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Uomo, io voglio che tu capisca il mio male,
uomo, io voglio che tu mi dia dolcezza,
uomo, io cammino sulla tua stessa strada;
figlio di donna: comprendi la mia stranezza…
Alfonsina Storni, «Uomo»

Nel 1955 Mondadori decise di pubblicare una raccolta di racconti di un’autrice di cui per molti anni si sono perse le tracce. Si chiamava Livia De Stefani, era siciliana ed era nata in una famiglia di ricchi proprietari terrieri che ostacolò in tutti i modi la sua aspirazione a diventare scrittrice; il suo libro era intitolato Gli affatturati. I protagonisti erano uomini e donne stregati da qualcosa, o qualcuno; vivevano in balia delle loro ossessioni e da esse si lasciavano governare: «Sono affatturati, peggio che matti, hanno stregato anche me. Disgraziati o fortunati». Per molto tempo Livia De Stefani e i suoi Affatturati sono spariti, la loro assenza dal mercato librario si è interrotta solo con qualche fugace comparsa nei mercatini dell’usato. Fino a quando, nel 2015, la casa editrice Elliot ha deciso di mettere di nuovo in circolo questo titolo insieme a tanti altri testi di autrici dimenticate.

Da qualche anno, infatti, per la fortuna e la gioia di molti lettori, esistono realtà editoriali che si occupano esattamente di questo: di recupero letterario. Tra queste emerge l’attività di Rina Edizioni, che sta portando avanti un progetto prezioso con coraggio e competenza. La sua collana «Libertarie» – dove fino a ora sono apparsi i nomi di Matilde Serao, Paola Masino, Amalia Guglielminetti, Carolina Invernizio e Virgilia D’Andrea – aspira a riportare nelle librerie scrittrici del nostro Novecento scomparse per noncuranza o superficialità, mentre la più recente «Água viva» – omaggio a Clarice Lispector – tenta la medesima strada per autrici straniere perlopiù sconosciute al panorama editoriale italiano.

Affatturate è il sesto titolo di «Libertarie» e ha molto in comune con la «quasi» omonima opera di Livia De Stefani. I due libri non condividono solo l’aggettivo che dà loro il titolo, o l’attenzione a temi come l’ossessione, ma provano che una scrittrice per essere riconosciuta tale spesso deve sparire dai cataloghi e dalle emeroteche delle nostre biblioteche. Per fortuna però dimostrano anche che qualcuno se ne è accorto e sta tentando di porre rimedio.

Affatturate è una raccolta di ventidue racconti di altrettante autrici attive tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, di cui alcune già molto note – come Grazia Deledda, Paola Masino, Amalia Guglielminetti, Carolina Invernizio o Ada Negri – e altre ai più sconosciute – tra cui Carola Prosperi, Clelia Pellicano, Teresah, Cesarina Lupati, Adelaide Bernardini, Elda Gianelli. Molte usavano pseudonimi e tentavano la strada della pubblicazione su riviste perché ostacolate dalla famiglia o, più semplicemente, dalla società del tempo che prediligeva valori patriarcali.

Ogni testo è diverso dall’altro e la narrazione prende una certa strada che varia a seconda dell’espediente scelto per raccontare qualcosa che accomuna autrici e protagoniste: l’amore non salvifico, destabilizzante, che a volte muta in ossessione violenta e senza scampo.

È impossibile riassumere la trama di tutte le novelle in poche righe, ma anche solo un breve accenno ad alcune di esse dimostra come temi trattati da autrici vissute più di un secolo fa non sono poi così diversi da quelli che – prima raramente, oggi con maggiore frequenza – ci stiamo abituando a leggere nella narrativa contemporanea. In «Uomini niente!» di Haydee, all’anagrafe Ida Finzi, la protagonista è una madre, la signora Cacciadori, certa che le sue tre figlie riescano a vivere di sé stesse e del loro talento senza doversi sentire obbligate a sposare un uomo – il matrimonio è solo «un obbedire a pregiudizi di un altro secolo»; tutte disattenderanno a questa convinzione. In «Paolina» di Neera, pseudonimo di Anna Maria Zuccari, la giovane protagonista è delusa non da un marito o un promesso sposo ma dal padre, che dopo la morte della moglie si risposa con la bella Aurora e a poco a poco, per causa sua, si allontana dalla figlia. In «Cardiopalmo» di Anna Vivanti un giovane medico mente sul suo stato di salute e si prende gioco di Claudia, moglie fedele che per la prima volta vacilla e tradisce. La protagonista dell’«Avventuriera» di Maria Messina è Rosalba Mannelli, impiegata presso l’ufficio postale del paese in cui vive, convinta che il collega Gigi Lavagna sia innamorato di lei; Rosalba è spaventata e prova ogni espediente per evitare la sua compagnia e quando scopre che Lavagna è sposato le sembra un buon motivo per fidarsi dell’uomo, per credere che sia tutto un grosso malinteso. La vicenda, però, si conclude in modo inaspettato. Miss Hope (protagonista dell’omonimo racconto), meglio nota come Maruzza, è una giovane donna fiera e indipendente, si guadagna da vivere lavorando in un circo e rifiuta tutti i pretendenti che si presentano a lei, tranne uno, un «ufficialetto» subdolo che la condurrà alla morte. «La cicatrice» di Ada Negri racconta invece di come un legame coniugale violento possa influenzare le scelte di una figlia segnata dalla sua infanzia. In «Convegno d’amore» Flavia Steno affronta il tema dell’aborto attraverso le vicende di Nerina, convinta che non le serva l’amore di un uomo per essere felice.

Ognuna di queste donne è a suo modo affatturata, ammaliata dall’idea che un amore resti tale anche se di natura violenta – in senso sia fisico che psicologico. Anzi ne è lusingata, come se le sembianze maldestre di quel sentimento non mettessero in discussione la sua stessa esistenza. Come Giorgina, che in «La fine di un amore» di Clelia Pellicano rinuncia alle sue aspirazioni letterarie perché colpevole di aver messo in ombra il talento del marito scrittore.

Le Affatturate declinano la reazione dell’animo femminile agli impulsi che provengono da sentimenti impetuosi e potenti. Siamo abituati a una letteratura che predilige personaggi maschili vittime delle fatture di donne dalle sembianze stregonesche, ma queste novelle sembrano voler restituire l’immagine di una donna indipendente e forte solo in apparenza. Le donne di questa antologia dimostrano che è possibile parlare di ombre, fragilità e insicurezze senza cadere nel pietismo, e che forse il modo più efficace per farlo è usare proprio la scrittura.

Gli argomenti toccati sono più attuali che mai: la manipolazione psicologica, la menzogna, l’aborto, il suicidio e la violenza fisica. Verrebbe da chiedersi allora cosa c’è di diverso tra queste pagine scritte un secolo fa e quelle contemporanee di autrici e autori che provano a raccontare dell’amore non idilliaco, della violenza che in molti subiscono. Forse semplicemente che fino a qualche tempo fa preferivamo ignorare tutto questo, o che di diverso non c’è nulla: semplicemente, molti traggono soddisfazione dall’attribuirsi primati che non hanno. E allora ben vengano le realtà come Rina, che mettono nero su bianco questioni che fingevamo non esistessero e di cui invece si tenta – disperatamente – di parlare da sempre. A sordi.

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