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«Eccole un’altra antinomia: solo chi non si allontana di un pollice dalla tempesta della vita in tutta la sua intensità, conoscerà la Forma»
Witold Gombrowicz

Ricordo esattamente le circostanze che accompagnarono il mio primo approccio all’opera di Witold Gombrowicz. Mi trovavo a Firenze tutto solo e avevo una mezza giornata libera davanti a me. Un amico mi aveva consigliato di mangiare il lampredotto in un chiosco davanti a Porta Romana e proseguire poi dentro il Giardino dei Boboli fino a Palazzo Pitti. Prima di arrivare al chiosco avevo però incontrato una libreria. E in quella libreria – dio benedica il libraio che prese questa scelta – era esposto come se fosse una novità, in bella vista, Testamento di Witold Gombrowicz. Nell’edizione Feltrinelli, con l’autorevole veste grafica e cartotecnica dedicata alla collana Le Comete. Certamente avevo sentito parlare di Gombrowicz ma non lo avevo mai letto, così presi il libro, senza nemmeno consultare il risvolto. Il mio programma proseguiva spedito: avevo divorato il mitico lampredotto inoltrandomi in un parchetto di fianco al chiosco. Dopodiché, approfittando della giornata di sole, avevo iniziato a sfogliare curiosamente il libro appena acquistato, con l’intenzione di seguitare nel mio percorso poco dopo.
Mi alzai dal tavolone del quale mi ero impossessato quando il sole era ormai tramontato da tempo. Dovevo già tornare alla stazione per riprendere il treno. Il Giardino dei Boboli mi avrebbe aspettato per altri sei mesi. E io avevo letto Gombrowicz per la prima volta: ero stato gombrowiczato, per sempre.

Leggere Gombrowicz è un’esperienza al di là dell’ordinario.
Prima di tutto estetica, e infine metafisica. La sua opera può cambiare il corso della nostra vita e il nostro modo di guardare al mondo che ci circonda. È sconvolgente.

Qualche giorno fa ho avuto l’onore di intervistare il curatore dell’opera di Gombrowicz in Italia, Francesco Matteo Cataluccio. Mi ha esaltato scoprire che anche lui ha avuto il suo primo contatto con Gombrowicz proprio a Firenze, dove studiava negli anni Settanta. Da allora è passato quasi mezzo secolo nel quale questo intellettuale d’altri tempi non si è allontanato di un pollice dalla letteratura sconvolgente di Gombrowicz. A quei tempi l’opera dell’autore polacco era già arrivata in Italia; tuttavia, le vicende editoriali che riguardano le prime pubblicazioni dei suoi libri in italiano hanno una storia molto particolare e burrascosa. Almeno fino a che non intervenne Cataluccio, l’attuale curatore. Si potrebbe addirittura azzardare l’idea che esista, per la letteratura di Gombrowicz in Italia, un prima e un dopo Cataluccio.

È questo il motivo che mi ha portato a intervistarlo per farmi raccontare tutta la parabola editoriale che lo ha visto coinvolto. Inoltre, è proprio grazie al lavoro di Cataluccio che io e molti altri della mia generazione, delle precedenti e si spera delle successive, abbiamo potuto comprendere l’opera di Gombrowicz nelle sue molte articolazioni e nella sua immane complessità. Pertanto, ho deciso di raccontare ancora una volta questa storia, usando come strumento d’analisi quasi esclusivamente – salvo dove indicato altrimenti – le parole di Cataluccio contenute nei suoi molti scritti dedicati a Gombrowicz. (Tutte le citazioni all’interno del presente articolo si trovano nei saggi di Francesco Cataluccio che sono segnalati tra virgolette nei titoli dei rispettivi paragrafi nei quali appaiono).

Le origini o «Gombrowicz in Italia»

Ferdydurke, il primo romanzo scritto da Gombrowicz nel 1938, venne pubblicato per la prima volta in Italia da Einaudi nel 1961, con una introduzione di Angelo Maria Ripellino, leggendario collaboratore einaudiano di quel periodo.

La traduzione di Ferdydurke tuttavia, piuttosto che dall’originale polacco, venne fatta dal francese. Il risultato è qualcosa di molto diverso dal testo di Gombrowicz, poiché la traduzione francese già se ne discostava in modo evidente tramite scelte forti e arbitrarie, come ad esempio quella di espungere i due versetti che concludono il romanzo. Tuttavia, quel Ferdydurke einaudiano è in sostanza un libro profondamente gombrowicziano; eppure differente e molto meno fedele all’originale, rispetto al modo nel quale di solito ci si immagina dovrebbe essere condotta una traduzione rispetto al testo di partenza. Inoltre, in quell’occasione, scocciato dai tempi di attesa, Gombrowicz decise di dare il suo secondo romanzo, Pornografia, a Bompiani che lo pubblicò nel 1962 con il titolo La seduzione, poiché l’originale era considerato troppo osé per il pubblico italiano.

Bisogna comunque pensare, già a questo punto della storia, che in Italia personaggi come Roberto «Bobi» Bazlen – che lo aveva proposto entusiasticamente a Luciano Foà per la pubblicazione Einaudi –, come anche Angelo Maria Ripellino, Giorgio Manganelli e Edoardo Sanguineti – grazie ai quali Gombrowicz vinse il Prix international de littérature – erano letteralmente innamorati della sua opera. «Gombrowicz è il più grande scrittore grottesco del nostro tempo: ed è quindi il più grande scrittore tragico, il migliore di quelli che stiamo discutendo» così terminava l’intervento che fece Edoardo Sanguineti durante il suddetto Premio.

