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«Generazioni superflue generano reazioni.»
(Santo Niente – Generazioni)

La realtà, la lealtà e lo scontro

Esiste un posto dove domani non è mai un altro giorno. O almeno è esistito, trent’anni fa, in provincia di Pescara, la «costa nostra» dei punk disprezzati dai genitori e compatiti dai vicini di casa, convinti che il loro problema fosse lo spazio e dunque in fuga perenne, con il desiderio di sconfiggere il tempo ma, fatalmente, senza la consapevolezza di essere già stati superati dagli eventi.
È la primavera del 1992 quando in libreria appare un libro dal nome troncato, La guerra degli Antò s’intitola. L’autrice si chiama Silvia Ballestra, ed è su piazza già da un paio d’anni grazie a Pier Vittorio Tondelli, che prima l’ha inserita nella raccolta Papergang (due racconti: Cronica de’ culti di Priapo renovanti in Bologna e La via per Berlino) e poi l’ha lanciata con la raccolta Compleanno dell’iguana (1991), dove già si vedono gli Antò, il mondo di mezzo tra le Marche e l’Abruzzo, l’emarginazione come medaglia da appendere al petto (possibilmente sulla pelle, con uno spillone) e quel divertito senso di indomita impotenza di fronte a un mondo che cambiava con una velocità senza precedenti.

Si dice più o meno da sempre che la provincia è una grande riserva. Di cosa non si sa. Di storie, forse. Di lingue e consuetudini, di certo. Di merda, secondo molti editori. E se abbiamo imparato che dai diamanti non nasce un bel niente, che dal letame infine possa nascere qualcosa di buono non è affatto sicuro.

Gli Antò sono quattro punk relativamente brutti – più relativi che brutti – che vivono la fine della storia in provincia di Pescara, un territorio di frontiera che non ha nulla da invidiare al selvaggio west, tra popolazioni indigene che si comportano in modo strano, territori da conquistare e da difendere, profonde solitudini e quella strana, inebriante, sensazione che tutto sia sempre possibile, ovvero che le cose possano andare sempre peggio. Il che non è necessariamente un male, perché vuol dire che almeno si muovono. Silvia Ballestra – qui autoproclamatasi la Sballestrera – segue in seconda persona le disavventure dei quattro Antò che vorrebbero tanto levare le tende dalla terra natale ma che si ritrovano puntualmente invischiati sempre nelle stesse situazioni, perché l’inquietudine non ha una dimora fissa ed è capace di seguirti fino in capo al mondo. Si ride molto, nella Guerra degli Antò, ma sotto le battute ricorrenti e le situazioni ai confini della realtà, il filo della malinconia per un presente inafferrabile e, a tratti incomprensibile, si vede benissimo. Il mito è la fuga, e allora il paradiso ha le sembianze non meno che epiche di Bologna e di Amsterdam, là dove per andarci «ci vuole coraggio», ma forse ce ne vuole pure di più per rimanere a Montesilvano. E in fondo è tutto qui. Nel 1999 Riccardo Milani porterà gli Antò al cinema, mischiando vari racconti di Ballestra, tra nebbie adriatiche e ingenuità che brillano di luce propria come diamanti grezzi in un tempo in cui tutto sembrava essere cambiato di colpo.

Ma quanto deve Silvia Ballestra a Pier Vittorio Tondelli? Lei ne parla poco, anche perché l’impressione, giustificata, è che si stia discutendo di cose molto vecchie, ma la domanda ha più di un qualche fondamento. Mettiamo ordine, oltre ad aver sostanzialmente importato la letteratura postmoderna in Italia, Tondelli negli ultimi anni della sua vita ha collaborato con una casa editrice marchigiana, Transeuropa, curando tre importanti raccolte di giovani scrittori italiani: Giovani blues. Under 25, Belli & perversi. Under 25 secondo e il già citato Papergang. Tra questi autori, alcuni sarebbero sbocciati mentre altri sarebbero al contrario scomparsi nel nulla – o, meglio, semplicemente si sarebbero dedicati ad altro. Silvia Ballestra apre il terzo volume della serie, uscito esattamente un anno prima della morte di Tondelli. E qui la biografia è tutto: «La verità è che quando l’ho conosciuto, Tondelli stava già male. L’ho frequentato pochissimo».

