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Quando si parla di nativi americani, la prima cosa che viene in mente è l’immaginario dei film western, dove i pellerossa ci appaiono come guerrieri animati dalle proprie credenze spiritiche e magiche e pronti a tutto pur di contrastare la minaccia degli invasori per difendere la propria libertà. La figura del nativo americano è stata spesso mitizzata, complice anche la diffusione di film e fumetti sul “selvaggio west”, al punto da diventare un vero e proprio oggetto di culto della cultura di massa.

Ultimamente, nella letteratura angloamericana si stanno affermando autori impegnati a mostrare il vero volto della cultura indigena, ostacolata e persino condannata all’estinzione dall’urbanizzazione, dimostrando come la mitizzazione della tradizione dei nativi americani sia in realtà il prodotto di un’assimilazione volta alla sua sparizione. Si pensi per esempio a Louise Erdrich, vincitrice dell’ultima edizione del Premio Pulitzer con Il guardiano notturno (Feltrinelli, 2021), che narra in maniera romanzata della lotta del nonno materno dell’autrice contro l’Indian Termination Policy (piano governativo per l’assimilazione dei nativi americani attuato fra gli anni Quaranta e Sessanta), ma anche a un giovane autore come Tommy Orange che con Non qui, non altrove (Frassinelli, 2019)ha raccontato il fenomeno degli indiani urbani, persone di origine nativo-americana che vivendo nel mondo urbanizzato hanno perso contatto con le proprie radici.

Chi ha messo al centro delle sue opere il rapporto complesso fra i nativi americani e le proprie origini è Richard Wagamese (1955-2017), autore canadese membro della nazione indiana degli Ojibwe, celebre per il romanzo Cavallo indiano, pubblicato in Italia da Bompiani nel 2019 la cui trasposizione cinematografica è stata prodotta da Clint Eastwood. Wagamese è tornato recentemente nelle librerie italiane con Le stelle si spengono all’alba (La Nuova Frontiera, 2021), pubblicato in lingua originale nel 2014 e arrivato in Italia a quattro anni dalla scomparsa dell’autore.

Il romanzo ruota attorno alle vicende di Franklin Starlight, detto Frank, un ragazzo sedicenne originario della British Columbia, in Canada. Il protagonista, che ha origini indiane, ha vissuto per anni a casa di un uomo bianco, che lui chiama «il vecchio». Frank, infatti, è cresciuto senza madre e con un padre che lo ha abbandonato perché dipendente dall’alcolismo. Sarà proprio quest’ultimo, Eldon, il motore delle vicende raccontate da Wagamese. L’uomo, ormai prossimo alla morte per i danni al fegato causati dall’alcol, chiederà al figlio di accompagnarlo in un ultimo viaggio verso le foreste del Canada alla ricerca di un luogo adatto alla sepoltura, da condurre secondo i riti dei guerrieri Ojibwe, ovvero seduto rivolto a est verso il sole nascente. Questo viaggio sarà l’occasione per Eldon di venire a patti con i demoni del passato e per Franklin di diventare più consapevole delle sue origini indiane e conoscere la verità su suo padre e la sua famiglia.

Per comprendere al meglio questo romanzo, sarebbe utile concentrarsi sul titolo, sia quello italiano che quello originale inglese. Il titolo italiano fa riferimento al cognome dei due protagonisti: “Starlight” significa infatti “luce di stelle”, e allude in particolar modo alla morte di Eldon, chiamato dai conoscenti “Twinkles”, “luccichio”, una luce debole, fragile, prossima a spegnersi (Franklin di fatti gli dirà di «non essere esattamente uno che luccica»). Quello inglese d’altro canto fa riferimento a ciò che Wagamese vuole veramente raccontare, ovvero un percorso di riconciliazione che i due protagonisti intraprendono. Il titolo originale è Medicine Walk, “il cammino della cura”, quello che Franklin racconta al padre di aver imparato dal vecchio e consistente nel raccogliere per strada le erbe necessarie per curarsi, qui da intendersi, però, in senso metaforico come percorso di cura per l’anima.

Questo concetto di percorso di cura e riconciliazione è stato formulato da Wagamese in un suo saggio autobiografico dal titolo The Path to Healing, incluso nella raccolta di racconti e saggi del 2011 One Story, One Song (ancora inedita in italiano) che rielaborerà in una forma più estesa nel 2012 con il titolo Returning to Harmony, incluso in Speaking my Truth. Reflections on Reconciliation & Residential School, raccolta di scritti selezionati di autori provenienti dalle comunità indigene canadesi sul tema della riconciliazione e pubblicato da Aborigenal Healing Foundation.

In questo saggio, Richard Wagamese racconta un’esperienza grossomodo analoga a quella di Franklin. L’autore racconta di esser stato abbandonato dai genitori, sopravvissuti al sistema delle scuole residenziali canadesi (un sistema scolastico gestito in prevalenza dalla Chiesa cattolica volto ad assimilare gli indiani ai bianchi fino a sradicarne la propria cultura) entrambi con problemi legati all’alcol e violenti con i figli. Dopo l’abbandono dei genitori, Wagamese e i suoi fratelli sono stati adottati da famiglie che l’hanno cresciuto privandolo della possibilità di conoscere le proprie origini, ed è poi finito in prigione a causa di problemi di alcol e droga. Wagamese, che rincontrerà la sua famiglia dopo quasi vent’anni, racconta di esser stato cresciuto provando vergogna per le sue origini, ma allo stesso tempo senza una precisa idea della propria identità culturale, nutrendo così una forte rabbia per ciò che ha subito in passato e per quella che lui definisce “cultural lostness”, traducibile con “smarrimento culturale”.