Era evidente che la sua opera dovesse ancora trovare una collocazione stabile, un editore in grado di prendersene la responsabilità. Un lungimirante collaboratore di Feltrinelli, Enrico Filippini, convinse Giangiacomo Feltrinelli in persona a recarsi in visita, per corteggiare Gombrowicz e proporgli di affidare a loro la pubblicazione della sua opera. E, in effetti, proprio nel 1967 Feltrinelli pubblicherà Cosmo (il libro per il quale era stato assegnato all’autore il Prix international de littérature). Da quel momento i libri di Gombrowicz furono pubblicati tutti da Feltrinelli: seguirono i due volumi del Diario e Trans-Atlantico (che venne tradotto erroneamente Transatlantico). Dal 1970 al 1973. Non è difficile immaginare come queste prime pubblicazioni «costituirono un pesante insuccesso editoriale e finirono presto nelle librerie di libri a metà prezzo». Forse anche perché non supportati dalla triade dei romanzi. «Ferdydurke, Pornografia e Cosmo svolgono un discorso coerente» attorno ai temi cari a Gombrowicz, sono come le colonne sulle quali egli costruisce il tempio.

Nel 1969 Gombrowicz era morto, lasciando spazio per un lungo periodo di silenzio e dimenticanza. Negli anni Ottanta però un giovane lettore che si occupava di letteratura polacca per Feltrinelli, continuava a seminare. Inoltre, l’opera di Gombrowicz aveva ormai messo radici: si tratta di una pianta infestante, difficile da sradicare. Era rimasta viva e vegeta nel sottosuolo. «In certi ambienti letterari e artistici Gombrowicz era diventato un autore di culto». Crepax fa apparire Cosmo nelle tavole di Valentina, le edizioni e/o pubblicano un pezzo del Diario intitolato Parigi/Berlino (proprio dietro suggerimento di Cataluccio) e appare anche un romanzo postumo intitolato Opetani. Venne però pubblicato da Bompiani con il titolo Gli schiavi delle tenebre e mancava del finale (che fu ritrovato successivamente ed è presente nell’edizione curata da Cataluccio che ripristina il bellissimo titolo Gli indemoniati).

Nel 1989, caduto il muro e iniziato il disgelo, è il momento perfetto perché cominci l’era Cataluccio. Appena assunto nella redazione di Feltrinelli, in vista della caduta del muro, quel giovane lettore che era stato Cataluccio prepara una lista di autori dell’Europa dell’Est da pubblicare e ripubblicare. Tra i primi appare la proposta di una riedizione critica di tutta l’opera di Gombrowicz. Un lavoro immenso e spettacolare che terminò soltanto nel 2008 con la pubblicazione del secondo volume del Diario. Per compiere questa impresa Cataluccio chiamerà la traduttrice Vera Verdiani, che aveva già tradotto nel 1963, per Lerici editore, Ivona principessa di Borgogna, proprio il libro che aveva per primo gombrowiczato il nostro caro Francesco Cataluccio.

Nel 1994, nel bel mezzo di questa encomiabile avventura editoriale senza fine, fu dato alle stampe il numero sette di «Riga», una rivista molto interessante che veniva pubblicata da marcos y marcos. Era un numero monografico dedicato a Witold Gombrowicz e curato, ancora una volta, da Francesco Cataluccio. L’editoriale si apriva con queste parole, riportate anche in quarta di copertina.

«In tempi in cui l’immaturità dilaga e gli individui assomigliano sempre più a bambini smarriti, in un’epoca in cui l’elogio acritico di tutto ciò che è giovanile impazza nei mass-media, forse è opportuno tornare a riflettere sull’opera dello scrittore polacco che per primo e in modo così radicale ha raccontato e deriso la voglia dell’uomo contemporaneo di essere-sempre-giovane»

Una questione quanto mai attuale – ora e sempre – della cui presenza nell’opera di Gombrowicz si accorse per primo Angelo Maria Ripellino (che oltre all’immaturità aveva individuato in Ferdydurke i temi portanti: della polonità, dell’esilio e dell’avversione alle false teorie, ai morti sistemi, ai programmi roboanti). Non deve sorprendere quindi che la storia che sto cercando qui di riassumere non sia finita davvero nel 2008 ma continui tutt’oggi, a dieci anni di distanza. Poiché, esattamente dal 2017, il Saggiatore ha ricominciato la pubblicazione dell’opera di Witold Gombrowicz. Ovviamente, manco a dirlo, sotto la magistrale curatela del sempreverde Francesco Cataluccio. Le nuove edizioni saggiatoriane presentano delle ritraduzioni, spogliate dai materiali dell’edizione critica che le precedeva. I testi sono pur sempre accompagnati da un intervento del curatore, che però è posto alla fine del libro, così da lasciare al lettore la possibilità di entrare nel testo senza nessuna interferenza, senza pregiudizi; e tuttavia disponendo, in caso di necessità, di tutte le informazioni utili per contestualizzare l’opera nel migliore dei modi.

Questa è solo una parte, persino marginale seppure molto interessante, della storia dell’opera di Gombrowicz, quella italiana. Ho cercato di ricostruirla a partire dall’unico saggio scritto da Cataluccio per il numero di «Riga» di cui si diceva poc’anzi: «Gombrowicz in Italia». Il testo termina con una lunga citazione dell’allora molto giovane Andrea Tagliapietra. Citazione che secondo me potrebbe essere il perfetto abbrivio per cominciare a parlare dell’opera di Gombrowicz e della sua filosofia, del significato misterioso dei suoi libri.