L’evoluzione, il grande salto, per Silvia Ballestra arriva nel 1994, quando per Feltrinelli esce Gli orsi, raccolta, anzi rassegna, di tutto quello che gli Antò avevano annunciato: una serie di scorribande nel labirinto di quelle che allora si chiamavano «sottoculture giovanili», un calderone trash in cui politica, horror, colonie penali nel cyberspazio e inquietanti profezie elettorali (siamo nell’anno del primo trionfo di Berlusconi) si incontrano e fanno a botte. Il risultato, anche questa volta, è divertentissimo. Il problema è che in queste schegge impazzite spacciate per racconti è sin troppo facile perdersi: il gioco di citazioni altissime e di rimandi al peggio che possa partorire la provincia italiana ha un tono psichedelico che toglie il fiato, e così le 160 pagine scarse appaiono più come una scazzottata da bar che come un’opera letteraria. È un bene? È un male? A distanza di tanti anni il mistero non appare risolvibile. Si intravedono chiaramente le inquietudini degli anni ’90, periodo ancora da storicizzare fino in fondo, diversissimi sia dalle velleità rivoluzionarie degli anni ’70 sia dal riflusso degli anni ’80. Un decennio sgradevole, capace di partorire cose sgradevoli, dissonanti, provocatorie, bellissime, poetiche. Tutto insieme. La vera cifra letteraria de Gli orsi è l’incertezza, laddove, però, certezza è sinonimo di morte.

Nello stesso anno, un altro scrittore – bolognese purosangue, lui – dà alle stampe un romanzo intitolato Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Enrico Brizzi e Silvia Ballestra sono stati messi spesso in parallelo, ma la differenza tra i due è evidente, e sta tutto nel (memorabile) sottotitolo del romanzo del primo: Una maestosa storia d’amore e di rock parrocchiale. A differenza della laida Bologna, il confine tra le Marche e l’Abruzzo dove è cresciuta e si è forgiata Silvia Ballestra è un posto in cui chi anche solo si azzardi a pensare a un’espressione come «rock parrocchiale» verrebbe preso a calci sui denti. E se il cattocomunismo è la cifra intellettuale, sociale e politica di Bologna, nelle terre tra l’ex Stato Pontificio e il Regno delle due Sicilie il cattolicesimo era un dovere (da rigettare) e il comunismo proprio non è mai arrivato. C’è molta anarchia, in compenso, nel senso che ogni potere viene automaticamente guardato con sospetto. E se non lo si può combattere (per evidente squilibrio di forze) lo si può sempre fregare. Brizzi, ad ogni modo, sulla questione generazionale non tornerà mai più dopo l’enorme successo di Jack Frusciante che, tra le altre cose, gli fruttò una scritta di rara, sottilissima cattiveria in zona Stazione, a Bologna: «Il giovane holding». Silvia Ballestra, invece, continuerà a scavare, e alla holding non ci arriverà mai, preferendo il binario parallelo della provincia ostentata, ricercata, voluta, messa definitivamente in contrasto con la vita mondana e un po’ finta delle grandi città e dei loro circuiti. Gli orsi, in questo senso, rappresenta la chiusura un capitolo della sua carriera: una rissa sotto forma di raccolta di racconti per annunciare che la guerra può pure finire, ma di seppellire l’ascia non se ne parla proprio. La critica si interroga: cosa ne sarà della scrittrice punk scoperta da Tondelli e capace di infiammare il dibattito con il suo linguaggio a metà tra l’italiano più aulico e il dialetto arcigno delle Marche e dell’Abruzzo?
Dice lei: «Il linguaggio di un posto bisogna ascoltarlo incastonato nel suo paesaggio, non andrebbe lasciato solo nello spazio bianco di una pagina. Avere a che fare con queste parlate è come vivere su un vulcano, non sei mai veramente al sicuro». La storia, si sa, a volte ha bisogno di una spinta. Il millennio sta finendo e l’inquietudine è alle stelle quando Silvia Ballestra ritrova Joyce Lussu.

