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«Le poesie non sono gradevoli, per lo meno non quelle belle. La poesia che vale davvero la pena è quella che ti lascia cadere. È impossibile non uscire in frantumi da una cosa così». È impossibile non uscire in frantumi da Nefando, romanzo d’esordio della scrittrice ecuadoriana Mónica Ojeda (classe 1988), secondo ad arrivare in Italia grazie ad Alessandro Polidoro Editore e come il precedente, Mandibula, tradotto da Massimiliano Bonatto.

Un narratore anonimo, che non rivela mai nulla al lettore se non la sua nazionalità – ecuadoriana, come l’autrice e come tre dei protagonisti –, racconta usando l’espediente delle interviste la storia assurda di un videogioco diffuso nel deep web e poi rimosso a causa dei contenuti espliciti, Nefando, dei suoi creatori e di chi sapeva e non ha fatto nulla per impedire. Lui – o lei, nessuno può dirlo con certezza – trascorre ore – forse giorni, settimane – nell’appartamento spagnolo in cui convivono sei giovani, cinque studenti sudamericani e un hacker originario di Siviglia. La casa è lo specchio di ciò che accade fuori, per le strade della città: una Barcellona dove regnano delinquenza e degenerazione, dove piccole bande criminali si scontrano per il mercato dei microfurti ai turisti e si confondono con gruppi di indépes catalani in protesta. Nell’appartamento spagnolo ci sono sei stanze e ognuna di esse è una schermata, un livello di un gioco ambiguo e destabilizzante dove il tasso di orrore sembra crescere sempre di più. Ma l’orrore non è nel presente: è nel passato e i fratelli Terán hanno ottenuto il punteggio più alto. High score.

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Irene, Emilio e Cecilia Terán hanno alle spalle una storia di violenza, un’infanzia che non è stata tale e che non ha avuto nulla dell’innocenza cui l’immaginario collettivo è abituato. Una madre indifferente e complice assisteva alla perpetuazione degli abusi del padre-carnefice nei confronti dei figli, alla creazione di video che testimoniavano il tutto e alla condivisione con altri frequentatori di un giro pedopornografico da orrore. Le violenze non sono solo sessuali ma anche psicologiche e fisiche. Irene, lettrice di J. M. Barrie e H.G. Wells, viene brutalmente buttata in piscina come antidoto alla sua inabilità nel nuoto, la sua testa viene tenuta sottacqua con forza per minuti così lunghi che sembrano ore – «sottacqua riusciva a vedere il sole, la sagoma ondulante del padre con le mani sui fianchi, sentiva le sue risate subacquee che le facevano venire una voglia tremenda di piangere. Il suo corpo aveva il peso di tutti i giocattoli; il suo corpo era un prisma che scomponeva la luce rinfrangendola».

Emilio spesso viene obbligato dal padre a partecipare a quei supplizi, mentre Cecilia, la più taciturna, è costretta a guardare il padre agire e i corpi dei suoi fratelli che cedono a un impulso sessuale incestuoso. Quando Cecilia decide di unirsi a loro, i fratelli Terán si trasformano in una chimera, «una persona sola, un abitante di Gethem, pianeta di ermafroditi inventato da Ursula K. Le Guin». Tre stanze dell’appartamento sono loro.
In un’altra stanza c’è Iván Herrera: iscritto a un corso di scrittura palesemente senza senso, vive la sua sessualità in maniera conflittuale nella speranza costante di trovare un’identità definita. Poi c’è Kiki Ortega, apprendista scrittrice e borsista FOCA, impegnata nella stesura di un romanzo pornografico – Biblioteca del pornoromanzo hype – i cui protagonisti, Eduardo e Diego, forse non sono altro che la trasposizione letteraria di un trauma vissuto da Kiki quando era solo una ragazzina. Nell’ultima stanza c’è El Cuco Martínez, che sopravvive grazie a espedienti e truffe di vario genere, conoscitore del web, del deep web e del darknet, nonché hacker.
Ognuno di questi personaggi ha avuto un ruolo nella storia di Nefando, tutti ne sono stati responsabili, ma il creatore è solo uno: il Cuco.

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La prima volta che i fratelli Terán hanno parlato del loro progetto con il Cuco non pensava facessero sul serio, eppure fremeva all’idea di lavorarci. Non era un videogioco come gli altri, forse non è definibile nemmeno tale se si pensa che non aveva né livelli né difficoltà, quello che bisognava fare era guardare e aspettare: «Nefando non era fatto per compiacere nessuno tranne i suoi creatori». Iván e Kiki erano ignari di quanto accadeva nelle altre stanze della casa, sapevano solo che i fratelli avevano creato una piattaforma di download gratuito per libri di vario genere. Lo avevano capito perché ogni giorno i Terán tornavano dalla biblioteca con pile di libri da scannerizzare e così erano venuti a conoscenza di “Projecto Cratos”. Hanno scoperto di Nefando solo dopo aver partecipato a un demo party: non sapevano cosa pensare, eppure ne erano rapiti.

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In un’intervista rilasciata lo scorso marzo per Tuttolibri, Ojeda ha raccontato la genesi di Nefando: tutto è nato dopo aver ascoltato la confessione di una sua amica che da bambina è stata vittima di violenza sessuale; dopo una prima fase di elaborazione molto difficile, l’autrice ha deciso che quella storia doveva necessariamente diventare il centro di una narrazione. Il problema restava però: come si racconta una cosa del genere? Come si racconta di stupri, di pornografia o di corpi e di menti violate? Credo che l’autrice lo abbia spiegato attraverso le parole di uno dei personaggi di Nefando, Kiki, che in più punti si dimostra quasi un alter ego di Ojeda.

«La storia non aveva un linguaggio proprio, per questo non l’ho mai scritta. Sarebbe diventata uno di quei racconti lunghi che chiamano romanzi brevi o uno di quei romanzi brevi che chiamano racconti lunghi. In ogni caso volevo che avesse un formato impreciso, per disorientare fin dall’inizio, perché noi scrittori siamo fatti così: ci piace tirarvi scemi e rincoglionirvi ma senza che vi perdiate; o se vi perdete vogliamo che vi ritroviate. Alla fin fine non ce ne frega niente di cosa trova il lettore, se la desolazione o la certezza, però deve trovarci qualcosa, altrimenti il proposito iniziale va a farsi benedire».

Disorientare fin dall’inizio, dice Kiki: quello che fa Ojeda con il suo romanzo, quello che fanno i fratelli Téran con il loro videogioco. Nefando è il solo modo che Irene, Emilio e Cecilia hanno per vendicare la loro infanzia, per riappropriarsi di un corpo che non gli è mai appartenuto davvero e per rendere giustizia agli altri bambini perduti per sempre, che come loro sono finiti negli abissi del deep web, un mondo di cui si parla troppo poco perché vige la legge del “se non lo vedo non esiste”. Nefando è l’espediente che Ojeda costruisce per far sì che tutti sappiano, per ribadire che la letteratura resta uno dei pochi veicoli affidabili per conoscere, informarsi. E sì, un lettore è libero di fermarsi dopo le prime dieci pagine del romanzo ma ciò non cambierà lo stato delle cose: con una semplice ricerca su Google oggi non si trovano immagini di minori, eppure sono lì, basta scendere di un livello, andare più in profondità; quelle immagini sono solo da un’altra parte – meglio nascosta – ma esistono, sono realtà. Come lo è Nefando e la storia dei fratelli Téran. Disturbante e atroce.

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