«Dietro lo splendido tessuto della scrittura di Gombrowicz, non è difficile intravvedere quella genuina stoffa filosofica che ha fatto sostenere, probabilmente non a torto, che la storia della filosofia occidentale, dopo Hegel, ha trovato la sua prosecuzione più genuina nelle pagine dei grandi romanzieri europei, come Tolstoj, Dostoevskij, Joyce, Proust o Musil, piuttosto che negli astrusi volumi dei professori di filosofia. Del resto, la filosofia accademica, quella per intenderci che si studia nelle università, è filosofia della filosofia, è schermaglia di illusioni e ripicche che finisce per lasciare ai margini del suo discorso il mondo della vita. Invece, i grandi narratori, che non hanno l’obbligo professionale della confutazione, sono liberi di pensare, restituendo alla parola della filosofia la pienezza e la vitalità perdute»

Seguiremo – come se fosse un nuovo Testamento – l’ordine delle pubblicazioni saggiatoriane, in cerca di un senso. Lasciandoci istruire dalle parole di chi lo conosce meglio. Poiché sono convinto che l’opera di Gombrowicz possa risorgere e rivivere attraverso le molte sfaccettature del lavoro curateriale di Cataluccio. E credo fermamente che sia essenziale per noi riceverlo e apprezzarlo in questa nuova veste, capace di parlarci ancora e ancora oggi, soprattutto in tempi strani come quelli che siamo chiamati a vivere. Tempi nei quali la filosofia gombrowicziana potrebbe davvero essere essenziale, pur nel suo metterci in crisi costantemente, anzi, soprattutto per questo suo mettere sempre tutto in discussione. Inoltre, come scrive Cataluccio, penso che «Gombrowicz non avrebbe potuto essere più contento».

«La filosofia di Gombrowicz» in sei paragrafi e un quarto

I. Desidero prima però aprire una doverosa parentesi su un libro di Gombrowicz alquanto singolare. S’intitola Corso di filosofia in sei ore e un quarto ed è stato pubblicato per la prima volta dalle edizioni Theoria nel 1994, seguito da un discreto successo e da parecchie ristampe e ripubblicazioni. In esso è racchiuso il pensiero dell’autore in forma di «lezioni di filosofia». D’altronde, «senza saperlo Gombrowicz», già dai tempi in cui stava «scrivendo Ferdydurke prima della Seconda guerra mondiale, aveva come ideali interlocutori Sartre, Camus e soprattutto Heidegger». L’opera di Gombrowicz è altamente filosofica, dal primo dei suoi romanzi fino all’ultima riga del suo Diario. Per questo, come primo passo per poterne parlare e per riuscire a comprenderlo, analizzare questo testo, sicuramente sui generis, può risultare davvero fondamentale.

II. Il Corso di filosofia – come la maggior parte dei libri di Gombrowicz – ha una strana storia: per guadagnare qualche soldo, mentre era in “esilio volontario” in Argentina, Gombrowicz tenne delle conferenze a casa di una cara amica, per lei e altre facoltose signore. Molti anni dopo, quando già Gombrowicz si trovava a Vence, in Francia, ormai al culmine della malattia che lo fece soffrire lungo tutto l’arco della sua esistenza – tanto da portarlo davanti al baratro del suicidio – riprese gli appunti di quelle lezioni per poterle riproporre alla moglie Rita e al giovane Dominique de Roux. (Gombrowicz e de Roux stavano conducendo la lunga “intervista” – anch’essa ammantata di una storia epica – che venne poi intitolata Testamento). Quell’esperienza e quell’ardore lo dissuasero dal togliersi la vita. «Non è una leggenda. Sembra proprio che la passione per la filosofia e il Corso di filosofia in sei ore e un quarto abbiano salvato Witold Gombrowicz dal suicidio».

III. Mentre Gombrowicz parlava, la moglie registrava ogni sua parola, per poi trascrivere le lezioni che compongono il Corso di filosofia. Molti anni dopo, Cataluccio, in visita a Parigi a casa di Rita Gombrowicz, le ritrovò e le pubblicò. Il titolo lo aveva dato scherzosamente Gombrowicz alla moglie, dicendo che il quarto d’ora sarebbe dovuto servire per il marxismo. «Il Corso di filosofia in sei ore e un quarto è una personale rivisitazione dei pensatori moderni che hanno dato vita alla filosofia del nostro secolo come la sentiva Gombrowicz». È una carrellata che passa per Hegel, Hume, Berkeley e soprattutto Sartre, per arrivare poi inevitabilmente a Nietzsche e Schopenhauer. «L’obiettivo di Gombrowicz è ricostruire una sorta di “genealogia dell’esistenzialismo”, immaginando il disegno di un “albero genealogico” il cui tronco è costituito da Kierkegaard».

IV. In realtà il Corso di filosofia in sei ore e un quarto era più un modo per trasmettere il «proprio pensiero attraverso quello degli altri». Immaturità e infantilismo erano il nucleo primevo della sua filosofia, in stretta connessione con la questione della Forma. «La Forma va intesa nel suo duplice significato: I) maschera che gli altri ci impongono e che dobbiamo mantenere; 2) comportamento al quale ci conformiamo da soli per essere accettati». Gombrowicz, tramite le sue opere, la sua arte, da «manager dell’immaturità» (come lo aveva definito Bruno Schulz nella sua celebre recensione a Ferdydurke) diviene «paladino dell’antiforma». La sua vita è il paradigma della liberazione dall’immaturità, dall’infantilismo e dal conformismo insito in quanto egli indicava come Forma.