Contro il Padreterno

Il millennio, in realtà, non sta proprio finendo. È solo, quello sì, al suo ultimo giro. Il primo incontro tra Joyce Lussu e Silvia Ballestra risale al 1991. L’occasione è una specie di sabba in cui una schiera di streghe, ciascuna con un manoscritto sotto braccio, prova a condividere l’opera del proprio ingegno con le altre. È una sera di novembre, siamo a Porto San Giorgio, fuori piove a dirotto e Joyce offre tabarri coloratissimi e pelosissimi alle sue ospiti. Si parla, si parla tantissimo, di tutto. Tra Silvia e Joyce c’è qualcosa. Forse è quella lontanissima parentela che le legherebbe, o forse è che l’eterogenesi dei fini è qualcosa più di un concetto astratto da empiristi. Di sicuro Joyce Lussu è quello che serve a Silvia Ballestra per coprire gli spazi lasciati vuoti dall’epica provinciale della sua poetica giovanile. È una questione di biografia: quella di Joyce è pazzesca.

Nata Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, coniugata Belluigi e poi Lussu, come da tradizione familiare, Joyce non è mai andata a scuola prima di iscriversi all’università di Heidelberg, in Germania, per seguire le lezioni di Jaspers. Poi, certo, l’arrivo del nazismo, la fuga in Svizzera, dunque in Francia e in Portogallo, la laurea alla Sorbona, il primo matrimonio, la resistenza e l’incontro con Emilio Lussu. L’uomo che le cambierà la vita e il cognome. E ancora: da Porto San Giorgio alla Guinea Bissau, le lotte all’imperialismo, la stima di Croce, l’incomprensione – figuriamoci – di Sereni, gli incontri, la militanza nel senso più ampio, letterario e sostanzialista del termine. Di Joyce Lussu si è sottolineato quasi sempre l’anticonformismo, il suo essere ribelle quasi a tutti i costi, nell’eccesso di biografismo che connota buona parte della critica italiana, soprattutto quando si parla di una scrittrice. Il cognome, d’altra parte, fa molto: Emilio Lussu è stato uno dei personaggi centrali dell’Italia del Novecento, ha scritto cose importantissime e il suo impegno politico in Giustizia e Libertà e nel Partito Sardo d’Azione ha influito su generazioni di più o meno consapevoli militanti. Naturale, dunque, che una figura come la sua finisca per proiettarsi sopra qualsiasi cosa lo abbia circondato in vita e pure oltre.

Silvia Ballestra intervista Gioconda Salvadori diciannove volte per scrivere Joyce L. Una vita contro (Baldini & Castoldi, 1996). La dimensione pubblica non si può scindere da quella privata, Ballestra compone così un saggio innamorato più che ammirato, in uno sforzo tale che per concludere questo lavoro decide addirittura di lasciare nel cassetto un romanzo (uscirà comunque due anni dopo: La giovinezza della signorina N.N., sempre per Baldini & Castoldi). La complicità è evidente: la marchigianità comune si mescola con le ascendenze britanniche, e le confidenze del secolo breve (o lungo) emergono in una costellazione di Antò che non sono nati a Pescara ma che ne hanno fatti di tutti i colori in ogni angolo del mondo. Contro ogni padre, ogni padrone, ogni padreterno. È un fatto di libertà, una garanzia. Come quella volta che, nell’autunno del 1943, attraversando l’Italia in pieno caos post 8 settembre, Joyce si imbatte nel figlio di Axel Munthe, Malcolm, e quasi non ci scappa una storia d’amore. Lì per lì non se ne fa niente, poi però il bell’ufficiale arriva a Roma e la invita. Lei rifiuta, consapevole del fatto che se avesse accettato il corso della sua vita sarebbe cambiato. Il mai avvenuto adulterio è una testimonianza di lealtà che va oltre le dinamiche di potere e quelle relazionali, è un segno di vita. E cos’è la letteratura se non il tentativo di lasciare un segno nella vita?

È così che prende forma quello che probabilmente è il nucleo centrale della poetica di Silvia Ballestra: l’autobiografia collettiva, la terra letteraria in cui si prova a guardarsi allo specchio per capire se si è ancora in grado di riconoscersi. Il viaggio delle generazioni attraverso le proprie questioni personali incontra la storia, ovvero gli eventi che riguardano tutti. Il concetto è lo stesso alla base dei gruppi jazz: ciascuno suona per sé, ma solo insieme quello che si sta facendo acquista un senso. Joyce Lussu ha lasciato in eredità a Ballestra questo insegnamento fondamentale: puoi stare a Grottammare o in Kurdistan, in un salotto di letterati o in mezzo ai rappresentanti del sindacato dei camionisti di Spagna, il discorso però non cambia mai: esiste una catena di solidarietà che unisce ogni persona, una catena invisibile di cui tutti siamo anelli e quando se ne spezza uno il problema riguarda tutti quanti.

