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«È questo il gesto fondamentale di conquista del reale: dichiarare che l’impossibile esiste».
(Alain Badiou, Alla ricerca del reale perduto, Mimesis 2016)

Il mondo lasciatoci in eredità sta rapidamente volgendo verso un imbuto di criticità pericolose e iper-complesse, che, se forse non finirà col distruggerlo, scuoterà profondamente le basi esistenziali che lo sorreggono, incidendo su ciò che siamo soliti considerare “reale” e “impossibile”. Anche se sembrano questioni astratte, esse influiscono con veemenza sulle nostre vite, le nostre relazioni, le nostre scelte e azioni, mai davvero slegate da quello che una volta si chiamava il “Grande Disegno” e che oggi somiglia più a un Gigantesco Scarabocchio.

Le vicende di Ruthie, la protagonista di Ruthie Fear, romanzo appena pubblicato dalla casa editrice Black Coffee, sembrano quasi l’incarnazione del teorema di Badiou, ovvero dell’impossibilità di sottrarci al nuovo che incalza, e quanto questo possa risultare spaesante e terrifico. Certo, a un primo sguardo si potrebbe dubitare che questo sia l’intento del giovane autore, Maxim Loskutoff; si sarebbe infatti tentati di limitarsi a riconoscere l’elevata qualità del ritratto “locale” dello specifico spaccato socio-geografico che racconta, con una scrittura estremamente diretta e coinvolgente. Si finirebbe però col misconoscere aspirazioni ben più ampie. Inoltre, sondare livelli di significato non immediati può esaltare ulteriormente l’abilità narrativa di Loskutoff, che insieme alle vicende di Ruthie tenta anche di raccontare, almeno in parte, le vicende della modernità e della sua crisi.

Ma occorre fare un passo alla volta.

Ruthie Fear è un ricco romanzo ambientato in Montana, nella meravigliosa Bitterroot Valley, situata all’estremo limite occidentale dello Stato. Il titolo corrisponde al nome della protagonista, e la narrazione segue l’intero spettro della sua vita. Bisogna subito notare come l’autore sancisca sin dalle prime battute il solenne legame tra la vita di Ruthie, vivace bimba rossiccia, e quella della boscosa valle, e dichiari contestualmente l’interdipendenza tra l’individuo e l’ambiente entro e con cui si sviluppa: «L’anno in cui Ruthie Fear venne al mondo, suo padre sparò all’ultimo lupo della Bitterroot Valley». Inoltre, la scelta stessa della location rappresenta un presupposto importante per cogliere lo sviluppo dei temi sollevati dall’opera; perché se da un lato essa è sicuramente legata al fatto che Loskutoff sia nato e cresciuto nel Montana, e sappia dunque trasmettere con forza la bellezza dei Monti Sapphire che dominano la valle e del fiume – il Trapper Creek – che la attraversa, dall’altro è motivata dalla particolare condizione del luogo, che incarna gli sconvolgimenti causati dalle criticità pericolose e iper-complesse di cui sopra, che caratterizzano la contemporaneità. Jared Diamond, che ha dedicato un libro – Collasso (Einaudi, 2014) – proprio all’irresistibile emersione di tali criticità, adotta la Bitterroot Valley come case study esemplare per indagare sull’impatto delle trasformazioni, naturali, culturali, sociali ed economiche, in atto oggi. Così si esprime Diamond a riguardo:

«Il Montana in generale e la Bitterroot Valley nella sua parte sudoccidentale sono la terra dei paradossi», la valle in particolare è «un microcosmo di quei problemi ambientali che affliggono il resto degli Stati Uniti», e gran parte del pianeta, ovvero: «aumento demografico, immigrazione, crescente penuria di acqua e peggioramento della sua qualità, cattiva qualità dell’aria, rifiuti tossici, aumento del rischio d’incendi non controllabili, deterioramento delle foreste, calo della biodiversità, danni dovuti all’introduzione di specie parassite ed effetti del cambiamento climatico». Un luogo paradisiaco sull’orlo di diventare un inferno, come effettivamente succederà nell’opera. Il posto perfetto, in sostanza, dove sperimentare narrativamente l’intrusione delle enormi dinamiche accennate nella vita delle persone.