V. «L’ordine imposto dall’uomo al mondo è, secondo Gombrowicz, follemente soggettivo». La Forma è una trappola, una maschera imposta e autoimposta, in secoli di storia del pensiero. «Il simbolo di questo soggettivismo è Don Chisciotte». Il fool, colui che attraverso l’esperienza della follia rintraccia la falsità della Forma e «dimostra che non esiste più (se è mai esistito) il Mondo come pietra di paragone per distinguere realtà e follia, sogno e veglia». Tutto è possibile poiché tutto è soggettivo ed è quindi la propria esperienza personale a poter aprire termini di paragone tra ciò che è Mondo e quanto invece è Forma. Ovvero, in fondo, la concezione dell’esistenzialismo in senso ampio. Questa soggettività dello sguardo nell’esplorazione del circostante – uno sguardo investigatorio e distorto che può, da un minuscolo dettaglio, elucubrare e speculare fino all’illuminante rivelamento di ciò che sta dietro la Forma – questo modello sarà l’ossatura centrale dei romanzi di Gombrowicz e soprattutto del suo Diario.

VI. «Le idee filosofiche di Gombrowicz si trovano espresse nelle oltre mille pagine del Dziennik (Diario), scritte tra il 1953 e il 1969». E il Diario è un coacervo di pensieri, racconti, considerazioni di varia natura, spesso fissazioni minime, ossessioni. «È allo stesso tempo un modo per arginare il Caos e una drammatica registrazione del suo dilagare», «è il compimento di un percorso intellettuale ed esistenziale profondo e doloroso», racchiude in modo non sistematico – rivendicando il valore del molteplice – l’intero pensiero dell’autore, pur nelle sue contraddizioni e incongruenze. Non poteva essere scritto altrimenti. «Si ispira a Nietzsche e Schopenhauer, nello stile sia dello scrivere che del pensare» e il risultato (come ci suggerisce Karpiński) è qualcosa di simile a La Gaia Scienza. Un pensiero «fatto di brevi illuminazioni, di intuizioni appena tematizzate». Poiché solo nell’indagine ossessiva e soggettiva può sussistere il momento dell’apparizione e non è possibile in questo senso conchiuderla in un sistema di pensiero geometrico o compiuto, in termini accademici classici.

¼. «Gombrovicz, alla fine della sua esistenza, era giunto alla conclusione che la filosofia servisse a poco», «in realtà l’unica possibile, seppur parziale, libertà risiede nella creatività artistica». Così come Schopenhauer egli conduce una feroce critica al modo accademico di fare filosofia. «Marxismo ed esistenzialismo sono divenuti: il primo, ideologia che promette “scientificamente” un futuro luminoso, e disonestamente maschera l’orrore del socialismo realizzato; e il secondo, spesso per disperazione, servo del primo, o “pensiero di moda”, accomodante, buono per l’Accademia. Per questo non soddisfano il pessimismo radicale di Gombrowicz, che rimane legato alla “strada maestra” aperta da Kierkegaard» e conduce con violenza a quell’«essere-per-la-morte» heideggeriano, al Dolore.

Cosmo o «L’ordine della follia» – 2017

L’ultimo dei romanzi di Gombrowicz pubblicati in vita è invece il primo dei libri apparsi nell’edizione del Saggiatore: Cosmo. Sicuramente il più filosofico della “trilogia” che forma idealmente insieme a Pornografia e a Ferdydurke. «Cosmo è una sorta di romanzo filosofico-poliziesco sulla formazione della realtà», così lo definiva lo stesso autore. La trama del romanzo sembrerebbe pure semplice e banale, costruita intorno a un motivo ricorrente nei libri di Gombrowicz: due uomini, uno è Witold (Don Chisciotte) e l’altro è Fuks (Sancho Panza),  (ma potrebbe anche chiamarsi Federico, come in Pornografia) si trascinano vicendevolmente all’interno di una serie di ossessioni minime fino all’illuminazione finale. Il tutto avviene in una dimensione distorta della realtà che viene raccontata. La soggettività dello sguardo di chi scrive tende – mano a mano sempre di più, in una escalation linguistica vertiginosa – a deformare il mondo nell’atto di rappresentarlo, di esprimerlo linguisticamente. «Il procedimento del detective è per Gombrowicz un po’ il simbolo di ciò che ciascun individuo fa continuamente, nell’atto conoscitivo, riguardo alla realtà». I protagonisti del romanzo sono detective che utilizzano marginalia per raggiungere la rivelazione. Ed è per questo motivo che «l’investigazione porta alla pazzia». Esattamente come succede nel Diario e nella vita stessa di Gombrowicz, l’unico Ordine possibile, ovvero la composizione del Cosmo, è la follia, e la morte.

«Il tentativo ossessivo di ordinare il caos è ingenerato dalla noia». Nella stasi assoluta avviene l’inizio dell’ossessione. Esattamente come per i suoi personaggi, anche per Gombrowicz stesso era semplice fissarsi su un oggetto o su un pensiero. Poteva impazzire a furia di guardare un dettaglio. Gli oggetti nei suoi romanzi hanno infatti una carica erotica fortissima e magnetica, dalla quale si genera l’ossessione. «La massima espressione di questo erotismo deviato è nella lingua del romanzo, nell’invenzione di una comunicazione allusiva tramite la sola parola berg, apparentemente senza senso». La ripetono ossessivamente i personaggi del libro declinandola in infinite varianti, creando un gioco comico surreale pieno di musica. La parola berg funziona «come un affascinante mezzo di fuga dalla realtà e, allo stesso tempo, un potente strumento di autoaffermazione sessuale». Rappresenta ciò che Gombrowicz pensava fosse «l’unico mezzo che gli uomini hanno nel caos dell’Esistenza per far valere un po’ la propria forma»: ovvero l’Arte.