Il punk è fottere il punk

La maturità arriva quando si trova il coraggio di parlare d’amore senza vergognarsi. Anno 2001, Rizzoli dà alle stampe il nuovo romanzo di Silvia Ballestra, Nina. La storia è quasi autobiografica: Nina ha vent’anni e studia a Bologna, un bel giorno, per caso, in un negozio di dischi incontra il giornalista Bruno. Tempo una settimana e i due già vivono insieme. Ovviamente la vita è una cosa complicata e la coppia è costretta ad affrontare scelte di vita difficili, fino a che non avviene l’evento più importante di tutti: Nina e Bruno diventano genitori. «Un romanzo pericolosissimo», dice oggi Ballestra. La leggenda – la maledizione? – vuole che non poche persone abbiano deciso di avere un bambino dopo aver letto questo libro. E il punk, che fine ha fatto? Dove stanno il rifiuto come opzione principale, la vocazione alla rissa, le bastonate come carezze e le carezze come bastonate? Lester Bangs scriveva che il punk è sostanzialmente fottere il punk, e allora ecco che avere un figlio all’esordio del ventunesimo secolo è un atto che appare come l’ennesima sfida al tempo che passa. La trasformazione è uno stravolgimento, da studentessa annoiata e fuoricorso a madre, quasi senza pensarci. Da Bologna a Milano, per dirla in termini geografici, con un tamburo che batte dentro e scandisce il passaggio da una forma all’altra, fino al lungo travaglio e alla non definitiva ma comunque epocale scoperta di se stessi. Un modo per dire alla vita che non fa più paura. Gli Antò sono sempre lì a guardare, ma anche loro ormai sono uomini fatti e finiti, un po’ strambi, certo, ma finalmente in grande di fare a cazzotti col mondo senza doverle prendere sempre per forza sul muso. Basta questo? Certo che no, la luce dell’aurora, si sa, è qualcosa che non è dovuto a tutti. Il punto centrale di Nina riguarda lo stile, il tono della narrazione. Silvia Ballestra qui appare dolce come forse non lo è mai stata prima, affresca una storia semplicissima di luoghi più che di persone, evitando ogni concessione alla smielata retorica del diventare madre. E questo anche se il pulcino nella copertina della prima edizione farebbe sospettare il contrario. La posta in gioco, invece, è tutta lirica: la provinciale Silvia – pardon, Nina –, dopo il passaggio intermedio nella protettiva Bologna – protettiva perché in fondo parliamo della città in cui si sommavano e si sommano ancora tutte le province italiane – va in città. Milano è una città i cui difetti sono palesi e della quale è sin troppo facile parlare male, ma, per geografia o per suggestione, può godere di una luce spaventosamente bella. All’alba e al tramonto i contorni di Milano sembrano disegnati, irreali. Non è bella, perché la bellezza è un malinteso. Non è brutta perché la sera è troppo stanca per pensarci e al mattino sembra ancora di sognare. Non è un luogo perché non c’è mai il tempo per fermarsi da qualche parte. È una città che vive di negazioni, l’unica però dove la punk Ballestra ha trovato il suo centro di gravità permanente. E ancora adesso, benché trascorra diversi mesi all’anno nelle Marche, separarsi da quella città le appare quasi impensabile. Certo, se glielo chiedi, lei ti dice che prima o poi se ne andrà. «Quando i figli saranno cresciuti» sostiene, ma solo una mezza verità. Là dove la mezza bugia è Milano stessa.

Cambio di stagione

A questo punto Silvia Ballestra è dunque diventata grande. E i grandi hanno un sacco di cose da fare. Il primo decennio del terzo millennio è carico di passione e di battaglie. I libri si ammucchiano (Il compagno di mezzanotte, 2002; Senza gli orsi, 2003; Tutto su mia nonna, 2005; La seconda Dora, 2006; Piove sul nostro amore, 2008), così come gli articoli scritti per lo più sull’Unità, le prese di posizione, le interviste fatte, quelle rilasciate. Sono anni intensi, in Italia, il berlusconismo sembra una lunga autostrada senza uscite e qualcuno deve pur cercare di stoppare le auto in corsa verso il baratro. Silvia ci prova. Lotta, litiga, si dà da fare. Nel 2009 Silvio Berlusconi vuole da lei 200.000 euro. L’oggetto del contendere sta in due articoli usciti in estate, in cui l’allora premier viene preso a ceffoni per le sue mancate partecipazioni agli impegni internazionali e il contemporaneo impegno con la escort Patrizia D’Addario. Lei la prende ridere: «Mi chiede una cifra spaventosa. Undici anni di lavoro di un italiano medio, e per me pure di più. Un paio di settimane di Ronaldinho. Cento notti di lavoro, duro lavoro, di Patrizia D’Addario».