Stabilendo queste premesse abbiamo tracciato la cornice entro cui può essere proficuo inquadrare l’opera di Loskutoff, e la vita che racconta. Questa è suddivisibile grossolanamente in tre fasi temporali: Ruthie bambina, Ruthie ragazza, Ruthie donna. Una parabola che per ogni fase presenta delle significative peculiarità, soprattutto per quanto concerne il modo in cui Ruthie si approccia alle continue e sfidanti forme con cui il nuovo, l’altro, si presenta lungo la sua vita, ma che alla fine si configura come coerente e unitaria, quasi ricorsiva.

La fase dell’infanzia, che abbiamo visto aprirsi con l’uccisione dell’ultimo lupo della valle da parte del padre, vede una bambina senza madre crescere in una terra magnifica e potente, intimamente connessa a una natura che gli esseri umani hanno da sempre provato a dominare, ma che «si ostinava a sconfinare, scorrendo come fuoco liquido giù per i fianchi delle montagne d’estate ed emergendo a primavera sottoforma di radici che crepavano i marciapiedi», all’ombra imperitura di «vette di tremila metri» che «minacciavano il cielo con zanne rivestite di ghiaccio». Non c’è dunque da stupirsi se «a soli cinque anni Ruthie percepiva la vastità dell’universo», e che, quindi, «senza una madre, una chiesa e qualsivoglia interesse per ciò che le veniva insegnato a scuola, Ruthie plasmava la propria moralità sul comportamento degli animali». Esiste però un contraltare, che influenza parimenti la crescita della piccola Ruthie: la Bitterroot Valley è economicamente – e quindi anche socialmente – devastata, vittima del fallimento neoliberale americano. È suo padre a certificarlo, quando amareggiato nota come «ora che stanno chiudendo e le segherie e le miniere […] i boschi saranno solo per i ricchi». Di fatti Rutherford, il padre, dopo aver perso il lavoro, finisce per assumere su di sé il peso del cambiamento epocale in atto nella valle e in tutto il Montana, ritrovandosi solo e squattrinato, costretto a crescere la figlia in una piccola «casa mobile color foglia di tè» dal tetto in lamiera. Una casa dove «spesso Ruthie aveva troppo freddo, o troppo fame». Un’ossimorica atmosfera di lussureggiante declino, dove a godersela sono solo i ricconi che acquistano mega proprietà, isolandosi a decine di miglia dagli abitati, in complessi autonomi raggiungibili solo con appositi jet privati.

Una terra che, dietro a queste contraddizioni lampanti, ne nasconde una più profonda e radicata, impossibile da estirpare; perché se gli abitanti sono in qualche modo legittimati a sentirsi ingannati dallo Stato, che prima li ha sedotti e adesso li lascia impoveriti preferendo i facoltosi californiani, ad aver subito il vero furto è la precedente popolazione autoctona, il «Popolo del Diluvio», scacciato dall’invasore bianco qualche secolo prima. Di tale anatema la gente della valle è perfettamente consapevole, e anche Ruthie lo impara presto, poco dopo un violento terremoto che sconquassa la valle e sfonda il tetto della casa mobile, e che viene subito accostato dai locali alla «maledizione del Charlo», il vecchio capo del popolo indigeno.

È in un contesto tanto complicato e sull’orlo dell’annichilimento che cresce Ruthie; all’opera vi sono forze colossali e per lo più sconosciute, che però la bambina, come il “fanciullo” di nicciana memoria, riesce se non a comprendere e dominare, per lo meno ad approcciare e integrare nella propria esistenza. Tale capacità è magistralmente resa da Loskutoff, che condensa la magmatica mole di energie e contraddizioni attorno a cui gravita la vita di Ruthie in una precisa entità, la cui apparizione, fortemente allegorica, segnerà indelebilmente il destino della protagonista:

«La creatura prese forma poco a poco, con un certo sforzo. Un essere piumato, che si diresse al torrente avanzando su due lunghe zampe allampanate con l’articolazione al contrario come gli uccelli. Le penne erano grigie con una vaga sfumatura perlacea, mentre il corpo si curvava in una forma unica che ricordava un organo. Un rene. Era un essere deforme e sgraziato. Un mostro, anomalo nella sua instabilità. Il particolare che terrorizzò Ruthie, però, e le fece venire voglia di gridare, fu l’assenza di testa».

