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La prima volta che ho visto Dublino è stato il 9 agosto del 2013. Così almeno testimonia una fotografia di quel giorno, custodita in una cartella sul computer nominata Dublino 2013. Mio fratello si era da poco trasferito in quella città, dove avrebbe vissuto per altri cinque anni prima di tornare a Roma, e quei pochi giorni che avevo programmato di trascorrere in Irlanda rappresentavano non solo l’occasione di rivederlo dopo alcuni mesi, ma anche di scoprire un posto nuovo, una capitale che negli anni seguenti mi sarebbe diventata molto familiare. Per un appassionato, o studioso, di letteratura andare in Irlanda implica soprattutto riprendere i contatti con gli scrittori che sono nati lì e il cui nome è legato a quella terra. Per dirne alcuni: William Butler Yeats, Samuel Beckett, Oscar Wilde, Bram Stoker, Flann O’Brien, Jonathan Swift, sepolto nella cattedrale di St. Patrick, e soprattutto James Joyce.

Passeggiando per le strade di Dublino si attraversano luoghi che per il lettore di Dubliners o Ulysses sono di per sé familiari; ci si immedesima una volta di più in Leopold Bloom, nel suo disperato girovagare per la città in quel 16 giugno 1904 (la giornata in cui si svolge Ulysses, la stessa del primo appuntamento tra Joyce e la compagna della sua vita, Nora). In un certo punto è possibile imbattersi anche nella statua di Joyce. Lungo O’Connell Street, infatti, partendo dal monumento dedicato al rivoluzionario Charles Parnell e proseguendo verso sud in direzione del fiume Liffey, si arriva allo Spire, al centro della via. Si tratta di un’opera d’arte moderna, una specie di enorme spillo che si alza per centoventi metri, costruito nel 2003 sul sito che una volta ospitava il Nelson’s Pillar, un monumento all’ammiraglio Horatio Nelson fatto saltare in aria dall’IRA nel 1966. Oggi lo Spire è un comodo punto di ritrovo per chi deve darsi un appuntamento in centro. Ai suoi lati si aprono due vie: Henry Street, forse la più nota via commerciale della città, e la meno ricordata North Earl Street. Proprio qui, quasi all’incrocio con O’Connell, come se stesse camminando in direzione dello Spire, si trova una statua di James Joyce, ben vestito e con un bastone tenuto nella mano destra. Non è insolito vedere persone indicarlo, spiegare a qualche malcapitato ignorante chi sia quel signore o magari farsi una foto con lui. Chiaramente nemmeno io mi sono risparmiato in quest’ultima, sciocca usanza. E ogni volta che sono andato a trovare mio fratello non ho mai resistito alla tentazione di passare appositamente davanti a quella statua, come una sorta di piccolo omaggio, niente di che.

È lui l’autore dublinese per eccellenza: i pochi, fondamentali libri scritti in vita non si allontanano mai dalla sua città natale, bollata senza mezzi termini come “centro della paralisi”, così dipinta nelle novelle di Dubliners e volontariamente abbandonata nel 1904, quando per James e Nora inizierà un lungo pellegrinaggio che li porterà in Svizzera, in Italia e in Francia, con occasionali e rapidi ritorni in Irlanda.

All’altezza dell’esilio, voluto e ricercato, Joyce non aveva scritto molto, ma quei pochi esperimenti contengono già alcune delle suggestioni che saranno sviluppate nelle opere mature. Il 1904 è un anno davvero ricco: James elabora le prime pagine del progetto di Dubliners (che vedrà la luce dieci anni dopo, a seguito di travagliate vicende editoriali); compone alcune delle liriche che confluiranno in Chamber Music; il 7 gennaio scrive un singolare saggio di stampo autobiografico e dal titolo piuttosto emblematico, A portrait of the Artist, dove confluiscono malesseri e riflessioni personali nel contesto del deprimente mondo intellettuale irlandese, e la cui pubblicazione verrà rifiutata dai fondatori della nuova rivista «Dana», W. K. Magee e Frederick Ryan; inizia a scrivere un romanzo, probabilmente anche a seguito del dispiacere per il rifiuto, così almeno riferisce una pagina del diario del fratello Stanislaus, data 2 febbraio, giorno del compleanno di James, dove si dice che sia stato lo stesso Stanislaus a suggerire il titolo, Stephen Hero; prosegue, ma di fatto abbandona entro l’anno, la scrittura di quei brevissimi testi, mai pubblicati in vita, conosciuti con il nome di Epifanie.