Il 2009, comunque, porta anche un’altra cosa con sé. È l’anno del romanzo più difficile, sottovalutato e controverso dell’intera carriera di Silvia Ballestra. I giorni della rotonda è l’epopea definitiva della provincia, quella vera, anestetica e crudele, dove ogni cosa appare destinata a normalizzarsi, ovvero a impantanarsi nelle inevitabili chiacchiere, nei retropensieri, sotto la cappa di disagio che certi giorni si respira come un gas. È la grande palude italiana, dove il trucco è tutto nel sapere dove si trovano le gabbie della zanzare. Per starne alla larga.

I giorni della rotonda è costituito da tre storie ambientate a casa, a San Benedetto del Tronto, in cui il naufragio del motopeschereccio Rodi, l’extraparlamentarismo, la lotta armata, l’eroina, l’amicizia e l’oblio sono lo stesso ingrediente. Il giudizio che ne esce sulla generazione delle grandi illusioni è giustamente pesantissimo e se in città si mugugna perché si è scelto di romanzare una storia in qualche modo ancora viva, la verità sta altrove: in questo romanzo Silvia Ballestra individua la piaga e ci infila dentro non un dito ma tutta la mano. La sconfitta di quella generazione non è politica, ma personale. Non è vero che le ragazze e i ragazzi della Rotonda di San Benedetto stavano per fare la rivoluzione e il potere li ha fermati con le cattive (gli schiaffi, le manganellate, gli arresti e l’eroina). È vero, al contrario, ovvero che il non essere riusciti a fare la rivoluzione è stata una questione di verità. Intima e profonda come il sequestro e l’omicidio di Roberto Peci, fratello di Patrizio, il primo pentito nella storia delle Brigate Rosse. Quando molti sapevano e tutti hanno taciuto, preferendo mettere l’immondizia sotto al tappeto e continuare a far finta di niente, come da secolare tradizione strapaesana. Altro che rivoluzione, qua sono tutti come i loro genitori e i loro nonni: avidi e un po’ stupidi, arrivisti e fanatici del tirare a campare, costi quel che costi. Gli Antò ridono, e il loro è un riso amaro: il tempo è un giudice severissimo, e non si lascia domare da nessuno. Ma non si è mai profeti in patria, e la delusione per la gelida accoglienza nel borgo natio è più che per la gente comune, che il libro l’ha pure comprato, per parte della molto presunta classe intellettuale cittadina. A tal proposito torna utile il parere di un libraio raccolto dall’Adnkronos: «Da noi c’è ancora l’epopea di quel periodo sul quale non è stata fatta una ricostruzione storica. E così si tende a romanzare». Per Silvia Ballestra è un verdetto amaro. Anche se il vecchio detto sull’inesistenza dei poeti in patria non dovrebbe lasciare dubbi.

