«Proprio accanto all’orgoglio dell’uomo moderno sta la sua auto-ironia, la sua consapevolezza di dover vivere in uno stato d’animo storicizzante e quasi crepuscolare, il suo timore di non poter salvare alcunché, nel futuro, delle sue speranze e forze di gioventù»
(F.W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Edizioni Clandestine, 2015, p. 74).
Quando Nietzsche, nel 1874, scriveva queste parole, la società occidentale si apprestava a superare il proprio Rubicone, con la seconda rivoluzione industriale e l’affermazione della società capitalistica globale, emanazione del periodo coloniale.
Quegli anni, alla vigilia del ’900, stavano per orientare in modo invariabile la traiettoria dell’Occidente (e del mondo intero), indirizzandola verso la fase terribilmente critica che ci troviamo ad affrontare oggi. Sembra che Nietzsche avesse intercettato questa parabola con grande precisione, considerando come la domanda su cosa ci riservi il futuro, nell’era dell’Antropocene, sia diventata onnipervasiva.
Meno di cinquant’anni prima, nel 1826, Mary Shelley pubblicava L’ultimo uomo, uno dei primi romanzi post-apocalittici della storia. Nel lasso di tempo – la “storia contemporanea” – che ci separa da quel momento, la produzione di opere letterarie e filmiche sul tema dell’apocalisse è aumentata costantemente e in modo esponenziale, affermandosi come uno dei generi centrali della produzione culturale occidentale.
Perché? Cosa dice di noi e delle nostre società tale spasmodica attenzione verso la fine mondo? In che modo è correlabile alla, sovrapponibile, crescita del potenziale distruttivo dell’uomo?
Queste sono alcune delle domande a cui ha provato a rispondere Marco Malvestio, autore del saggio Raccontare la fine del mondo (2021), edito da nottetempo. L’opera, dalla lettura estremamente agile, affronta alcuni dei motivi più iconici della narrazione apocalittica e post-apocalittica, dandone una lettura critica, che offre materiale utile alla riflessione sul futuro, ma anche sul presente. Quest’intento risulta chiaro già dalle prime pagine del libro:
«Raccontare la fine del mondo parla di questo: di come la fantascienza, nella sua declinazione distopica e post-apocalittica sia in grado di immaginare un futuro possibile, e attraverso questo futuro di ripensare il presente».
Per farlo, Malvestio suddivide l’universo narrativo fantascientifico in cinque macroaree, ognuna delle quali può essere ricondotta alla rispettiva era; L’era dell’atomo, L’era del virus, L’era del cambiamento climatico, L’era delle piante, L’era delle estinzioni. Veniamo accompagnati lungo una fitta e consistente serie di libri e pellicole, da La spiaggia terminale di James Graham Ballard del 1964 a The day after tomorrow di Roland Emmerich, uno dei disaster movie a sfondo climatico più emblematici. Ciò che risulta più interessante è che, parallelamente alla ricca e variegata esplorazione narrativa, dall’opera emergono intuizioni feconde rispetto a cosa si celi dietro una delle più lampanti contraddizioni della nostra epoca, per lo meno nel Nord del mondo, ovvero:
«Pur con tutti i suoi difetti e i suoi disagi, il nostro tempo è, sotto un certo punto di vista, il più felice nella storia dell’uomo. Ed è insieme forse l’epoca in assoluto più ossessionata dall’immaginario della catastrofe». Le conclusioni a cui giunge Malvestio, come vedremo, delineano un quadro nel quale realtà e finzione si intrecciano inestricabilmente, e dove il riverbero reciproco fra letteratura/cinematografia e alcuni dei temi più pressanti della contemporaneità – l’Antropocene, il cambiamento climatico, l’ecologia, l’eredità coloniale, ecc. – restituisce un’immagine rivelatoria della catastrofe stessa, svelandone il significato profondo per il Soggetto occidentale.