Un abominio inquietante, un’alterità totale, che aleggerà minacciosa per tutto il racconto, fino all’epocale rientro in scena, nel finale. Ciò che bisogna adesso sottolineare è che Ruthie, seppur spaventata dalla creatura, ne sostiene convintamente l’esistenza di fronte all’incredulità un po’ derisoria del padre – «la prossima volta falla fuori. La vendiamo all’università» – anche se quella non sembra volersi fare più vedere.

In sostanza, l’universo di Ruthie bambina, seppur oppresso da un ecosistema sociale decadente e tossico, è un luogo dove, grazie anche alla disponibilità immediata del sublime naturale – che disinnesca in qualche modo la triste disillusione che sprizza dagli adulti – c’è spazio per il nuovo, per il prima-non-considerato, per l’Altro. Un luogo abitato da piante, animali, spiriti e uomini, dove è ancora possibile scoprire, creare, cercare la propria strada in accordo con quelle di tutti gli altri esseri – “reali” o meno – che vi esercitano l’esistenza.

Crescendo però, le cose cambiano.

Loskutoff fotografa il rito di passaggio dall’incontenibile infanzia alla complessa giovinezza, l’attimo preciso in cui, per Ruthie, il reale inizia a restringersi e l’elemento sociale e prettamente “umano” – nel senso moderno del termine: separato/diverso dalla natura – inizia a prendere il sopravvento; Rutherford si convince che deve insegnare alla figlia, poco più che bambina, a sparare. Quella mattina Ruthie impara a maneggiare magistralmente il grosso fucile del genitore, e contemporaneamente a spezzare la magia del proprio mondo di disinteressato stupore, in favore del mondo dei calcoli e dei fini:

«Dentro di lei scattò come un interruttore. Cominciò a sparare non per conquistarsi l’amore del padre, ma usandolo a proprio vantaggio. Imbrigliò la sua bravura – quella che l’aveva portato a uccidere l’ultimo lupo da centocinquanta metri su una collina ondulata coperta di artemisia, come tanti altri animali prima e dopo – e si accorse che poteva farla propria».

L’apertura della fase narrativa dedicata a Ruthie ragazza conferma tale frattura nel modo più netto possibile; parlando con l’amica Pip della creatura senza testa, alla vigilia dei vent’anni, Ruthie arriva a dire che «forse non era reale» e che «magari me la sono inventata». Si irrigidiscono così i confini del “reale”.

Uno degli elementi chiave di questo processo è la percezione del padre, che cambia quando Ruthie non è più una bambina. Rutherford reagisce al crollo del mondo in cui è cresciuto esclusivamente in due maniere: lamentandosi e/o arroccandosi in uno stile di vita comicamente superomistico: «Quando si trattava di caccia era proprio un integralista. Gli piaceva partire in svantaggio: si portava solo tre frecce, niente bussola e mai che avesse con sé una radio».

Sarà però la presa di coscienza definitiva rispetto all’effettivo stato di deterioramento – naturale e sociale – della valle a costringere Ruthie verso l’adozione di una nuova strategia: la fuga. «Di colpo sentì di aver scoperto un altro aspetto deprecabile del mondo moderno: era fatto apposta per far sembrare normali cose terribili». Ruthie ormai ha capito che la Bitterroot è caduta vittima del progresso, e che, come predetto dal padre, l’indomita valle boschiva è stata ridotta a parco giochi per benestanti, soffocata dall’asfalto, dai resort e dagli impianti sportivi. Un luogo da cui le possibilità di crescita e realizzazione sembrano bandite.

Quello che accade al cosmo di Ruthie è un univoco appiattimento su ciò che la cultura considera “reale”. Chiamando ancora in causa Alain Badiou, possiamo affermare che per Ruthie ragazza questo assuma una valenza «essenzialmente intimidatoria», che la forza a «comprendere che non si può fare nulla contro il reale». Loskutoff cristallizza questo passaggio ricorrendo ancora una volta a un rituale incentrato sull’utilizzo delle armi, una battuta di caccia all’alce che, se una volta implicava un certo livello di preparazione e una sfida ad armi pari con le prede, oggi, finita nel vortice della modernità, finisce per somigliare più al tiro a bersaglio di un luna park. Decine di persone parcheggiate con i propri pick-up, a bere birra con le armi a tracolla di fronte a un prato aperto dove gli animali non possono avere scampo.