A dare un’occhiata a questa breve rassegna del 1904 abbiamo già tanto di Joyce. La fuga da Dublino, le insostituibili novelle, la scrittura epifanica e lo Stephen Hero. Quest’ultimo, originariamente molto lungo, verrà messo da parte tra il 1906 e il 1907, e fornirà l’impianto necessario per la scrittura di A Portrait of the Artist as a Young Man (che riprende e amplia il titolo del saggio appena ricordato), qui in Italia conosciuto anche come Dedalus, dal cognome del protagonista Stephen Dedalus. Man mano che Joyce scrive il romanzo, distrugge i pezzi ormai considerati inutili di Stephen Hero. Soltanto due sezioni ci sono pervenute: una, piuttosto breve, forse salvata in prospettiva di una mai realizzata raccolta di testi sulla vita di provincia e ritrovata tra le carte di Stanislaus, racconta di una visita di Stephen al suo padrino, residente nella cittadina di Mullingar; l’altra, decisamente lunga, praticamente un romanzo non terminato, corrisponde, dal punto di vista narrativo, all’ultimo capitolo del Dedalus, relativo quindi alla vita di Stephen come studente dell’University College. È molto diversa rispetto a quanto si legge nel romanzo approvato e pubblicato. Bisognerebbe considerarli come due modi differenti, da parte dello stesso autore, di trattare la medesima materia, e probabilmente è questo il motivo che ha spinto James a non distruggere quelle lunghe pagine e a consegnarle direttamente a Sylvia Beach, già titolare della storica libreria Shakespeare and Company di Parigi e editrice della prima edizione dell’Ulysses, 2 febbraio 1922 (un bel regalo di compleanno per lo scrittore, e ora sono cento anni). La Beach venderà il manoscritto in un catalogo della sua libreria nel 1935, presentandolo come parte di un’opera che Joyce aveva cercato di bruciare durante una sua crisi. Si tratta in realtà di un equivoco: Joyce davvero, nel 1911, tentò, senza successo, di bruciare un manoscritto, ma si trattava del Dedalus e non dei pezzi restanti dello Stephen Hero.

Stephen Dedalus è uno di quei personaggi della storia della letteratura che, una volta conosciuti, difficilmente si dimenticano, un po’ come Fabrizio del Dongo, Madame Bovary, il narratore della Recherche o Joseph. K (e molti altri). Potrebbero passare in secondo piano, ma rimangono lì, pronti ad essere interpellati ed evocati ad ogni nuova occasione.

E l’occasione di cui stiamo parlando, per arrivare al fatto, è particolarmente stimolante, visto il suo alto valore. Da poco, la casa editrice Racconti ha ripubblicato le Epifanie joyciane, riportando in libreria, a diversi anni dall’ultima edizione disponibile, una raccolta assolutamente fondamentale per meglio comprendere i meccanismi dell’immaginario di Joyce, qui accompagnata da un notevole apparato. Il sottotitolo del libro fa già capire l’importanza del materiale che sta intorno alle Epifanie: Illustrate da Vittorio Giacopini. Le illustrazioni di Giacopini da un lato rappresentano un bellissimo commento iconografico, ma dall’altro sono soprattutto il mezzo tramite cui si instaura un dialogo tra due artisti, tra uno dei maggiori scrittori di sempre e un suo lettore appassionato, che nel seguire l’ispirazione fornita dai brevi lampi dublinesi dà forma alle sue immagini di Joyce. Questo rapporto, oltre che nei disegni, viene espresso anche a parole in un testo dello stesso Giacopini, L’occhio di Joyce («Da lettore, e da scrittore, sono più di quarant’anni che l’occhio di Joyce è un’ossessione che mi fa compagnia»). Ma non è tutto. Ad arricchire ulteriormente il libro, infatti, ci pensano l’introduzione di Carlo Avolio (il traduttore) e il saggio di Enrico Terrinoni – necessari per inquadrare le Epifanie nella biografia e nell’opera di James, per capire in che maniera la scrittura epifanica venga rigiocata nei capolavori successivi e come si intrecci nel composito universo interiore dell’autore, dove il peso della religione rabbiosamente abbandonata e l’ambiguo rapporto con la patria si mescolano a una furia sperimentale che ha davvero pochi precedenti. E non è ancora tutto: completa il volume la Rubrica di Trieste, un raccolta di pezzi, scritti tra il 1907 e il 1912, dove sono appuntati ricordi, immagini, speculazioni teoriche e molto altro. Un’edizione davvero completa, insomma, che offre ben più di una suggestione e che merita ben più di una singola lettura. Ma cosa si intende per epifanie e cosa hanno a che fare con quello Stephen Dedalus su cui è stato necessario soffermarsi un poco?

