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Se c’è un personaggio che ultimamente sta prendendo sempre più piede nella letteratura italiana contemporanea, è quella della madre. Si pensi, per esempio, al rapporto tormentato fatto di gelosia e rabbia fra l’Arminuta e la madre Evuccia in L’arminuta e Borgo Sud di Donatella Di Pietrantonio, ma anche a La buona educazione di Alice Bignardi, dove la protagonista Lisa deve confrontarsi con lo spettro di Antonella, una madre ingombrante ossessionata dalle regole e dall’educare una donna per bene da inserire nella società.

E proprio un filone che pone al centro l’immagine della madre sembra averlo inaugurato NN Editore. La cosa interessante è che a trattarla siano autori anziché autrici, che, considerate le difficoltà per un uomo di descrivere la figura della madre, l’hanno fatto parlandone in assenza oppure trasfigurandola. È il caso di Il nome della madre di Roberto Camurri e Giovanissimi di Alessio Forgione, dove la mancanza della figura materna costituisce una tappa fondamentale della crescita dei rispettivi protagonisti Pietro e Marocco, e Il buio non fa paura di Pier Lorenzo Pisano, dove la madre assume le fattezze di un mostro del bosco rappresentando, così, le paure e gli incubi di Gabriele, personaggio principale di quest’ultimo libro.

Interessante è, invece, L’età delle madri, romanzo di esordio di Vittorio Punzo, scrittore classe 1998, pubblicato da Alter Ego Edizioni e finalista con menzione speciale alla XXXIV Edizione del Premio Italo Calvino, definito dalla giuria del premio «un testo ubriaco in cui tutto è vago e incerto, un manifesto surreale, claustrofobico e sospeso, in cui i giorni e le notti si confondono e tempo oggettivo e tempo soggettivo si scontrano». In quest’opera prima, la madre diventa un doppio del protagonista attraverso cui Punzo ragiona sul significato di diventare adulti e le difficoltà e le responsabilità che ne conseguono.

Ambientato nel paese immaginario di Pacifica, il romanzo ha per protagonista Domenico, che «ha sedici anni e dimostrerà di non essere un ragazzino». Studente liceale perdigiorno con il sogno di diventare artista di collage, è fidanzato con Maria Vittoria, ragazza di ventun anni che, invece, aspira a diventare panettiera e poetessa e a viaggiare per il mondo. Una relazione che sembra andare bene nonostante la differenza d’età e il chiacchiericcio del paese, finché non irrompe sulla scena Anna, trentasette anni, la madre di Maria Vittoria. La donna vive un rapporto ossessivo con la figlia, complice un passato difficile nel suo paese natale, la Lituania, e vede in Domenico la persona che può risolvere tutti i suoi problemi, catapultando, così, il giovane protagonista in una spirale affettiva e di responsabilità da cui sarà difficile uscire.

Solitamente l’età anagrafica dei personaggi sembra un dato irrilevante, ma in L’età delle madri dà una chiave di lettura per le vicende di Domenico. Anna, infatti, racconterà al protagonista «del suo parto a sedici anni», età in cui il ragazzo “concepisce” Maria Vittoria e Anna. Si preferisce usare “concepisce” anziché “conoscere” perché Punzo gioca molto col confine fra realtà e finzione, fondendo entrambi i piani e creando incertezza nel lettore, che arriva a comprendere come in realtà Anna e Maria Vittoria siano creature della mente dello stesso protagonista. Questa interpretazione è avvalorata, inoltre, dall’esergo che l’autore prende da Ferito a morte di Raffaele La Capria, che come, Punzo gioca sovrapponendo tempo soggettivo e oggettivo, ovvero i ricordi dell’estate del protagonista Massimo De Luca trascorsa durante la giovinezza e il presente del suo ritorno ormai adulto da Roma ai luoghi del passato:

Possibile che tutto avviene come in un film, che tu lo vedi e pare che sta succedendo qualche cosa proprio in quel momento, e invece il film è stato già girato in un ordine diverso, e tutto è fermo nel rotolo del tempo? Sì, è possibile, è possibile.

Se si interpreta in questo modo il romanzo, Maria Vittoria diventa specchio di Domenico con la sua voglia di diventare adulto e le sue velleità di artista, mentre Anna si fa proiezione delle preoccupazioni di un ragazzo che sta diventando adulto troppo in fretta e, come dimostra il carattere apprensivo di Anna verso la figlia, fa di tutto per rallentare la sua maturità, che avanza con l’incedere dei 457 giorni che scandiscono il tempo del romanzo, cercando di restare aggrappato alla sua giovinezza.