Cosmo però è un romanzo nero. Così la pensava Gombrowicz. «Forse, al di là degli aspetti divertenti, surreali e polizieschi, e dei riusciti sperimentalismi linguistici, Cosmo è veramente l’inizio di un profondo discorso sul dolore esistenziale». Gombrowicz confesserà a Piero Sanavio, nell’ultima intervista che rilasciò (consegnata a noi, in seguito, con il titolo: La forma e il rito), che avrebbe voluto dedicarsi, dopo Cosmo, alla scrittura di un romanzo sul Dolore. Bisognerebbe quindi considerare Cosmo come una porta, ulteriore, esattamente come bisogna pensare a Pornografia e Ferdydurke. Cosmo è il tentativo, fallito, di dare un Ordine al Caos. Così come lo è stato il Diario e tutta l’opera di Gombrowicz. Questi tentativi ossessivi e fallimentari precedono la consapevolezza del Dolore senza senso che è la vita. Ci indicano – evocano, manifestano – questa inevitabile conseguenza.

Kronos o «Il Diario e il suo doppio» – 2018

Devo aprire un’ennesima parentesi.
Anzi, il libro del quale andiamo a parlare è come se fosse una parentesi nell’ordine delle pubblicazioni saggiatoriane dell’opera di Gombrowicz. Una parentesi dall’immane importanza filologica.
Tra gli anni di Feltrinelli e quelli del Saggiatore accade qualcosa di imprevedibile. Nel 2013, Rita Gombrowicz decide di far pubblicare Kronos, il diario privato del marito, rimasto fino ad allora segreto.

È importante notare, prima di inoltrarci nell’abisso di Kronos, che uno dei testi più importanti dell’opera di Gombrowicz – se non il più importante – è un altro Diario, un diario pubblico.
«Il pretesto per iniziare a scrivere il suo Diario gli fu offerto da Jerzy Giedroyc, il burbero e intelligente direttore della rivista dell’emigrazione polacca a Parigi, “Kultura”, che gli propose di scrivere, sotto compenso, dei feuilletons mensili». Così il Diario veniva composto mese dopo mese. Era stato pensato come un diario scritto per essere letto, fin dalla sua prima vita. Dopodiché però Gombrowicz raccoglieva i pezzi; durante il processo di raccolta scartava quelli che non gli andavano più bene, e ne aggiungeva anche degli altri. In qualche modo correggeva la forma dell’opera. Il Diario quindi, nella sua versione ultima, è un’opera molto costruita, scritta per il pubblico e pensata per essere letta dai posteri nella sua organicità.
Si tratta di «un’opera filosofico-letteraria che è una costruzione dell’Io». (Emblematico in questo senso l’inizio dell’opera: «Lunedì: Io/Martedì: Io/Mercoledì: Io/Giovedì: Io»).
Eppure, tutto è fittizio: le date, gli aneddoti, persino i ragionamenti e le provocazioni sono talmente contraddittori da raggiungere il parossismo.

«Se il Diario di Gombrowicz è una sorta di autocreazione artistica, Kronos ci fa conoscere la materia prima sulla quale si basò quell’autocreazione. In Kronos l’autore mostra davvero sé stesso». Al contrario del Diario in Kronos ci sono date e nomi reali e incontriamo subito tutte le sue fissazioni, vi sono persino annotazioni matematiche sulla numerologia che coinvolge la sua vita. È ricolmo dell’intimità della sua esistenza, vissuta intensamente. In più Kronos è uno specchio rivelatore del Diario. Rita Gombrowicz nella prefazione a Kronos scrive che «si può leggere il Diario senza Kronos, ma non viceversa». Qual è allora il valore di un’opera che dipende necessariamente da un’altra? Perché prendere la decisione di pubblicare Kronos? È forse esclusivamente materiale di studio per appassionati ed esegeti dell’opera di Gombrowicz? «Il valore di questo inedito – pubblicato 43 anni, 9 mesi e 28 giorni dopo la sua morte – sta nel fatto che ci permette di conoscere un Gombrowicz non “in posa”, privo delle numerose maschere che amava indossare per provocare e pavoneggiarsi davanti ai lettori». E questo non è un lascito meno importante della sua opera, poiché essa è strettamente legata alla sua vita. Per Gombrowicz la filosofia doveva essere stretta alla vita e, ovviamente, altrettanto doveva accadere viceversa. La vita e il pensiero non sono due entità slegate dell’opera di un autore. Kronos è «quasi un messaggio abbandonato in una bottiglia che ci arriva in una forma non lavorata, essenziale». Priva degli artifici letterari e delle pose dell’autore. «Il messaggio di uno scrittore geniale, a lungo non riconosciuto per il suo valore, tormentato dalle malattie e dalle ristrettezze, in lotta con il tempo che bruciava troppo rapidamente la sua vita sciupandone il desiderio dell’eterna giovinezza e frustrando le sue esuberanze; uno scrittore che seppe però trovare, oltre la disperazione, gli appigli per non affondare, regalandoci, anche con questo “diario privato”, un bizzarro lascito e una testimonianza, dal profondo, della vita che ribolle e poi si spegne». E questa testimonianza, questo Testamento è la sua vita e la sua opera insieme, strette in un legame inscindibile e dalla grande potenza trasformativa. La testimonianza di un risveglio.