«Tra un furgone e l’altro la gente aveva piazzato sedie e sdraio, e i cacciatori si erano portati non solo i fucili, ma anche armi d’assalto come AK, AR-15 e pistole Desert Eagle modificate. Quasi tutti i cacciatori erano gente mai vista prima, scese per il fine settimana da Missoula e Salmon».

Ruthie partecipa alla battuta – un massacro a metà tra il trash e lo splatter – raggiungendo l’afelio rispetto al sole della propria infanzia: «Posò il fucile e nascose la faccia fra la terra. Ripensò all’affinità che percepiva da piccola con gli animali, come se anche lei fosse parte del mondo naturale». Ancora una volta in lei scatta un interruttore: «Era lo spettacolo più brutto cui avesse mai assistito, e si rese conto di averne fatto parte anche lei. Dovette chiudere di nuovo gli occhi. Nelle tenebre che le ghermirono la mente si ritrovò a odiare tutto e tutti. Ma più che altro sé stessa».

Un odio che di lì a poco si fa insopportabile, quando Ruthie si trova nel mezzo di una tentata rapina al «casinò-benzinaio», dove il giovanissimo rapitore, che spira fra le sue mani, viene crivellato da due cacciatori intervenuti per sventare il furto di alcune centinaia di dollari dispensando piombo e morte, da buoni eroi americani. A questo punto per Ruthie, sconvolta dall’inarrestabile e sanguinolenta invasione del “reale” – sperimentato per la prima volta come un ché di fisso e violento, non aggirabile o discutibile, e dunque come un ché di nuovo, impossibile da integrare alla propria esistenza – non resta che la fuga. In quanto alla destinazione, Loskutoff non poteva essere più allegorico: dagli sconfinati boschi della Bitterroot Valley a quanto di più diametralmente opposto possa venire in mente: Las Vegas.

La parentesi nel Nevada, costellata di sfruttamento e patriarcato, non dura però moltissimo. Las Vegas, un «incubo partorito dall’uomo», incarna quel frenetico e brutale “reale” da cui Ruthie pensava di potersi salvare fuggendo dalla valle, ma che invece sembra inseguirla, o che forse è ormai diffuso ovunque, irrimediabilmente. Dopo poco, infatti, Ruthie fugge anche da Las Vegas.

Nella successiva fase del racconto, Ruthie, tenterà di giocarsi l’ultima carta disponibile, ovvero l’accettazione del “reale” e della sua rigidità, mediata dalla ricerca di un equilibrio personale.

Oltre che dall’età – Ruthie è ormai ultratrentenne – questo tentativo è spinto da alcuni elementi positivi, che Loskutoff predispone, pare, in vista del loro inevitabile e tragico rovesciamento. Innanzitutto, Rutherford, che riesce finalmente a sposarsi, e se anche non sembra granché cambiato, per lo meno non è più dilaniato dalla rabbia, mostrandosi agli occhi di Ruthie come «il più fiero e sgangherato dei poveracci». In secondo luogo, Pip, «ancora impegnata nella caccia alla creatura senza testa», che con la sua virginale apertura all’impossibile, rimasta immutata, aiuta Ruthie a costruirsi un fragile equilibrio, e a definire in maniera più bilanciata e sopportabile i caratteri del proprio “reale”.

Ciò si manifesta nella rinata passione di Ruthie per la natura, con le implicite conseguenze sul suo atteggiamento nei confronti della vita. Il tutto accade in concomitanza al trasferimento in valle di Jon Sitka, ex giocatore professionista di football, che, in piena sintonia con la fase attraversata da Ruthie donna, è «una creatura smarrita e sfuggente riportata all’età dell’innocenza» a causa di una sequela di violenti colpi alla testa. Il rapporto che nasce con Sitka ha le potenzialità di risultare salvifico, come uno stratagemma, un compromesso, in grado di riportare una scintilla di magia nella vita, anche solo un flebile riverbero rispetto alla potenza di quella infantile.