Tra il Dedalus e lo Ulysses (dove gioca il ruolo di bizzarro Telemaco nei confronti dell’Ulisse Bloom), Stephen, vero alter ego di Joyce, si è ritagliato uno spazio importante nella storia del romanzo. È il giovane artista in piena formazione che crede fermamente nei suoi principi (anche se talvolta suonano ancora imprecisi) e rifiuta il grigiore morale e culturale dell’Irlanda, rifiuta l’educazione religiosa che gli è stata fornita dalla famiglia e guarda con sospetto al nazionalismo imperante. Di fronte al conformismo da cui si sente circondato oppone un secco rifiuto: «Ecco, Cranly – disse. – Mi hai domandato quel che farei e quel che non farei. Ti voglio dire quello che farò e quello che non farò. Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria, o la Chiesa: e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita o di arte quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia» (così in una delle ultime pagine di Dedalus, nella traduzione di Cesare Pavese). Ha ragione Giacopini quando, pur sottolineando l’importanza del lavoro linguistico di Joyce, ricorda che l’essenza di Joyce, almeno per lui, sta da un’altra parte: «Dedalus, ovvero Joyce, come vittima delle convenzioni, della religione, del conformismo. Una vittima che… si ribellava. Con buona pace di Beckett e di Jolas per me il punto era quello, poco da fare. E nella letteratura di primo Novecento è pieno di figure fondamentali di adolescenti che entrano nella vita e decidono, combattendo, qual è, anzi quale vogliono che sia, il loro posto nel mondo». Oltre al fascino esercitato da questo personaggio, c’è anche una motivazione pratica che lo lega alle epifanie.

In un breve passaggio di Stephen Hero, dopo aver assistito a un semplice dialogo tra un uomo e una donna, di cui appena riesce a comprendere qualche parola, Stephen rimane folgorato e comprende come questi semplici frammenti di vita quotidiana nascondano una loro essenza più profonda. «Questa banale scenetta lo fece pensare alla possibilità di raccogliere insieme molti di quei momenti in un libro di epifanie. Per epifania intendeva Stephen un’improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso o in un gesto o in un giro di pensieri, degni di essere ricordati. Stimava cosa degna per un uomo di lettere registrare queste epifanie con estrema cura, considerando che erano attimi delicati ed evanescenti, e disse a Cranly che l’orologio del Ballast Office era capace di comunicare un’epifania». E più avanti, in dialogo con Cranly: «Questo è il momento che io chiamo epifania. Dapprima noi riconosciamo che l’oggetto è un’unica cosa integrale, poi riconosciamo che è una struttura organizzata e composita, una cosa in fatto: finalmente, quando la relazione fra le parti è perfetta, quando le parti si sono calettate in un punto speciale, riconosciamo che è quella cosa che è. La sua anima, la sua identità, balzano fuori a noi dai veli dell’apparenza. L’anima dell’oggetto più comune, la struttura del quale è stata così calettata, ci appare radiante. L’oggetto compie la sua epifania». A parlare è uno Stephen ispirato dall’estetica di San Tommaso d’Aquino, un filosofo da cui Joyce è stato decisamente influenzato.

È in un arco che va dal 1900 al 1904 che James scrive le sue epifanie. Purtroppo, molte sono andate disperse. Le quaranta rimaste sono riportate integralmente nel libro di cui stiamo parlando con il testo a fronte. A caratterizzarle sono situazioni dipinte con precisione, in uno stato di sospensione mistica dell’immagine descritta, dove si compie una rivelazione improvvisa e una qualsiasi scena ordinaria viene «resa straordinaria da un qualche dettaglio capace di illuminare», come dice Terrinoni. Il punto di Epifanie è lo sguardo, o meglio la maniera in cui lo sguardo dell’artista riesce a focalizzare l’essenza dell’immagine e poi a restituirla a parole. Una fusione non facile di sensi, di percezione e creazione. Sullo sguardo si sofferma a lungo Giacopini nel suo scritto, offrendo considerazioni importanti: «Il problema dei problemi, per Joyce è proprio questo: come lavorare sulla vista, sull’occhio, sino al punto di precisare la visione e fissare l’oggetto, un qualsiasi oggetto, cogliendone “l’anima” e rendendolo disponibile per la prosa letteraria». C’è quindi una volontà di rivelazione, in questa congiunzione di parola e visualità. Una volontà che di fatto accompagnerà Joyce fino alle estreme conseguenze delle invenzioni linguistiche di Finnegans Wake e che rivela una complessa lacerazione interiore tra la formazione religiosa (una parola come “epifania”, del resto, è gonfia di significati cristiani) e la volontà di strapparsi di dosso certi insopportabili retaggi. Leggiamone una, giusto per capire di cosa stiamo parlando. La ventesima per esattezza, in cui ben si coglie quello stato di sospensione e di essenzialità visiva della prosa joyciana.

Sono disteso sul ponte, contro la sala macchine dalla quale esala un odore di grasso tiepido. Enormi banchi di nebbia avanzano al di sotto delle scogliere francesi, nascondendo la costa da capo a capo.. Il mare si agita col suono di mille schegge…. Al di là delle mura nebbiose, nella buia cattedrale di Nostra Signora, ascolto le limpide, regolari voci dei ragazzi che cantano lì, davanti all’altare.

