessione prende forma è individuabile poco dopo l’incursione della mandria dei cavalli, quando Bianco si precipita da Gina, per trovarla insieme a Garay López, «con gli occhi socchiusi e un’espressione di piacere intenso»; episodio che finisce immediatamente «stampato, brutale, nella memoria di Bianco», senza più uscirne.

Si tratta però soltanto del prologo di quella che sarà la vera forza che Gina eserciterà su Bianco. Perché nel suo rimuginare sui possibili sviluppi intimi del rapporto fra la moglie e l’amico, nei continui dubbi che si pone rispetto alla sincerità di Gina, nella barriera di incomunicabilità che erige fra sé e il mondo, Bianco finisce per identificare in Gina quello stesso assoluto intravisto precedentemente nella pianura, quella forza inconoscibile e incontrollabile che esiste in quanto superamento dello scarto fra spirito e materia.

«Bianco sentiva in Gina qualcosa di sconosciuto, inabbordabile, un elemento inaspettato che sfuggiva al suo controllo, una percentuale di forza indefinibile di cui avrebbe dovuto tenere conto in tutti i suoi calcoli futuri e che avrebbe potuto maneggiare solo alla cieca, consapevole che, se liberata, quella forza era in grado di provocare reazioni imprevedibili e distruttive».

Non è un caso, allora, che Saer sgombri il campo da ogni equivoco, esplicitando l’identificazione di Gina con l’assoluto magmatico, ricorrendo a un ricordo che fulmina Bianco proprio nel mezzo di una delle sue irrequiete macchinazioni mentali. Con abbondanza di particolari, il nostro ricorda di aver assisto a una scena, qualche tempo prima, molto particolare, che ha per protagonisti ancora una volta dei cavalli, oltre che Gina stessa. In sostanza, un pomeriggio, passeggiando attorno al rancho, Bianco sorprende la moglie, che non si accorge della sua presenza, mentre assiste impassibile a una copula poderosa fra uno stallone e una giumenta; quello che sciocca Bianco è proprio l’imperturbabilità di Gina, che non si verifica «per apatia o per insensibilità, ma perché ciò che stanno facendo i cavalli a pochi metri da lei, nel recinto, muggendo e sollevando la terra sabbiosa con le zampe posteriori, le è connaturale, forma con lei un’essenza unica, e in quel momento Gina è la coppia di cavalli che si dibatte, cieca, in un caos carnoso e sanguinolento» (corsivo mio). Quella che all’inizio era solo visione di potenza (la mandria di cavalli) diventa così forza attuale e minacciosa, impersonificata nella figura di Gina.

Va sottolineata, prima di esaminare in che modo Bianco deciderà di affrontare l’enormità della forza simboleggiata da Gina, un’apparizione curiosa. Si tratta di Juan, fratello minore di Garay López, a cui Saer, dimostrando grande sensibilità filosofica, affida l’inaspettato compito di suggerire a Bianco una via d’uscita concreta dall’impasse entro cui è bloccato, giusto prima della catastrofe. Perché il piccolo, crudo e autarchico Juan, insieme alla sua squadra di rudi peones, sembra incarnare, agli occhi di Bianco, l’ideale dell’oltreuomo di nicciana memoria, colui che dice “sì” alla terra. Cosa che, invece di suscitare, come lecito aspettarsi, ritrosia nel nostro spiritualista, provoca in lui una forte ammirazione.

«A fatica, Bianco reprime il rispetto meravigliato per quella specie di forza che emana da gruppo, li vede esterni, tutti d’un pezzo, estranei alla pietà e all’esitazione, identici al soffio che li muove, capaci di fedeltà e di violenza, senza che, al pari dei puma e dei serpenti, violenza e fedeltà significhino niente per loro».