Questo aspetto è fissato dall’autore sin dalle premesse, quando nota come «i tempi che viviamo sono precisamente, cronologicamente, quelli in cui i classici della fantascienza ambientavano la loro immaginazione nel futuro». Una consapevolezza, questa, legata all’espressione storica tra le più vicine all’apocalisse che l’uomo abbia sperimentato, la Seconda Guerra Mondiale, e al suo epilogo: l’irruzione dell’energia nucleare, contemporaneamente vetta e abisso dell’umanità, radicalmente ambivalente con «la sua utilità e la sua incredibile pericolosità».
La trattazione comincia dunque dall’area narrativa incentrata sulla «psicosi della bomba», nel capitolo dedicato all’era dell’atomo. Nonostante col passare dei decenni il terrore della catastrofe nucleare abbia via via lasciato il posto ad altre paure e inquietudini, essa contiene in nuce gli elementi che caratterizzeranno le fasi successive dello spauracchio apocalittico. Ciò avviene perché «l’energia atomica, mette in risalto la doppia natura, distruttrice e creatrice, dell’ingegno umano, che caratterizza l’Antropocene».
Il terrore di una guerra nucleare nutre racconti in cui diventa possibile un futuro distinto da un sostanziale crollo della società, nel quale le città una volta pulsanti sono distrutte e abbandonate; un futuro in cui l’uomo è riuscito, con un singolo atto – l’attivazione del famigerato «bottone rosso» – a provocare la fine del mondo come lo conosciamo. Si tratta di un tema chiave che Malvestio approfondisce analizzando opere come Addio Babilonia (1954) di Pat Frank e Cadrà dolce la pioggia (1950) di Ray Bradbury, e che continuerà a essere presente anche nelle successive ere. Parallelamente emerge però anche un secondo motivo più sottile, che, seppur solo accennato in questa fase, sarà preponderante nel racconto apocalittico più recente: l’irruzione di una minaccia invisibile e non-umana, che va ben oltre l’esplosione atomica. Perché questa è senza dubbio «più vasta delle bombe tradizionali, ma se i suoi effetti si fermassero qui non sarebbe così diversa. La radiazione invece, i cui pericoli minacciano per decenni chi è stato esposto alla bomba, è una novità assoluta, ed è una delle grandi angosce dell’era nucleare – non solo una Terra distrutta, ma anche irrimediabilmente inquinata».
Scandagliando alcuni significativi racconti su questo tema – fra gli altri, L’ultima spiaggia (1959) di Stanley Turner e Solo una madre (1958) di Judith Merril – Malvestio prepara il terreno per il prossimo stadio, che dall’era del virus fino a quella delle estinzioni (l’ultima) sarà contraddistinto proprio da una Terra contaminata e «piagata da un potere invisibile che non può essere efficacemente contrastato».
I virus incarnano una sorta di limite cognitivo, esistendo al confine tra ciò che è vivo e ciò che non lo è, agendo per vie invisibili alla percezione, eppure capaci di causare catastrofi immani. Il terrore suscitato dal contagio è dunque giustificato, poiché sono proprio i virus «forme liminali tra la vita e la non vita, che dunque complicano la nostra comprensione di entrambe, a rappresentare il principale pericolo per l’umanità contemporanea»; considerando i due anni appena trascorsi, non possiamo che notare come la commistione fra realtà e narrazione si infittisca. Ma non solo, l’immaginario apocalittico correlato alle pandemie è «caratterizzato dalla profonda interconnessione di una serie di fenomeni e agenti che prima della globalizzazione erano giocoforza separati». Nonostante la minaccia pandemica accompagni la specie umana sin dagli albori, è l’emersione di queste connessioni fra fenomeni complessi a legittimarne il ruolo di “apripista” narrativo nell’Antropocene. Film come Contagion (2011) di Steven Soderbergh o Outbreak (1995) di Wolfgang Petersen sono accumunati da certi caratteri sostanziali, figli dell’irruzione di dinamiche che nell’era dell’atomo erano appena abbozzate e che sono invece onnipresenti nelle successive ere, contraddistinte dal motivo dello sfruttamento del pianeta. Le pandemie al centro di numerosissimi libri e film, originate in paesi esotici a causa di incauti contatti fra uomini e animali selvaggi, si rilevano allora come il rovescio della medaglia dell’affermazione della dottrina socioeconomica neoliberale.