Il problema con gli anni del terrorismo è che, in realtà, la storia è molto semplice: un gruppo di ragazze e di ragazzi, a San Benedetto del Tronto come in centinaia di altre città italiane, ci ha provato e a un certo punto ha anche creduto di farcela. E però ha perso. Si dice che dei morti – in senso personale o generazionale, è uguale – non si possa che dire bene, in certi casi, però, le sentenze parlano da sole. E non è soltanto una questione di tribunali, è che davvero non è rimasto niente. I rivoluzionari in armi si sono tutti sposati, hanno fatto i figli, sono diventati la versione patetica di quello che credevano di aver combattuto, senza accorgersi che mentre percorrevano gioiosi la strada della rivoluzione, in realtà in fondo al sentiero c’era soltanto la cara, vecchia, agognata normalità della provincia. La palude. C’è chi ci vive bene. Forse perché incapace di immaginare davvero qualcosa di diverso. È qui che la scrittrice degli Antò ha incontrato l’altra faccia del mondo un tempo descritto con la furia iconoclasta del punk e ora crudele perché indolente, menefreghista, in qualche maniera addirittura meschino. L’episodio cardine è del 2011, quando Silvia è in città per presentare il libro che Walter Veltroni ha scritto mettendo in relazione il caso Peci con quello di Alfredino Rampi, una coincidenza esclusivamente temporale e che però l’ex sindaco di Roma vorrebbe far diventare qualcosa di più, riflettendo (si fa per dire) sull’Italia televisiva di cui già aveva detto tutto Umberto Eco con la sua fenomenologia di Mike Bongiorno. Il luogo, comunque, è la Palazzina Azzurra di San Benedetto, sedicente tempio culturale della cittadina adriatica e un tempo sala da ballo estiva per vecchi marpioni in cerca di un ultimo sussulto. Le palme che popolano il giardino della Palazzina si muovono in maniera strana. Non c’è un filo di vento eppure si sente il fruscio delle foglie. Si tratta dei topi che si arrampicano e che periodicamente cadono con un tonfo secco a terra. Poi si rialzano, zompettano su per il tronco e ritornano a farsi gli affari loro tra i rami. Veltroni è terrorizzato e la presentazione scorre in fretta e furia onde evitare spiacevoli incidenti con i roditori. Sarebbe stato un momento sommamente punk, ma il copione provinciale, ormai, non prevede più gag di questo tipo. L’importante, al netto di tutto quello che si può dire o non dire, è esserci a eventi del genere. Anche se Peci e Rampi non c’entrano nulla l’uno con l’altro, anche se Silvia prova a dirlo, anche se Veltroni finge di non capire, preoccupato com’è a evitare che un topo gli cada addosso. Il pubblico finge interesse e non fa caso a nessuna di queste cose. O forse sì. Va’ a sapere: è la provincia, qui i guai si risolvono negandoli.

This is my generation, baby

Il tempo passa e i libri continuano a uscire. L’incontro tra Silvia Ballestra e Tullio Pericoli porta nel 2011 a un ritratto poetico delle campagne marchigiane (Le colline di fronte, Rizzoli), i successivi Amiche mie (Mondadori, 2014), Christine e la città delle dame (Laterza, 2015) e Vicini alla terra (Giunti, 2017) mettono a fuoco i soliti temi civili e politici, ma in realtà rappresentano il preludio a una nuova rivoluzione. Arrivati ormai al tempo presente, possiamo dire che l’intera carriera di Ballestra è stata un alternarsi di preparazioni a qualcosa e, appunto, qualcosa. È il 2019 quando, per Bompiani, esce La nuova stagione. Il titolo è metà partita, va da sé. La storia è quella di un ritorno a casa: le sorelle Nadia e Olga ereditano un terreno nelle Marche e devono ingegnarsi per provare a venderlo. La rassegna di personaggi che sfila loro davanti è memorabile, dal gestore del grande fondo speculativo, al vecchio padrone, dal mezzadro furbacchione al sincero disperato. Tutti maschi, ambigui, per nulla interessati alle radici che entrano nella terra e al dolore che si prova nel tagliarle. Sullo sfondo domina una figura che è l’ennesimo rimando a Joyce Lussu: la Sibilla incazzata che tira le pietre alle fate.

E nei solchi della narrazione c’è anche un altro tema che negli ultimi anni ha visto Silvia Ballestra impegnata in prima linea: i terremoti del 2016 e del 2017. La morte e la distruzione – quelle vere – e poi l’abbandono, l’accanimento tutto umano contro un patrimonio di storia e di geografia nel nome di un profitto che si accumula annoiato e implacabile. Sarebbe la grande questione del nostro presente – la cura dei luoghi e di chi li abita – e proprio per questo viene spesso e volentieri aggirata. Quando un terremoto scuote l’Appennino e costringe decine di migliaia di persone a fuggire dalla propria casa, i giornali non mancano mai di sottolineare nei loro titoli che «la scossa si è sentita anche a Roma», come se il fatto avesse una qualche rilevanza. Scavare nella provincia più estrema è un qualcosa che negli ultimi anni non va affatto di moda, anzi. Nel paese in cui si riflette lungamente sul romanesco delle serie tv, dimentichi di ogni neorealismo, la distanza siderale tra la vita della grande città e quella della periferia dell’impero è un impedimento troppo grande per poter parlare seriamente. La provincia piace quando fa ridere, quando è una favola da raccontare, con il lieto fine o con la morale da Davide che sconfigge Golia. La provincia piace molto meno quando diventa quel che è, un posto come un altro, pieno di contraddizioni, di segnali che indicano tante cose diversissime tra di loro, quando è necessario cioè cercare di interpretare e di capire un fenomeno complesso, difficile da etichettare, impossibile da incasellare nel solito discorsetto. L’anima della provincia non sta nel Dustin Hoffman che con tono stentato declama l’Infinito di Leopardi – un vecchio spot turistico della Regione Marche – né nel vino buono e nei piatti tipici. Sta piuttosto in una crisi industriale che ha spazzato via sogni e illusioni, nell’impoverimento – prima materiale e solo dopo morale – di un popolo che non ha mai sentito il bisogno di sentirsi tale. È così che accade che le sorelle Nadia e Olga decidano di dar via i beni di famiglia. Per incassare la grana, certo, ma anche perché ormai quel luogo in cui erano cresciute è scomparso, non esiste più, ha perso ogni significato. Tagliare le radici, in sintesi, fa più male a pensarlo che a farlo davvero.