Anche dopo aver interrotto la scrittura di questi piccoli pezzi, Joyce non rinuncia allo scrivere epifanico. In Dubliners le epifanie vengono assorbite in un tessuto dal respiro più ampio, illuminando, nel loro breve e fulmineo apparire, l’intera narrazione. Nel racconto politico, Il giorno dell’Edera nella sede del comitato, Joe Hynes, sul finale, legge ad alta voce, ai suoi sodali, una poesia dedicata all’eroe nazionale Charles Parnell nell’anniversario della sua morte (il giorno dell’edera, appunto). Finita la lettura, una bottiglia di birra si stappa improvvisamente, nel clima emozionato della sala. Una piccola, istantanea e significativa manifestazione di un qualcosa di cui si cerca di sfiorare l’essenza. Ancor più nota l’epifania che chiude l’ultimo racconto, I morti, e con essa l’intero libro. Ambientato durante la serata di un annuale ballo natalizio, si racconta della distanza ormai insanabile tra i due membri di una coppia, Gabriel e Gretta, con lei che si intristisce nell’ascoltare una vecchia canzone che le fa tornare in mente Michael Furey, un ragazzo di Galway che l’aveva amata e che aveva sfidato la sua malattia, rivelatasi infine letale, pur di vederla un’ultima volta (per inciso: anche Nora era di Galway, e nel suo saggio in Epifanie, Terrinoni non manca di sottolineare il dato autobiografico alla base di questa novella, ideata, guarda un po’, proprio intorno all’Epifania). Nel sentire questa storia, Gabriel comprende malinconicamente quanto poco importante lui sia stato per la moglie, dovendo ammettere dentro di sé il suo fallimento, mentre fuori la neve ricomincia a scendere: «Un leggero picchiettio ai vetri lo fece girare verso la finestra. Aveva ripreso a nevicare. Guardò insonnolito i fiocchi, scuri e argentei, che scendevano obliquamente contro il lampione. Era venuto per lui il momento di andare a ovest. Sì, i giornali avevano ragione nevicava su tutta l’Irlanda. Cadeva la neve in ogni parte della scura pianura centrale, cadeva soffice sulla torbiera di Allen e soffice cadeva più a ovest, sulle scure e tumultuose acque dello Shannon. E cadeva anche su ogni punto del solitario cimitero sulla collina in cui giaceva il corpo di Michael Furey. S’ammucchiava fitta sulle croci piegate sulle lapidi, sulle lance del cancelletto e sui roveti spogli. E pian piano l’anima gli svanì lenta mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l’universo e stancamente cadere, come la discesa della loro fine ultima, su tutti i vivi e tutti i morti».

La tentazione di concludere in bellezza, citando uno dei finali più belli della letteratura del Novecento, qui nella traduzione di Daniele Benati, effettivamente c’è, ma preferisco andare avanti ancora per un pochino. Complimenti a chi è arrivato fin qui. Tranquilli, non durerà ancora molto, giusto lo spazio di una breve considerazione. Richiamando ciò che dice Giacopini in merito al suo Joyce, al giovane che si ribella, messo un po’ in disparte da chi nota soprattutto l’aspetto sperimentale di questo autore (che a sua volta risente di moti di ribellione, e non potrebbe essere altrimenti), viene da riflettere su come, pensando a Joyce, siamo effettivamente un po’ accecati dai comunque importanti discorsi stilistici. Con questo non si vuole dire che Joyce ci è stato raccontato unicamente come uno scrittore di pura forma, né tanto meno si vuole rovesciare questo aspetto e farlo passare per qualche specie di facile contrabbandiere di sentimenti a buon mercato, come tanti scrittori contemporanei. Si vuole solo sottolineare che anche del Joyce più audace (il mio Joyce, per dire, è quello di Ulysses) rimangono soprattutto suggestioni e impressioni legate ai lampi improvvisi di verità ed emotività che illuminano il labirinto di Dublino e i suoi personaggi. Proprio i personaggi sono davvero indimenticabili, ognuno con il suo peso di amarezza e rabbia e vitalità. Stephen Dedalus, certo, ma anche Leopold Bloom, Molly Bloom, Buck Mulligan, Cranly, Bella Cohen, il citizen del dodicesimo capitolo di Ulysses, i dublinesi delle novelle ricordate poco sopra, e per non dire di quelli, potentissimi, evocati in absentia: il già nominato Michael Furey o Paddy Dignam. E si potrebbe andare avanti per parecchio. Un’umanità complessa e variegata che emerge tra le onde di una scrittura che non ha mai smesso di interrogare sé stessa, fin dagli inizi. Anche per questo motivo le quaranta Epifanie che ci vengono riproposte vanno rilette e conservate come un raro tesoro.

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