Malvestio sottolinea questo punto, suggerendo il termine «Piantagionocene», per enfatizzare il ruolo della conversione della produzione agricola in enormi monoculture, che devastando gli habitat selvaggi e facilitando la promiscuità fra l’uomo e specie portatrici di virus aumenta esponenzialmente le possibilità d’insorgenza di pandemie, parimenti allo sfruttamento di interi popoli come manodopera. Questo aspetto è infatti ulteriormente carico di significato quando ad essere raccontate sono pandemie che, oltre a uccidere i malati, ne permettono la resurrezione sotto forma di esseri assetati di morte: gli Zombie.
«C’è una duplice ragione per considerare lo zombie alla luce dell’Antropocene: le sue radici coloniali, che lo legano a doppio filo alle origini socio-economiche dell’Antropocene/Piantagionocene, e l’onnipresenza, nelle sue narrazioni contemporanee dell’idea di epidemia legata a questa figura».
Per Malvestio, dunque, il racconto apocalittico a tema virale mostrerebbe una sorta di ritorno del rimosso della coscienza occidentale, in particolare del suo lato sfruttatore e colonizzante, che nel sotto-genere “Zombie” si costituisce anche come massa di soggetti meno-che-umani, fin troppo facilmente associabili alle schiere di disperati di cui è ricco il mondo, e che proprio nelle piantagioni coloniali hanno origine. Il motivo virale, nelle sue varie espressioni, rappresenta quindi il ritorno perturbante «delle grandi masse internazionali alienate, denazionalizzate e migranti». Film come 28 giorni dopo (2003) di Danny Boyle e World War Z (2013) di Marc Forster, nell’analisi che ne fa Malvestio, sono emblematici in questo senso.
Ma se tale rimosso era rappresentabile in modo più o meno definito nell’era dell’atomo, i caratteri complessi del virus complicano non solo gli attori e i fenomeni coinvolti nel racconto, ma anche la sua stessa dicibilità. Ciò risulta ancora più evidente nelle tre sezioni successive del libro, che da angolature diverse affrontano il motivo della catastrofe ambientale, ovvero la paura di un rimosso ancora più profondo. Quello di agenti non-umani (piante e animali) o addirittura inanimati (la “natura” e i suoi processi) sullo scacchiere del nostro destino, fenomeno al contempo concreto ed esistenziale, che la filosofa belga Isabelle Stengers chiama «l’intrusione di Gaia» (In Catastrophic Times, 2015, p. 43).
L’autore, scandagliando opere come The day after tomorrow e L’ultimo degli uomini (2003) di Margaret Atwood, rimarca le difficoltà nel narrare il cambiamento climatico, che riflettono il difficile approccio ad esso anche fuori dal locus narrativo, nella politica e nella vita sociale. Appellandosi alla definizione che ne dà Timothy Morton, Malvestio correla tali difficoltà alle qualità di «iperoggetto» che caratterizzano il cambiamento climatico: la viscosità e la non-località, ovvero l’essere sostanzialmente fuori scala – spaziale e temporale – per il metro umano. Caratteristiche che dunque «ne minano la possibilità di comprensione». Questa lacuna si percuote sul racconto, che spesso fallisce nel rappresentare le dinamiche multifattoriali del riscaldamento globale, ancorandosi ai canoni della narrazione apocalittica; secondo Malvestio questa necessita, come nel caso della bomba atomica, di un evento scatenante circoscrivibile, di una chance di “redenzione” per il protagonista umano – la “cura”, panacea delle narrazioni pandemiche – e della possibilità di individuare con precisione le responsabilità che generano la catastrofe, «il classico mad doctor del romanzo fantascientifico». Tutti elementi inconciliabili con il cambiamento climatico, che esiste proprio in quanto manifestazione diffusa, non individuabile unitariamente né riducibile ai singoli fenomeni che la determinano, e la cui responsabilità è segnatamente sfumata e collettiva.