Il risentimento provato dall’autore, però, è stato superato quando ha deciso di confrontarsi con quella che considerava la causa del suo dolore, la Chiesa. A seguito della partecipazione a una funzione liturgica, dove l’autore si è trovato di fronte a un uomo (il ministro di culto) e alla sua difficoltà di confrontarsi con i propri limiti spirituali, Wagamese è giunto alla seguente conclusione:

È una grande parola, riconciliazione. Semplicemente, significa creare armonia. Si crea armonia con la verità e dai forma alla verità con l’umiltà. Ciò è spirito. È verità. È indiano. Fra noi, come nazioni della popolazione aborigena e come membri individuali di quelle nazioni, abbiamo un’incredibile capacità di sopravvivenza, resistenza e perdono. Nel riconciliarci in primo luogo con noi stessi, troviamo l’abilità di creare armonia con gli altri, ed è da qui che bisogna cominciare – dal terreno fertile dei nostri stessi cuori, pensieri e spiriti.

Wagamese, come Frank ed Eldon scopriranno a proprie spese, sa che il corso della storia non si può cambiare, che nessuno potrà riportargli indietro ciò che ha perso, ma è necessario andare avanti, e per farlo deve prima riconciliarsi con sé stesso e poi perdonare gli altri per superare la propria sofferenza, poiché non vi è differenza fra indiani e bianchi: tutti commettono degli sbagli e devono confrontarsi con i propri limiti e demoni, ed è necessario perdonare e riconciliarsi col passato.

Così farà, dunque, Eldon: il motivo per cui ha chiesto al figlio di intraprendere questo viaggio è per raccontargli la verità sul suo passato, e quindi per cercare a sua volta di guarire dal proprio dolore. L’uomo gli racconterà del padre morto durante la Seconda Guerra Mondiale, della madre e il suo rapporto malato con gli amanti, che l’hanno portato fin da subito ad andare a vivere altrove, e soprattutto i suoi problemi con l’alcol, dovuti al dolore per la perdita di Angie, la madre di Frank, e soprattutto di Jimmy, l’unico amico che abbia mai avuto morto durante la Guerra di Corea. Quest’ultimo ha svolto un ruolo fondamentale nella vita di Eldon. È stato, infatti, colui che gli ha rivelato l’origine del cognome “Starlight”:

«Jimmy disse che Starlight era il nome dato a quelli che avevano ricevuto gli insegnamenti del Popolo delle Stelle. Molto tempo fa. Secondo la leggenda scendono dalle stelle in notti come questa. Notti serene. Si siedono con la gente e raccontano delle cose. Storie perlopiù, sulla natura delle cose. Ai più saggi veniva insegnato di più. Alla nostra gente. Gli Starlight. Noi eravamo destinati a essere maestri e cantastorie. Dicono che notti come questa riportano a galla quegli insegnamenti e quelle storie, ed è in queste occasioni che dovrebbero essere trasmessi di nuovo».

Il ricordo di Jimmy dà la chiave a Eldon e Frank per riconciliarsi: raccontare e raccontarsi delle storie. Eldon invita Frank a raccontarsi a sua volta, a liberarsi del proprio dolore. Il ragazzo narra di aver vissuto anni senza sapere nulla delle sue origini, che sono state motivo di esclusione da parte dei compagni di scuola (sul significato del suo cognome dirà: «Io me lo sono sempre chiesto. Circondato com’ero da Smith, Green e compagnia bella»). Questo, assieme a un padre assente che affogava i suoi problemi nell’alcol, lo hanno portato a coltivare astio e rancore verso il genitore.

Come Wagamese, Frank troverà difficile il perdono, per lui «una parola pesantissima», ma riesce comunque a riconciliarsi, ovvero a trovare un equilibrio armonico con sé stesso e suo padre grazie alla sua volontà di dare una seconda opportunità a Eldon, di ascoltare la sua verità e accogliere il suo dolore. Frank comprenderà che Eldon, come lui, è una persona che ha sofferto per il suo passato, che ancora continua a tormentarlo, non solo perché privato delle sue radici, ma anche per l’abbandono della sua famiglia. Per riprendere il titolo italiano del romanzo, la stella di Eldon si spegnerà all’alba, ma quella di Frank continuerà però a splendere: è riuscito a guarire suo padre, ma al contempo si è lasciato alle spalle la sua rabbia.

Le stelle si spengono all’alba è un cammino di accettazione dell’ineluttabilità del proprio destino e della sofferenza subita in passato. Come Frank ed Eldon anche Richard Wagamese ha vissuto con la consapevolezza che non si può cambiare il corso degli eventi, che portare rancore per il passato ti distrugge a poco a poco, ma con questo romanzo è giunto alla conclusione dell’importanza della riconciliazione con il passato e il male subito attraverso il racconto della sofferenza, un modo per esorcizzare il male e sconfiggerlo, e dunque raggiungere la pace con sé stessi.

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