Gli elementi atti a confondere il lettore e a sfumare il confine fra realtà e finzione sono molteplici. Oltre al dato anagrafico, c’è innanzitutto la scritta che appare all’inizio del libro, che di questi sembra esserne il sottotitolo: «voluttà infantile», indice di un probabile sfogo giovanile e infantile del protagonista che si immagina adulto e che allo stesso tempo cerca di sfuggire all’età adulta. Altri elementi ricorrenti sono l’alcol, il fumo del tabacco e la polvere, che pervadono gli spazi del romanzo e che impediscono – o meglio, nascondono – al lettore la verità su quanto Domenico sta raccontando, ovvero l’esistenza presunta delle due donne, resa incerta fino alla fine, anche per il fatto che non ci viene detto quasi mai come sono fatte. I loro dialoghi, inoltre, non sono mai contrassegnati dai caporali, anzi, spesso sono indicati con un “mi dice”, ovvero con un’espressione che raffigura pensieri e discorsi riferiti che molto probabilmente risultano inventati dalla mente del protagonista:

La polvere. Il tempo è un cumulonembo che sfuma e lascia spazio al buio della stanza. I miei occhi iniziano piano a tollerare, dilatandosi, lo spazio. Si fanno chiari i contorni delle bótti, delle altre poltrone, dei quadri sui muri. Un bastone, un libro con scritto “arcobaleno resistenza”. Guardo in su, il volto bianco di Maria Vittoria si frappone tra il nero di questa cantina e il nero del soffitto dietro di lei.

È la stessa figura di Domenico, però, a rendere il tutto più incerto. Già all’inizio del romanzo il protagonista semina qualche indizio sulla verità di quello che racconta, affermando quanto segue: «io mi chiamo Domenico, lei è la mia ragazza, Maria Vittoria. Sono innamorato. Posso dirlo, parlo con me stesso, non c’è il rischio di sembrare smielato». Il fatto di parlare da solo non solo è sottolineato dal fatto che i dialoghi con i vari personaggi non siano mai contrassegnati dalle caporali, rendendo il tutto un unico flusso di pensieri del ragazzo, ma anche, ad esempio, dal fatto che solo in pochissime occasioni leggiamo di Domenico che torna a casa dal padre, sempre ritratto mentre dorme, e soprattutto dalla noia durante le ore di lezione a scuola, che il giovane smorza cercando di elaborare la storia di Anna e Maria Vittoria attraverso un collage di pensieri e parole che lui chiama «zuppetta cerebrale».

A complicare ulteriormente le cose, infine, c’è Roma, l’enigmatica amica del protagonista, che appare quasi sempre nel momento in cui Domenico si trova in difficoltà con Anna e Maria Vittoria, quasi fosse la voce della coscienza del protagonista, visto che il giovane dirà che «Roma e io siamo la stessa cosa, letteralmente». Proprio Roma, infatti, sembra svelare la verità attorno alla storia di Domenico in un dialogo con quest’ultimo:

Secondo me nascondi qualcosa, dice, una… una voglia di un’avventura. Tieni, una sigaretta già accesa, prendi. Domenico, tieni. Pronto? Mi annoio da morire quando guardi le finestre aperte, pensi alla vita delle persone, passi vicino ai barboni e vuoi vivere con loro, vai al fiume e vuoi essere il personaggio di un film ooo pensi mai di essere te stesso? Hai la testa ammuinata tesoro, dice Roma, hai la testa tutta ammuinata di pensieri, cose e idee noiose, è tutta una discarica senti a me. Tu hai timore di tutto, questo è. Io lo so, ti conosco da sempre…
Che noia, pensa per te.
È stupido, se fai una cosa bella non la racconti a nessuno e così la tua vita da fuori sembra uno schifo.

Sempre Roma dirà più avanti che Domenico e Maria Vittoria sono «due vasi con lo stesso disegno». Diventa possibile, allora, credere che Anna e soprattutto Maria Vittoria sono frutto dell’immaginazione del protagonista. «Lei», si legge nel libro, «esorcizza la verità e tu esorcizzi il demonio della finzione. Lei ripulisce tutto il reale, tu la vostra fantasia». Maria Vittoria e Anna permettono a Domenico attraverso una «composizione di immagini» di evadere dal grigiore della vita di paese, dalla noia della scuola per immaginarsi subito adulto e una vita migliore della sua. Paradossalmente, però, la vita che Domenico si immagina con Anna e Maria Vittoria mette il protagonista di fronte al fatto che diventare adulti non è qualcosa di idilliaco, anzi, è problematico, un incrocio di gioie e dolori da cui non si potrà mai più uscire.

«Le persone, la sfortuna, l’amore, la vergogna, il dolore, il piacere. Non lo so. Per me, il dolore, il piacere, la vergogna sono luoghi diversi. Trovarli tutti insieme, sovrapposti, è un collage». Questo dice Domenico, e dunque Vittorio Punzo in L’età delle madri: essere adulti è un collage di dolore e piacere che Punzo ci illustra con malinconia e spensieratezza fondendo realtà e sogno. Quello che racconta Domenico nella sua “zuppetta cerebrale di voluttà infantili” è che diventare grandi è una faccenda complessa, e una volta entrati nell’età adulta la giovinezza non ritornerà più.

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