«In altre parole, inscrivere il global warming in un paradigma apocalittico porta di fatto a ignorarne manifestazioni molto importanti», motivo per cui «in così tante opere post-apocalittiche, il cambiamento climatico fa solo da sfondo». Malvestio individua la radice di questo problema nella difficoltà di rappresentare l’«agentività» del non umano per il narratore, che ancora una volta testimonia la medesima difficoltà per l’intero soggetto occidentale.
Quest’intuizione qualifica ulteriormente l’opera di Malvestio, che riesce così a contribuire a uno dei dibattiti contemporanei più urgenti, quello sulla critica alla concezione “moderna” dell’intenzionalità del non-umano. Non è un caso dunque che l’autore si riferisca ad alcuni dei pensatori più influenti sul tema, come Bruno Latour, per il quale «sulla Terra nessuno è passivo» e bisogna dunque «concentrarsi maggiormente sulla distribuzione delle agency» (La sfida di Gaia, Meltemi, 2020, p. 149).
Uno dei contributi più significativi di Raccontare la fine del mondo, largamente approfondito negli ultimi due capitoli del libro, dedicati a piante e animali, è quindi il riconoscimento di «come queste narrazioni apocalittiche nascondano un’ansia per l’agentività del non-umano». L’era delle piante e quella delle estinzioni esplorano a fondo questo tema rivelandone la centralità per l’intero libro; passando per l’universo delle piante, dall’analisi di romanzi come Il giorno dei trifidi (1951) di John Wyndham e la Trilogia dell’Area X (2014) di Jeff VanderMeer, al pari di successi hollywoodiani come E venne il giorno (2008) di M. Night Shyamalan, emergono alcune questioni centrali, strettamente correlate a quanto sostenuto finora. In primo luogo, la presenza costante di una certa «plant blindness» che, nel mondo reale come in quello narrativo, impedisce al soggetto di percepire le piante come qualcosa di più che il semplice sfondo verde dell’esistenza; perché «le piante costituiscono, nella nostra esperienza del mondo, un enorme rimosso». Un rimosso che si traduce in storie terribili in cui le piante si ribellano per essere state ignorate – e quindi profondamente maltrattate – dall’uomo, storie alle cui fondamenta giace un terrore che non è generato dalla violenza vegetale in sé, quanto piuttosto dal fatto che i tanti esemplari di piante mostruose oggetto (mai protagonisti) dei racconti «costringono a confrontarsi con il non umano e la sua agentività».
La veemente entrata in scena dell’agency vegetale forza l’attore umano «a uscire dal rassicurante binomio uomo-natura e a rinunciare agli strumenti che lo sanciscono, aprendo uno squarcio allarmante sulla sua incapacità di percepire la realtà per com’è». È qui che emerge la posta in gioco di Raccontare la fine del mondo, che suggella la reciproca e incontrovertibile compenetrazione fra la catastrofe e il suo immaginario; perché è proprio tale incapacità di percepire la realtà per com’è ad aver reso possibile l’incontrollato sviluppo del potenziale distruttivo umano. Nell’era delle estinzioni tale frattura s’impone in tutta la sua potenza gravida di conseguenze, proprio perché gli animali, nonostante mostrino ai nostri occhi una qualche capacità agentiva, sono le vittime più vessate dalla nostra macchina economica; si pensi all’incalcolabile quantità di specie estinte a causa dei cambiamenti di origine antropica all’ambiente, o al macabro spettacolo offerto dagli allevamenti intensivi.