Pornografia o «La tragedia dello sguardo immaturo» – 2018

Nonostante «Pornografia derivi da Ferdydurke»: nel piano editoriale del Saggiatore accade l’opposto. Andiamo a ritroso nel tempo, Pornografia – che è stato pubblicato per la prima volta nel 1960 – viene pubblicato dal Saggiatore l’anno prima di Ferdydurke – che invece era apparso per la prima volta nel 1938, in tutt’altro periodo storico e della vita dell’autore, soprattutto. L’ordine di pubblicazione del Saggiatore sta generando una sorta di anticlimax, a mio modo di vedere molto interessante. Abbiamo detto che Cosmo, Pornografia e Ferdydurke formano un ideale trittico, nel quale Pornografia e Cosmo ripropongono una struttura donchisciottesca molto simile. Pur con delle evidenti differenze. Tuttavia, possiamo considerare questa triade come una progressione o una variazione sullo stesso tema. Triade nella quale Pornografia è il punto mediano, una frizione di senso tra il precedente e il successivo.

In particolare, Pornografia è di certo il romanzo nel quale viene affrontata, in modo più diretto e palese, l’omosessualità e in generale la sensualità. «In Pornografia, la fascinazione omosessuale, che già si era palesata nelle opere precedenti di Gombrowicz trova il suo culmine» seppure venga sempre messa in scena attraverso delle distorsioni, delle deformazioni minime e ossessive della realtà. In questo caso sono due coppie: due vecchi amici interagiscono con un ragazzo e una ragazza molto giovani; «in questo rapporto tra giovani e vecchi, dove i giovani sono “manovrati” dai più anziani, si gioca la vicenda del romanzo». I due uomini, «Witold» e il suo compagno Sancho «Federico» Panza, costringono psicologicamente i due fanciulli a compiere dei gesti profondamente simbolici che spingono la loro morbosa affezione fino all’estremo, fino al pensiero astratto. «Pornografia è un romanzo sensualmente metafisico», esprime un erotismo filosofico, l’erotismo degli oggetti di cui si diceva sopra. Simile a quello di Georges Bataille, come notava Konstanty Jeleński. «Una parodia erotica con la tragicomica apparenza di un romanzo criminale».

Sembra incredibile, parlando di un autore morto nel 1969, quanto sia complesso annoverare tutti gli avvenimenti che hanno accompagnato la sua opera dopo la morte. A volte sembra che non finiscano mai. Nel 2012, quindi nel periodo tra le edizioni Feltrinelli e quelle del Saggiatore, oltre la pubblicazione di Kronos, accadde un altro particolare episodio, capace di far comprendere a Cataluccio «finalmente molte cose del “tono” dello scrittore polacco». Lo racconta nell’appassionata postfazione a Pornografia. Venne invitato e poté assistere al lavoro preparatorio dello spettacolo al quale Luca Ronconi stava lavorando: un adattamento teatrale di Pornografia.
«La forza di Pornografia sta proprio nel testo, nelle parole che conferiscono il “tono” dei vari personaggi, che, quasi malgrado sé stessi, concorrono a “mettere in scena” il tragicomico dramma». In effetti ho deliberatamente tralasciato di esprimere in maniera esplicita, fino a questo punto, come questa caratteristica attraversi tutta l’opera di Gombrowicz divenendone l’aspetto principale e fondativo. Il segreto vero e proprio della sua opera (e lo stesso direi di Nietzsche, in effetti) è la potenza del linguaggio. Gombrowicz andrebbe letto sempre anche ad alta voce, per poter assorbire completamente tutta la veemenza musicale delle sue parole. Ascoltare la sua voce significa lasciarlo apparire, evocare il suo spirito in forma di demone e poterlo finalmente ascoltare davvero.

Trans-Atlantico o «Fuggire al di là dell’acqua» – 2019

Raramente è stato scritto un romanzo così antinazionalista, antipatriottico e, allo stesso tempo, liberamente scandaloso, come Trans-Atlantico di Witold Gombrowicz». Trans-atlantico è il quarto libro della serie del Saggiatore, pur essendo stato il secondo romanzo pubblicato da Gombrowicz, nel 1953, dopo Ferdydurke e prima di Pornografia – l’esatto opposto dell’ordine saggiatoriano. Anche se Trans-Atlantico non si può forse nemmeno considerare un romanzo, sicuramente non della stessa genia della triade Ferdydurke, Pornografia e Cosmo. Potremmo dire che si tratta più che altro di un lungo racconto che narra di una esperienza di vita, trasfigurata dal linguaggio gombrowicziano. Tra l’altro, nella storia cronologica delle opere di Gombrowicz, accade che «per la prima volta il protagonista di un romanzo si chiama come lui, Witold, e il contenuto è smaccatamente autobiografico». Un dato molto importante se si considera che i libri successivi avranno tutti o quasi queste stesse caratteristiche.
Gombrowicz, nato polacco e vissuto per buona parte della sua vita in Francia, passò ben ventiquattro anni in Argentina, visto che, appena sbarcato a Buenos Aires, dove si sarebbe dovuto fermare solo per un periodo, la Polonia venne invasa. Trans-atlantico, già dal titolo, è palesemente il racconto di questa storia. Tuttavia, «la parola “Trans-Atlantico” allude a due aspetti», ed è la ragione per la quale venne erroneamente tradotta come Transatlantico. Ovviamente allude alla nave che portò Gombrowicz in Argentina, ma soprattutto, ci dice Cataluccio, «significa “attraverso l’Atlantico” e “al di là dell’Altantico”», rimarcando la condizione di distanza che intercorreva tra l’Argentina e l’Europa, e le catastrofi che incombevano minacciose nel luogo un tempo chiamato casa.
Trans-Atlantico racconta quindi l’avventura di Witold Gombrowicz, dal viaggio in Argentina fino al suo insediamento nell’ambiente sudamericano. (Appare anche un personaggio che sembra riferirsi palesemente al caro vecchio Borges, con il quale Witold ha un epico scontro verbale). Tutto ciò però è un pretesto per attaccare ferocemente la madre patria. «Trans-Atlantico è il primo e ultimo romanzo di Gombrowicz ambientato fuori dalla Polonia, ma forse il più “polacco” di tutti».