Così, quando le si chiede perché, in sostanza, abbia scritto un romanzo dalla parte dei padroni – le due sorelle, eredi di una fortuna, non hanno nulla né del borghese che si è fatto da solo, né del contadino arricchito e nemmeno del povero bracciante sfruttato: sono semplicemente un’altra cosa –, Silvia Ballestra scrolla le spalle e non ritiene di dover rispondere seriamente. La questione è più complessa: gli eroi di ieri sono i nemici di oggi e gli alleati di domani, in un certo senso le differenze sociali si sono azzerate. Anzi, si sono appiattite, rendendo tutto uguale: un territorio di poveracci, arricchiti o senza una lira, ma comunque costretti a vivere in un eterno presente che non ha passato né tantomeno può avere futuro. La realtà, dunque, è la stessa degli Antò: non cambia niente, il giorno dopo non arriva mai, al massimo si va a dormire in mezzo al nulla e ci si risveglia esattamente dove si era prima. L’unica possibilità di resistenza è privata: ciascuno per sé, nella speranza di incrociare qualche simile, ma non per lottare insieme: per trovare una via d’uscita.

Un libro da magone – in cui, come sempre, comunque, si ride moltissimo – che affronta diversi aspetti pratici della vita di provincia. Pratici, ad ogni modo, non vuol dire superficiali: avete idea cosa voglia dire avere a che fare con un Consorzio di Bonifica? Roba da far impallidire Proust.

La nuova stagione è un cerchio che si chiude e ne genera un altro: tornare a casa non vuol dire fare passi indietro, ma proseguire un cammino cominciato sulle spiagge abruzzesi e marchigiane negli anni del punk e uscito miracolosamente indenne dalle guerre culturali a bassa intensità dei tre decenni successivi, quando tutto il possibile era diventato impossibile, velleitario, stupido. Stretto tra la poca voglia di ascoltare e la troppa volontà di parlare sempre e comunque. Un gran casino che si ricompone in una questione di diritto privato e familiare, nella variazione letteraria dell’eterno dilemma medico se sia meglio tenersi una gamba malata oppure amputarla. Trent’anni abbondanti di romanzi sono un corridoio lunghissimo e pieno di porte. E dietro ciascuna porta c’è una possibilità diversa, destinata a non incontrarsi mai con tutte le altre. Si può camminare e aprirle una per volta o aprirle tutte insieme, correndo il rischio di essere assalti da quello che c’è dentro. Impossibile attraversare il corridoio senza guardare a destra né a sinistra. E allora affiora la domanda di sempre, quella che gli Antò si fanno in continuazione, macello dopo macello, disastro dopo disastro: chi ce l’ha fatto fare?

La risposta non c’è. E quando non c’è la risposta, resta solo la letteratura. E per Silvia Ballestra, la letteratura è in fondo un campo di battaglia, il luogo dove regolare i conti con la vita, con il tempo, con gli altri. Nell’ordine. Il carattere sovragenerazionale della scrittura di Silvia Ballestra è il riflesso vero del punk, che è attitudine e non genere musicale, e che si concretizza soltanto quando è troppo tardi. Per deludere, per far vedere come sarebbe potuto essere il mondo. E non lo è mai stato.

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↔ In alto: illustrazione © Marta Goldin. Per gentile concessione.

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