Proprio quando le cose sembrano prendere un verso piacevole, riappare la creatura, avvistata da Hector, il giardiniere di Sitka; è il prologo della tragedia. In valle infatti le cose non vanno affatto bene, la gente è dilaniata dalle consuete divisioni e continua a maledirsi a vicenda, le verdi praterie sono ormai ricoperte di asfalto, i ricconi infestano ogni angolo; la “realtà” continua a replicarsi ricorsivamente. Sitka stesso si rivela portatore di un male psicologico – causato dai troppi colpi presi in carriera e dalla susseguente imbottitura di psicofarmaci – che lo rende a tratti violento e pericoloso, e che infine lo convincerà a fuggire per non mettere Ruthie in pericolo.

La fuga di Sitka costituisce una drastica riapertura della frattura fra “reale” e impossibile; subito dopo infatti, con la riapparizione davanti a Ruthie della creatura – sempre la stessa, ancora altera e senza testa – e gli eventi che la seguiranno, la storia giungerà presto a una conclusione. E tale spaccatura si imporrà in modo insanabile.

Perché nonostante gli anni e le esperienze, nulla è cambiato; il nuovo, l’impossibile, lo sconosciuto, è ancora là, immutato e in perfetta salute. L’unica differenza è che ormai Ruthie ha esaurito le carte, è a corto di strategie. Da bambina sperava di rivedere la creatura e tentava di integrarla nella propria esistenza, da ragazza ne ha rifiutato l’interazione, fuggendo. Ora, da donna, quella è di nuovo di fronte a lei, a dimostrare che non conta quanto sia inclusivo o rigido il tuo “reale”; alla fine l’impossibile tornerà sempre a sconvolgerlo.

Così, Ruthie, spara. Spara per uccidere, come il mondo le ha insegnato.

L’eliminazione, rispetto al rifiuto/fuga tentato da ragazza, contiene un diniego ancora più radicale. Perché se per fuggire da qualcosa, di quel qualcosa è comunque necessario riconoscere l’esistenza, l’abbattimento rivela la non disponibilità a legittimare l’Altro, che semplicemente non dovrebbe, e dunque non può, esistere.

Il problema è che stavolta la creatura non è sola, e «nella valle in lontananza risuonarono altri spari». Tutti hanno ucciso, nessuno è riuscito a rimanere lucido di fronte all’irruzione dello sconosciuto: «I corpi erano ammassati alla bell’e meglio. Una folla di uomini e donne si aggirava nei pressi di due camion dei pompieri e di un muletto. Era stato un vero massacro». Poco prima dell’ultimo atto Ruthie si chiede se, ammazzare quelle creature «del tutto innocue», fosse stato un atto dettato dalla paura o dalla rabbia, ma il tempo per darsi una risposta non ci sarà. I pompieri decidono di dare fuoco alle carcasse. Un denso fumo nero inizia a riempire la valle, i jet privati dei ricconi sfrecciano il più velocemente possibile via da quell’inferno. Ruthie è condannata, e con lei tutta la valle.

La maledizione del Charlo, alla fine, si realizza.

In conclusione, Loskutoff condanna Ruthie e la valle intera all’autodistruzione, terminando così nell’unico modo possibile l’infinita ricorsività del “reale”. Dopo averne raccontato le contraddizioni e il tormento sondandone le sfaccettature più critiche, e aver reso conto dell’irrisolvibile tensione tra il “reale” stesso e l’impossibile che lo minaccia, pare volerci dire che non c’è spazio per la fuga, né tanto meno per l’eliminazione dello sconosciuto dalle possibilità del mondo, per quanto spaventoso possa essere. Ruthie, dal canto suo, incarna almeno in parte quello spirito contemporaneamente aperto, ostinato e deciso, che riesce a non ignorare la minaccia, a non escludere a prescindere ciò che non sembra aver diritto a far parte del “reale”. Almeno fino alla conclusione, quando la paura – Fear – prende il sopravvento.

Un racconto che, infine, ci mostra che quando decidiamo di sparare prima di conoscere, e di bruciare tutto prima di capire, rifiutando l’impossibile, la conquista del reale non può che fallire.

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