«Mentre la gioventù mondiale veniva nuovamente mandata al macello dal fanatismo degli adulti, Gombrowicz proponeva un’idea di Libertà che avrebbe dovuto aspettare il Sessantotto per poter, seppur parzialmente e contraddittoriamente, diventare qualcosa di reale». Esule senza patria e senza lingua, ribolle di rabbia verso il nazionalismo fanatico che sta distruggendo la sua Polonia. Lotta contro una mentalità incancrenita da secoli di storia.

L’opera di Gombrowicz è stata messa all’Indice per decenni, in Polonia praticamente non esisteva. Era una lettura considerata pericolosa perché sovversiva e contagiosa, infestante. «La battaglia e la polemica di Gombrowicz contro il nazionalismo polacco durarono fino alla sua morte. Oggi si vede ancora di più quanto fossero necessarie e giuste». Ed è per questo che continuano a provocare astio. Tanto che «nel 2007 il ministero dell’Educazione polacco ha cancellato Trans-Atlantico e Ferdydurke dalla lista delle letture obbligatorie nelle scuole». Azione la cui ostilità è stata confermata dal modo ignominioso nel quale il ministro Roman Giertych ha poi risposto alle numerose proteste – tra le quali quella della celeberrima poetessa Wisława Szymborska. Quella di Gombrowicz è una battaglia per la libertà dalle costrizioni e dall’idiozia. Una lotta per superare la condizione di infantilismo nella quale i fanatismi e i ciechi nazionalismi bloccano intere popolazioni e generano odio e paura. Ha a che fare con il controllo delle coscienze da parte di potenze politiche capaci di pensare solo agli interessi degli uomini di potere e allo sfruttamento della massa imbambolata.

Ferdydurke o «Il ghigno tragicomico dell’immaturità» – 2020 (*)

«Il primo romanzo di Witold Gombrowicz, Ferdydurke (1938), è ancora oggi un testo che, oltre a grandi meriti letterari e comici, mantiene una notevole carica eversiva, tanto che in Polonia alcuni lo guardano con sospetto e diffidenza, considerandolo ostile alla Patria, alla Morale, all’Educazione. Un libro prezioso quindi, come si conviene a un vero “classico”, per la gente di oggi, e soprattutto per i giovani, di tutte le nazioni di un’Europa in cui stanno tornando in auge un pericoloso nazionalismo, sentimenti di intolleranza religiosa e sociale, un moralismo bacchettone in cui trionfa, proprio come negli anni trenta, l’immaturità».

Sembra quasi di rileggere l’editoriale che introduceva il numero sette della rivista «Riga» dedicato a Gombrowicz, riportato all’inizio di tutto questo discorso. Quel numero di «Riga» era del 1994, ventisei anni prima dell’apparizione delle parole appena citate, contenute nella postfazione a Ferdydurke dell’edizione appena pubblicata dal Saggiatore. Ferdydurke, essendo il primo romanzo compiuto di Witold Gombrowicz, ed essendo stato scritto proprio in quel periodo della sua vita, con quella immaturità, è un libro particolarmente sconvolgente e trasformativo. Probabilmente ha cambiato la vita di Cataluccio, sicuramente ha cambiato quella di «Konstanty Jeleński (1922-1987) al quale si deve la riscoperta di Gombrowicz nel dopoguerra e la sua conoscenza in Europa». Ha cambiato quella di Wojciech Karpiński (1943-2020), alla cui memoria è dedicata la postfazione. Forse cambierà la mia, forse cambierà la vostra. O forse l’ha già cambiata.
«Gombrowicz iniziò a scrivere Ferdydurke all’età di trent’anni (attorno quindi al 1934), proprio nel mezzo del cammin della sua vita, in un momento che lui stesso definisce di crisi», ed effettivamente il romanzo è una resa dei conti. «Una beffarda resa dei conti con una realtà in cui la stupidità regna sovrana e gli individui sono ormai delle marionette prive di senso». Il tema dell’immaturità e dell’infantilismo in Ferdydurke regna sovrano, anche nello stile e nel linguaggio dell’opera. Inoltre, come abbiamo già detto, era un testo che anticipava in modo sorprendente le istanze dell’esistenzialismo ed era immerso in una matrice filosofica precisa, che risultò poi chiarissima al confronto con certi pensatori.