Dall’analisi di film celeberrimi come Il pianeta delle scimmie (1968) di Franklin Schaffner e Gli uccelli (1963) di Alfred Hitchcock, e di romanzi come Il quinto giorno (2004) di Frank Schätzing e Il Terrore (1917) di Arthur Machen, Malvestio evidenzia come le fantastiche aggressioni violente all’uomo, non sono che «un rimosso strettamente legato al modo in cui la società tratta gli animali non umani». Soprattutto però, va qui notato come ciò che rende davvero mostruosi gli animali sia l’eccesso della loro agency. Malvestio fissa questo punto quando interpreta il film Lo squalo (1975) di Steven Spielberg, specificando che «questo animale non è un mostro solo perché è grande e spaventoso, ma perché possiede un’intenzione e un’agentività», e dunque, al soggetto, risulta impossibile o molto difficile sopportare il «cambiamento forzato di prospettive che l’attacco degli animali comporta». Ecco la vera paura che risiede all’ombra del terrore per la fine del mondo; non dell’apocalisse, ma dell’aver sbagliato totalmente, con il modo di pensare “moderno”, la comprensione del pianeta in cui viviamo, provocando così entità – finora rimosse – potenti a tal punto da poterci distruggere, e che non siamo evidentemente capaci di comprendere. Come nota Malvestio stesso, analizzando Il terrore, i protagonisti dei racconti apocalittici «sono messi di fronte a un’evenienza tanto radicalmente aliena, tanto lontana da quello che sono abituati a vedere intorno a sé e soprattutto dalla loro conoscenza del mondo», che la loro esperienza non può che tradursi «nel collasso del soggetto». Esattamente come stiamo vedendo avvenire a livello sociale e politico nella nostra realtà.
Possiamo caratterizzare con precisione questo collasso di fronte all’irruzione del non-umano riferendoci ancora a Bruno Latour che, in Essere di questa terra (Rosenberg & Sellier, 2019), nota come «nel modernismo, le persone non sono equipaggiate con un repertorio mentale ed emozionale adeguato ad affrontare eventi di una simile scala, e hanno difficoltà a rispondere a un’accelerazione così rapida (della quale dovrebbero sentirsi peraltro responsabili)» (p. 98).
È proprio tale impreparazione, materializzata narrativamente nel terrore che il Soggetto sia in procinto di crollare, e che la visione del mondo euro-antropocentrica abbia effettivamente fallito, ad alimentare l’ossessione per il racconto apocalittico. Ma è anche il limite al suo potenziale trasformativo.
Malvestio infatti sottolinea il paradosso alla base del genere catastrofico: il tentativo di raccontare la frattura causata dall’entrata in gioco di un’infinità di attori non umani, e l’indisponibilità per il soggetto di strumenti diversi da quelli che hanno fattualmente causato l’emersione di questi nuovi attori. Alle radici del racconto apocalittico non si cela allora la paura di una catastrofe materiale, e nemmeno una presa di coscienza rispetto al potenziale distruttivo dell’uomo; piuttosto, a nutrire il nostro imaginario catastrofico c’è lo smarrimento di fronte all’irrimandabile necessità di cambiare tutto, la visione del mondo e gli stili di vita, ciò che ha originato in primo luogo l’ossessione verso l’apocalisse e la sua concreta possibilità. Un circolo vizioso per cui, in larga parte, il racconto apocalittico «impone un paradigma noto, se non archetipico, a un fenomeno che, per portata e dimensioni, è ignoto; e così facendo, gli impone le teleologia che è insita nella narrazione della catastrofe».
Il genere fantascientifico, nella sua declinazione apocalittica, rappresenta la prova «che è più facile immaginare la fine del mondo che quella dell’insieme di cause materiali e costrutti culturali che ha generato l’Antropocene»; tradendo un rassegnato senso di posterità della società occidentale. Un tentativo, squisitamente crepuscolare, di auto-legittimazione di fronte alla paura, quella stessa paventata da Nietzsche in apertura, «di non poter salvare alcunché, nel futuro, delle speranze e forze di gioventù».
Con Raccontare la fine del mondo, Marco Malvestio riesce a intrecciare un fitto discorso in cui la realtà e il narrato, contaminandosi, contribuiscono a dettagliare la nostra peculiare condizione odierna, evidenziando come, senza un netto cambio di prospettiva rispetto a come la nostra cultura concepisce e tratta il non umano (sia esso sotto forma di processi ecosistemici, piante o animali), valutando opzioni diverse dal dominio, le possibilità di sfuggire all’epilogo catastrofico che stiamo in tutti modi cercando di auto-imporci saranno pressocché azzerate.
«Riflettere su Antropocene e fantascienza significa cercare di immaginare cos’è l’Antropocene e cosa significa per noi: immaginare come finisce il mondo, se il mondo finisce; ma anche cambiarlo».
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