Ma lui, Bianco, proprio come gli «spregiatori della vita» che Nietzsche attacca furentemente in Così parlò Zarathustra, non può accogliere il suggerimento, deve rifiutare una visione della vita che escluda la morale e lo spirito (puma e serpenti/assenza di significato), non può abbandonare la sua causa; non può sottrarsi dall’attrazione verso la forza elementale rappresentata da Gina, finendo con l’identificare il proprio matrimonio con la sua lotta alla materia:

«Quell’intuizione segreta, l’ha indotto a considerare l’unione con Gina una sfida, una lotta contro quella forza che Bianco si rappresenta come una trappola che la materia gli tende, trappola di cui i suoi stessi sentimenti per lei sono estensioni o le reti più sottili. Piegando Gina al suo dominio, è tutta la materia a doversi mettere sotto i suoi piedi, obbedirgli».

Se, anche solo blandamente e con auto-accondiscendenza, nella prima fase Bianco affidava al suo lato spirituale il compito di sottomettere la materia, di fronte a Gina proverà invece a spuntarla grazie al suo lato pragmatico. In realtà, anche questa volta sembra trattarsi solo di un autoinganno, capace però di provocare conseguenze devastanti all’equilibrio mentale di Bianco. Perché come nella prima occasione, ai propositi non corrisponderanno i fatti, e l’intento pianificatore di Bianco finisce per trasformarsi nella via più rapida verso la follia, il delirio e la perdita del giudizio. L’impotenza disarmata di fronte a Gina e alla forza indefinita di cui è portatrice, si rivela chiaramente quando Bianco inizia a percepirla come «enorme, quasi infinita», e si materializza nella nuova illusione che Bianco vende a sé stesso:

«Rimane a fissare la superficie bianca del soffitto, girandosi di tanto in tanto il bicchiere tra le mani, in un sogno a occhi aperti tranquillo o piuttosto vuoto, di nuovo in preda a quella specie di sconforto freddo che lo assale quando gli eventi gli impediscono di passare all’azione e si vede costretto ad aspettare che, obbedendo passo passo alle sue predizioni, il reale si manifesti». (corsivo mio)

Tutto ciò che accade inizia ad essere visto da Bianco attraverso questa lente; così, una volta convintosi che il figlio sia in realtà di Garay López, concepito proprio la sera dello sguardo d’intenso piacere sul viso di Gina, incapace di comunicare la propria gelosia e il proprio disagio rispetto alle cose che sfuggono al suo controllo, Bianco si chiude nella sua fortezza mentale, assecondando, anche con una certa consapevolezza, la propria ascesa verso il delirio.

«I primi tempi riesce a seguire l’evoluzione dei suoi pensieri fino a quello che lui considera il limite del delirio, ma poiché tale limite si sposta sempre un po’ di più man mano che l’estate avanza, nei momenti in cui si dice “Questo non è più pensiero pragmatico e neppure pensiero puro, questo è delirio” non sa che quello che ha cominciato a chiamare pensiero il mese precedente, due mesi prima l’aveva già catalogato come delirio».

L’apice di questo processo degenerativo giunge poco prima della conclusione del libro. Bianco è sempre più fuori di sé, l’intera realtà gli pare un complotto ordito da una forza sconosciuta per impedire a lui, e alle sue previsioni, di realizzarsi, un piano della materia che coinvolge tutti, Gina, Garay López, i peones e cittadini, messo a punto per evitare che lui, Bianco, riesca finalmente a piegare la materia stessa al proprio pensiero. Un’epidemia giunge in città, portata da Garay López, che Bianco, nei suoi piani, crede di aver attirato, tramite una lettera mai davvero arrivata, per risolvere finalmente la questione riguardo al figlio e dimostrare di avere ragione. Anche i poveri malati che muoiono vomitando ai lati delle strade sono colpevoli:

«“Sì, sì, ha portato l’epidemia” pensa Bianco, lanciando di nuovo il cavallo al galoppo, “ma non per paura, anch’io vedo tutta questa gente attorno che diventa rossa e gialla e non ho paura; l’ha portata perché ha ricevuto la lettera e voleva vedere il colore dei capelli della cosa che uscirà tra le gambe di Gina”. Un orgoglio incongruo, vagamente folle, gli fa arricciare le orecchie e sfavillare gli occhi quando constata che, se anche l’universo tutto andasse in pezzi, e il sole, gli alberi, la terra, gli uomini sembrano già annunciare come imminente quell’eventualità, se vacillasse sui cardini arrugginiti prima di esplodere, lui non modificherebbe la sua convinzione, né perderebbe d’occhio il duello ingannevole che il tutto avverso simula davanti ai suoi occhi al fine di distrarlo e attirarlo nella sua selva pantanosa».