«Ferdydurke ha una struttura del tutto unica: una narrazione tripartita, interrotta da due intermezzi buffoneschi (Filidor foderato d’infanzia e Filibert foderato d’infanzia) che non sono collegati né all’azione né ai personaggi del romanzo, e da due capitoli-saggi («Premessa a Filidor foderato d’infanzia» e «Premessa a Filibert foderato d’infanzia»), altrettanto buffoneschi, in una perfetta fusione di realtà e inverosimiglianza»

La storia narrata ha come protagonista Giuso e il suo paradossale ritorno all’adolescenza, verso un’insopportabile infanzia. Lo sguardo di Gombrowicz deforma tutto con un piglio surreale tragicomico. «Ferdydurke è un romanzo contagioso: ha sparso burle surreali ovunque». E questi giochi di parole, queste «burle, filosofiche e giovanilistiche sembrano essere efficaci soltanto nell’idioma nel quale sono state pensate». Anche per questo doveva risultare molto difficile trovare un linguaggio che potesse riprodurre quello stesso effetto. Ed è proprio a causa di ciò che gli aneddoti riguardanti le varie traduzioni di Ferdydurke sono davvero tanti e alcuni davvero molto divertenti. A cominciare dalla prima traduzione einaudiana che apparve in Italia sul calco di quella francese, di cui si è già parlato. In Argentina, per esempio, fu lo stesso Gombrowicz, con un gruppo di amici e con il fratello, a condurre una traduzione strampalata e molto creativa (visto che loro non parlavano spagnolo e dovevano comunicare in francese per spiegare il significato di ogni parola. Senza considerare il contesto nel quale avvenne questa traduzione, visto che si trattava di un gruppo di amici dedito alla perdita di tempo e alla perdizione in generale). Una traduzione profondamente gombrowicziana. Il dato significativo è che Gombrowicz volle che la traduzione in spagnolo restasse proprio quella. Era affezionato e credeva che quel lavoro rispettasse pienamente lo spirito anarchico e surrealista della sua opera. Appare quindi «significativo che lo scrittore e critico argentino Ricardo Piglia abbia seriamente sostenuto, non senza ragioni, che, grazie al suo Ferdydurke, Gombrowicz sia “uno scrittore argentino e addirittura uno dei più importanti creatori della lingua letteraria argentina contemporanea”».
Ferdydurke è un romanzo che non termina nelle pagine ma ne fuoriesce ed entra nella realtà perturbandola, cambiandole i connotati, deturpando la sicurezza con la quale siamo abituati a concepire il nostro mondo, confortevole e sicuro ma profondamente falso.

Anti-Conclusione

Un dato molto curioso della nuova edizione di Ferdydurke è la presenza – come prefatore e traduttore – di Michele Mari. Per chiunque conosca questo grande scrittore dei nostri tempi il collegamento risulterà abbastanza naturale, in quanto Mari ha spesso parlato dell’opera di Gombrowicz come una delle più importanti del Novecento. Riprendendo anche le parole di Milan Kundera a proposito di Cosmo. A detta loro «uno dei quattro o cinque libri più belli del Novecento». Tuttavia, ci si chiede chiaramente in che modo e in che termini Mari abbia partecipato alla traduzione, di un testo poi così complesso da tradurre. Francesco Cataluccio mi ha spiegato che questa sarà la versione di Michele Mari, più che la traduzione fedelmente letterale del testo. La cosa mi ha subito sconvolto ed entusiasmato.
Forse chi non conosce l’autore potrebbe in qualche modo domandarsi come e perché questo scrittore possa prendersi la briga di riscrivere la sua propria versione di Gombrowicz e come sia possibile che il curatore, da più di trent’anni, della sua opera, dell’edizione critica filologica delle sue opere maggiori, possa esserne felice ed entusiasta e parlarne con un tale trasporto, confessandomi anche di aver avuto, leggendo la traduzione – di Irene Salvatori e di Michele Mari per la precisione –, la stessa sensazione e lo stesso senso di rivelazione che si era presentato nell’affrontare il lavoro sulla riduzione teatrale di Pornografia fatta da Ronconi. Una totale immersione nello spirito del testo e quindi un’assoluta adesione al linguaggio gombrowicziano. Mi è bastato leggere la prefazione per entrare subito in sintonia con la visione linguistica di Michele Mari, dopodiché inoltrarmi in questa traduzione splendida, surreale, magniloquente e anche violenta, per certi versi, è stata un’esperienza potente, profondamente gombrowicziana.

«Pagina dopo pagina, frase dopo frase, il compromesso instabile fra queste lingue velleitarie ci dice che la parola non è mai neutra, che è sempre una forma di azione e di abuso, e che di abuso in abuso, per adesione o reazione, noi lettori siamo a nostra volta bisbigliati e modulati: siamo, letteralmente, gombrowiczati («e chi l’ha letto è una tromba!»)»

Questo è Michele Mari che commenta Ferdydurke e sono le parole perfette per descrivere questa sua straordinaria versione, all’interno dell’opera di Gombrowicz curata da Francesco Matteo Cataluccio. La ripubblicazione dei testi gombrowicziani – accompagnata da una curatela così attenta, in grado persino di potenziare quella che è già un’esperienza dalla portata immane fin dalla sua versione originale – oggi più che mai deve risultare essenziale per il lettore attento, quel lettore disposto a mettersi in discussione, a fallire, a soffrire, a cambiare sé stesso. Il lettore di Gombrowicz è un lettore coraggioso perché si trova sempre davanti al problema, e di solito il problema è dentro di noi. È un lettore anche spregiudicato. Un lettore che non ha paura della sfida di una lingua sontuosa né delle profondità dell’abisso. È un lettore capace di affrontare il Dolore. Sta forse lottando per liberarsi dalla Forma, o imparerà a lottare. E di queste persone abbiamo bisogno, ne abbiamo sempre necessità ma oggi è forse ancor più urgente, ancor più necessario – termine ingiustamente stuprato ma quanto mai pregnante in questo caso specifico.
Abbiamo bisogno di persone che leggano Witold Gombrowicz.

 

 

 

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↔ In alto: illustrazione © Tullio Pericoli, Witold Gombrowicz, 1991, acquerello e carboncino su carta, cm 34×22,5. Per gentile concessione.

(*) La nuova edizione di Ferdydurke (Il Saggiatore) sarà disponibile dal 3 dicembre 2020 in tutte le librerie

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