Per l’appunto, uno «spregiatore della vita», capace solo di muoversi tra un estremo (spirito) e l’altro (materia) senza riuscire a calarsi mai dentro la realtà, vivendola davvero, finendola con i tentativi, necessariamente fallimentari, di addomesticarla o di controllarne le manifestazioni. Bianco, alla fine, fuggirà di nuovo; l’epidemia lo condurrà esattamente al medesimo stadio in cui si trovava all’inizio della storia, di nuovo al punto di partenza dopo aver compiuto un giro completo del circolo. Torna al rancho, e riprende placidamente i suoi esperimenti contro i positivisti, che sembravano ormai dimenticati, lottando però «contro la speranza, contro il desiderio, contro l’illusione che il risultato dell’esperimento sia soddisfacente», per non farsi nuovamente imprigionare da quella forza avversa che continua a percepire. Ma, significativamente, è «la stessa forza che vuole combattere che gli fa dimenticare i suoi propositi», condannandolo a ricominciare tutto dall’inizio.

Saer, sembra allora volerci dire che, tanto un approccio unicamente spiritualista che denigri la materia, quanto uno forzatamente pragmatico che cerchi di circuirla e controllarla, sono destinati al fallimento; nel primo caso, Bianco, o perché no, l’Uomo, finisce per trastullarsi con fantasticherie illusorie ben lontane dalla realtà vissuta ogni giorno, nel secondo invece, precipita nello sconforto più assoluto di fronte all’indomabilità, all’irriducibile scarto irrazionale, né spirito né materia, sia spirito che materia, di cui è fatto il magmatico reale. Quello stesso reale che emerge e si impone con veemenza lungo tutto il racconto, forza inarrestabile e composita che non conosce stasi, perfettamente risaltata dalla scrittura di Saer, che è serrata, quasi soffocante nell’abbondanza di dettagli, tanto materici quanto spirituali, talmente coinvolgente e ritmata da impedire quasi di riflettere mentre si legge, così com’è impossibile controllare la vita mentre la si vive.

Ma non è tutto qui; nella ciclicità che distingue la vicenda di Bianco, nel suo continuo fallire e riprovare, Saer cristallizza con lucido realismo la condizione umana. Individua quell’ironica e peculiare capacità che ci permette, forse ci obbliga, a percepire dualisticamente il mondo e l’esistenza, senza però darci al contempo gli strumenti per superare tale dualismo, né la forza di vivere accettandolo così com’è, costringendoci a vagare in circolo, un po’ spaesati, alla ricerca della prossima verità provvisoria.

L’immagine di un migrante calabrese che Saer pone a chiusura dell’opera, nel Congedo, è esemplare; l’uomo è solo in Argentina, fa una vita misera e ha rispedito la famiglia in Calabria, è tormentato, non sa cosa fare, se rimanere in Sud America a sgobbare sperando di poter, prima o poi, far rientrare la famiglia, o se mollare tutto e tornare in Italia. Decide allora di rivolgersi a un bambino, Waldo, che a differenza di Bianco sembra davvero avere il dono di controllare, o prevedere, cosa farà la materia, formulando ottonari profetici e rivelatori per i clienti che gli portano le caramelle, e sganciano i soldi alla sorella. La folla però e fitta e concitata, ci sono spintoni e gomitate come durante il pogo di un concerto, mentre Waldo finalmente proclama l’ottonario per il calabrese, che punta tutta la sua vita sulle sillabe che usciranno da quella bocca. Ma fra la foga, la lingua diversa e la confusione, l’uomo sente male la profezia, e non ne capisce nemmeno una parola. Solo, lontano da casa, povero, stordito e dolorante, senza alcuna idea rispetto a cosa fare.

«Così il calabrese, disorientato, si ritrovò qualche secondo più tardi nel cortile sul retro, senza aver capito la profezia, senza quindi sapere, come prima di entrare, che decisione prendere, e senza i soldi e le caramelle».

Chi, sinceramente, non si mai è sentito così?

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